TOUR DE FRANCE, IL CAST DELL’EDIZIONE 2009
Colpo di coda dell’assolutismo armstronghiano? Sigillo sull’unipolarismo contadoreño? Prima puntata dell’equilibrio di potenza della nouvelle vague? Smarrito fra grotteschi deliri burocratico-dirigenziali e nella selva oscura farmaceutica, il ciclismo vive una fase di transizione. E come tale, incerto è ancora il confine tra un crepuscolo restio a tramontare ed un’aurora ancor dubbia nell’indorare il cielo di un nuovo giorno.
Luglio è scoccato e l’aria, afosa per i più, diventa frizzante al solo pensiero che in Francia sta salpando un nuovo Tour de France (non un Tour nuovo, badate bene). Che estate sarebbe senza la Grande Boucle? È l’appuntamento fisso per centinaia di migliaia di persone che prendono le ferie per gustarsi un carrozzone a pedali terremotato e gonfiato di botte e chissà cosa. Verrebbe da chiedersi cosa spinga ancora sulle strade il pubblico, risorsa ultima di questo sport che quasi gode nel dimenarsi nella fanghiglia, ma non è questa la sede. Qui conta rilevare l’amore incondizionato della gente per la bici, nonostante sia “lillipuziata” (passata il termine) da campioni intravisti solo al binocolo. Già, nonostante il Tour di quest’anno non abbia un vincitore annunciato. O, forse, proprio per questo, per la sua natura sfuggente e avventurosa, per il suo spettro di contendenti provenienti da ogni cantone del pianeta. Scopriamoli, dunque, insieme.
Densità di temi e di coppe in saccoccia obbligano a dedicare l’incipit ad Alberto Contador, su cui sono puntati molteplici fasci luminosi. Si sovrapponessero, risplenderebbe della luce che merita; si intersecassero, sarebbero tutti debolucci. Pulzello già affermato nel Gotha dello sport, Contador ha finora vissuto nella bambagia, sportivamente parlando (perché un aneurisma cerebrale non è un’inezia): coccolato da Saiz prima e da Bruyneel dopo, nei grandi giri vinti ha avuto la strada spianata dalla decapitazione di Rasmussen (Tour 2007), dall’incertezza sulla sua forma (Giro 2008), da latitanza di avversari (Vuelta 2008). Sincronizzato col tic-tac, il percorso gli calza a pennello ma dispone di poche carte da giocarsi (Verbier, forse, Le Grand Bornand, Mont Ventoux), al netto d’una ravvisata scarsa propensione a brandire, da vero leader, le redini della corsa. Senza contare la pressione di dover dimostrare di meritarsi il Tour, militando in una squadra borderline.
Già, la squadra. Capitolo a parte. Il pollaio dell’Astana rischia di sfornare poche uova, tanti galli l’affollano. Contador porta marchiato a fuoco nelle gambe il ricordo della Parigi-Nizza, quando la pressione del Grande Fratello Armstrong lo mandò del tutto fuori giri. L’esercito delle fate turchine conta inoltre quattro uomini da podio nelle corse a tappe: Leipheimer, Kloden, Zubeldia, Popovich. Sa tanto di regime dei colonnelli. Popovich riferisce che la milizia sarà equamente divisa fra quattro uomini per il madrileno e tre per il texano. Bruyneel aggiunge che il capitano designato è Contador, con Leipheimer delfino (a momenti anche delfino di se stesso). Il burattinaio non ha mai gradito comporre gerarchie: suona strano, come una serenata in tempo di guerra. Il percorso, d’altronde, non aiuta l’Armstrong che abbiamo visto al Giro, disarcionato nelle tappe “facili” (ovvero corte ed esplosive) e “rodeante” in quelle estreme come Pinerolo e Monte Petrano.
Fregandocene noi di fare gerarchie destinate a saltare per aria, concediamo a Carlos Sastre la seconda menzione. È pur sempre il vincitore uscente. Ha affrontano un periodo in sordina, di riposo dopo un Giro solido con l’unica pecca del Blockhaus: è un altro che non metabolizza le tappe “singleclimb” (monoscalata ma è più cool l’inglese) di cui il Tour è infarcito. L’estrema giornata del Monte Ventoso potrebbe essere la sua. Proseguendo per meritocrazia, Denis Menchov cova il sogno di una doppietta Giro-Tour riuscita solo ai grandi (Roche a parte). Anch’egli, dopo il sacco di Roma, s’è ritirato nella sua Pamplona per fare quadrato intorno alla sua tattica da Indurain delle steppe. Con un’unica differenza, rispetto al Navarro. È pure un eccellente scattista. In Francia non ha mai fatto faville, pagando sempre la terza settimana, ma si corre pur sempre su un percorso al limite dell’irrispettoso verso la storia del Tour, a giovamento dell’incertezza, l’unica sicura sovrana sino all’approcciar delle Alpi.
