VUELTA, POVERA E BELLA: ESISTE CICLISMO ANCHE SENZA MOSTRI SACRI
Roglič appaia Heras col record di Vuelte vinte, a quota quattro. Una bella gara che riconcilia con lo sport gli amanti di un ciclismo diverso dai wattaggi atomici.
La crono tracciata con creatività e cuore fra i barrios di Madrid viene vinta da Küng, uno dei grandissimi indiscutibili di questa specialità che, udite udite, porta a casa solo in quest’occasione per la prima volta in carriera una tappa di Grande Giro, a testimonianza appunto di come la disciplina stia vivendo in questi anni delle punte qualitative a dir poco clamorose. Ed è tutto dire che questo fior di fenomeni contro le lancette vengano spesso e volentieri ramazzati sul loro terreno, cioè le tappe a cronometro, dai mostri tout court di questi anni, Evenepoel (e va benissimo, perché di questo esercizio fa una delle proprie eccellenze), Van Aert (e sia pure, dopotutto non è uomo di classifica, per lo meno, e fa una bandiera delle polivalenza), Roglič (è una sua prerogativa in fin dei conti), Pogačar (sì, d’accordo, ha il fisico, sappiamo che è bravo, altro?) ma talvolta perfino da …Vingegaard! Tempi duri insomma per i Küng, i Ganna, i Bisseger, i Foss, gli Oliveira e tanti ancora. Non c’è da stupirsi se un Affini si “trattorizzi” e trovi il proprio spazio nel peloton assumendo il ruolo di “ammazzafughe” del quale cui fu quasi eponimo Tim Declerq.
In questa Vuelta, però, torna sotto i riflettori il ciclismo umano, o degli umani, e così stavolta Roglič si deve accontentare del secondo posto di tappa. È sintomatico anche che dietro questi due non ci sia la solita trafila di uomini di classifica con la “scusa” (scusa, sia chiaro, con un suo fondo di verità) per la quale dopo tre settimane con tanta montagna i cronomen sarebbero più spompati di chi lotta per il vertice. Stavolta invece annusano scampoli di alta classifica – parlando sempre di piazzamenti di giornata – anche un Cattaneo, in forma strepitosa, inspiegabilmente castigato dal team che l’altro giorno gli ha impedito di lottare per una vittoria di tappa, col solo fine di soccorrere molto ma molto tardivamente (e qui sta il vulnus) il capitano Landa finito in un momento di sbando; oppure Baroncini, il cui talento cristallino è ancora in attesa di trovare una propria definizione e approdo, per un ciclismo come quello azzurro i cui orizzonti ormai assumono i toni cupi di un abisso oceanico senza risalita. I migliori uomini di classifica al netto di Rogla sono Skjelmose, che agguanterà così in extremis una top 5 nella generale a discapito di Gaudu (unica svolta in tutta la top 30 della CG, a parte Sepp Kuss che scala in giù al 14º posto, sì proprio lui che l’anno passato vinse, e nella crono piatta perse meno di un minuto da Rogla contro i tre e passa di stavolta), e poi ovviamente O’Connor, che consolida il secondo posto su Mas: e d’altronde Lidl-Trek e Decathlon sono gli unici due team la cui prestazione d’assieme faccia – ma proprio leggermente – denotare un afflato prestazionale più positivo rispetto alle aspettattive, in linea peraltro con quanto siamo andati vedendo durante tutto l’anno.
E questo ci porta direttamente a un altro grande tema di questa Vuelta, il ruolo delle squadre. Il ciclismo è sempre più uno sport di team e superteam, in cui pare che la differenza di resa di un atleta dipenda in gran parte dell’andazzo generale della squadra in cui milita, così come le squadre nel giro di pochi anni possono avere sbalzi prestazionali talora poco comprensibili per entità e repentinità.
Ebbene, questa Vuelta ha consentito di rivalutare certe parti del puzzle. È palmare ad esempio che né Van Aert né Roglič abbiano toccato i vertici prestazionali degli anni a bordo di uno squadrone Jumbo che letteralmente volava, ma è altresì palese che entrambi abbiano confermato i propri picchi qualitativi al di là di un anno difficile per il team nel caso del primo e al di là del cambio di formazione per quanto concerne il secondo. Sotto altro angolo prospettico, dopo la vittoria peraltro non così impronosticabile di McNulty in molti si erano lanciati in profezie risibili a proposito dell’inevitabile dominio del Team UAE, indiscutibilmente in annata di grazia: eppure, nonostante le qualità di un Almeida o di un Adam Yates siano a questa altezze indiscutibili, sia quale sia la squadra in cui corrono, ambedue hanno potuto manifestare il proprio talento, ma senza trasformarsi nelle potenze inarrestabili che troppi pronosticavano . Anzi. Adam si è ritagliato un ruolo di cacciatore di tappe con un occhio solo di rimbalzo alla classifica, peraltro con meno successo di un Carapaz dedito allo stesso esercizio, e non parliamo di O’Connor. Almeida si è dovuto ritirare causa covid dopo 9 tappe, ma anche prima di stare male era apparso un solido pretendente al podio piuttosto che non un potenziale dominatore. Anche Vine (maglia a pois blu finale di miglior scalatore) e Soler (vittoria di tappa condita da tripletta di terzi posti), reduci da una prestazione molto positiva anche perché liberi da ogni obbligo di gregariato, sono apparsi arrembanti ma certamente non invincibili: in ogni caso, altrettanto credibili quanto il resto dei vincitori di maglie secondarie o tappe, vale a dire che sono apparsi sostanzialmente in condizione di esprimere il proprio talento ma senza i fuochi d’artificio che alcuni si immaginavano a priori, e che altre squadre hanno esibito nel passato recente o meno recente. Del tutto confrontabili, per dire, agli uomini Jayco, quel Groves che da tempo bussa alle porte dell’elite degli sprinter e che in Spagna trovo terreno privilegiato (classifica a punti grazie all’incidente di Van Aert e tre tappe) oppure quel Dunbar che fa doppietta, ora in fuga, ora staccando i migliori – contingentemente – in salita. Se proprio vogliamo sono sembrati più roboanti i numeri degli uomini dei team invitati di seconda fascia, ma in questo caso possiamo supporre che la motivazione, gliela si leggeva in volto, spieghi parecchio nelle vittorie di Castrillo o Berrade: oppure, più in generale, possiamo dire che in un ciclismo più “alla mano” ci sia meno salto verticale anche fra le diverse categorie di team, com’era fino a qualche stagione fa peraltro.