Finalmente arriviamo a Cadel Evans, l’australiano dagli occhi tristi. Non fosse nato nel paese più solare e rilassato al mondo, chissà che faccia avrebbe. I suoi incavi recano una comoda inclinazione per le lacrime, sgorgate a fiumi in questi anni di professionismo solcati da seri infortuni, cotte clamorose e sconfitte brucianti. È il meno dotato della truppa, brutto a vedersi almeno quanto strappa applausi con la sua grinta del perdente. Attacca sempre a testa bassa ma mai fa il vuoto. In più, è quello i cui dati indicano una curva declinante di rendimento nella terza settimana. O s’inventa una crono monstre o un suo sorriso sui Campi Elisi non farebbe quadrare il cerchio. Lo abbiamo fatto sembrare una mezza tacca ma non è così: è soltanto un corridore antico. Postilla: la squadra parte decapitata di Thomas Dekker, trovato positivo all’EPO ad un controllo di (udite udite) 19 mesi fa.
Cosa accomuna Kim Kirchen ai fratelli Schleck? Va beh, oltre a rappresentare il 75% del Lussemburgo a pedali? Dispongono d’una corazzata che tremare il mondo fa: la Columbia per lo scattista che sogna in giallo (per noi, incubi), la Saxo Bank per i due pioppi, pesanti carte da giocare nella crono a squadre (in cui comunque non raggranelleranno più di 30” rispetto ai rivali), nello sfinire i rivali (Cancellara e Voigt farebbero comodo all’ANAS per asfaltare mezza Italia), nelle lunghe cavalcate alpine, lanciando gregari allo sbaraglio. Si rivelassero affamate come in Svizzera (dove il loro dominio ha destato qualche malumore in gruppo), Kirchen potrebbe addirittura sognare il podio, Andy Schleck qualcosina in più, al netto d’un percorso forse solo nell’ultimo atto in Provenza nelle sue corde. Può però far riflettere le allodole nello specchietto di Franck, quarto lo scorso anno. O di Cancellara, il cui smisurato ego che da sempre culla i Campi Elisi potrebbe trovare uno spiraglio con questo percorso poco accidentato.
Sulle strade transalpine si riproporrà un duello che cova sotto la cenere di dodici mesi: Roman Kreuziger contro Andy Schleck. Cambia il palcoscenico. Dirottati un anno fa, come a Wimbledon, sui campi laterali, da sabato giocheranno sul campo centrale. Il ceco della Liquigas, ancora tenera azalea dell’86, parte senza pressioni dalla squadra, anche vista la spietata concorrenza, ma in lui già si ravvisa la macchina perfetta per le corse a tappe, ancor più che la già solida orchidea lussemburghese. Alla loro ombra, crescerà timida la ginestra di Vincenzo Nibali, cui un posto nei dieci varrebbe una vittoria ma cui, è realistico, manca sempre la zampata. Dice di averla maturata ma contro simili baroni pare ci sia poco da fare.
Chiudiamo con l’elenco dei comprimari, dei personaggi in cerca d’autore o d’un posto al sole. Fra i dieci proveranno ad entrare il possente Karpets (5° allo Svizzera), il cronofilo Devolder, il Peanut Gerdemann, i baschi volanti Anton e Astarloza, il disneyano Vandevelde, l’obliato Pereiro (assieme al paggio Sanchez) e il russo Vladimir Efimkin. Cercando, invece, di ipotizzare qualche possibile sorpresa pescata da Madama la Fortuna nel mazzo dei germogli, attesa per il ciclismo che verrà suscitano il portoghese Rui Costa (Caisse d’Epargne, già in luce al Tour de l’Avenir), il colombiano Rigoberto Uran e i francesini Coppel (FdJ, forte a crono) e Rolland (Bbox, amante della fuga).
Federico Petroni