Spazio a un ciclismo un po’ diverso, come si è detto, e ne è l’emblema il secondo posto di O’Connor che, fatte le debite proporzioni, ricorda l’impresa di Arroyo al Giro 2010. In quel caso la fuga era stata ancora più torrenziale, mentre in questo caso va detto che O’Connor, in piena consonanza con una annata globalmente eccellente del team Decathlon, ci ha messo atleticamente molto del proprio, inserendo qualche picco prestazionale da urlo in una gara che complessivamente è stata da applausi per tenuta. Ma se O’Connor col suo secondo posto finale e il vittorione in solitaria lasciando il gruppo a sei minuti è stato il simbolo di questa tendenza, non ne è stato certo l’unico rappresentante, dato che su scala minore hanno fatto classifica così anche Sivakov (senza vincere tappe), Yates (mancando la top 10), Carapaz, che pure non vince tappe e resta giù dal podio ma ottiene col quarto posto finale in CG un risultato che pareva impronosticabile, proprio grazie a un paio di raid coraggiosi. Non entra nella categoria, però rende l’idea: se perfino Mas a volte si è mosso a più di tre km dalla linea di meta!
A questo proposito, la Vuelta 2024 è stata anche la rivincita delle squadre spesso sbeffeggiate nel ciclismo delle cilindrate esagerate per la loro presunta inadeguatezza, come la Movistar o la EF: Mas, appunto, pur con i suoi umanissimi limiti ormai ben conosciuti, vuoi tecnici, vuoi caratteriali, si conferma scalatore di livello e uomo di classifica credibile. Carapaz, pur mancando il podio, torna ad essere uno dei pochi in grado di tenere le ruote dei top top top quando la strada sale, seppur non a tempo pieno; così ratifica la propria tenacia e il proprio fondo, tanto da far sospettare che una fetta non da poco degli stravolgimenti in corso nel ciclismo di oggi dipendano anche da un mutato approccio al disegno dei tracciati.
Per esemplificare: è indiscutibile che Pogačar sia uomo di fondo pazzesco , ma è altrettanto indiscutibile che le sue pochissime battute a vuoto, quando ne ha avute, siano state sul piano della continuità all’atto di entrare nel profondo dei GT; è indiscutibile che Vingegaard sia corridore di solidità granitica nel cumulo delle tappe, ma è altresì indiscutibile che in modo apparentemente paradossale l’atleta desse il meglio di sé (fino a quest’anno almeno) su tracciati di non esageratissima durata oraria. Ebbene, è altrettanto indiscutibile che l’andazzo del ciclismo moderno e soprattutto del Tour de France (pure del Giro di quest’anno, mentre la Vuelta che ha invertito la tendenza… partiva da una base già “modernissima” di tappe brevi e monosalita) faccia tirare ulteriore vento, come se non bastasse quello elargito da madre natura e dai superteam di appartenenza, a favore delle caratteristiche di questi fenomeni, e parallelamente a discapito dei Carapaz, dei Mas , degli O’Connor, degli Adam Yates, ma anche – nel passato prossimo – dei Bardet, oppure aggiungiamoci anche un Carlos Rodríguez.
Due parole su quest’ultimo per riscattarlo dalla sua condizione di uomo invisibile. Una buona Vuelta è stata distrutta da una defaillance come nel caso di Landa: non è un caso che entrambi venissero da un Tour corso comunque per la classifica, con un risultato eccellente nel caso di Landa, più discreto ma ad ogni modo non deludente per quanto concerne Carlos Rodríguez. Prima 5º poi 7º il basco, 7º e poi 10º l’andaluso. La sensazione per entrambi è ad oggi amara visto che alla Vuelta sembravano in lizza rispettivamente per il podio e la maglia bianca, anzi con buone chance di conseguire i rispettivi obiettivi; ma si tratta comunque di una doppia top ten che di fondo conferma la qualità di base notevolissima di tutti e due. Va soprattutto tenuto in considerazione il contesto: la Quickstep o T-Rex che dir si voglia sta avendo un’annata ambivalente, dove emerge prepotente il talento di Evenepoel, come in seconda linea quello dello stesso Landa, ma dove pure spiccano chiaramente troppe manchevolezze a livello di preparazione o strategia globali del team. E Landa ha ormai la sua bella età, anello di congiunzione che permette di paragonare le performance di due generazioni molto diverse, cresciute in un modello intrinsecamente diverso dello sport, dove però il basco si è sempre dimostrato all’altezza… anche se mai “abbastanza” all’altezza da finalizzare con vittorie di peso. La INEOS a propria volta è molto ma molto distante dalla corrazzata che fu, per parecchi motivi, a cominciare dal disinvestimento “energetico” da parte sia della proprietà sia, a livello politico, delle istituzioni pubbliche d’Oltremanica. Carlos Rodríguez però è ancora molto giovane; inoltre è pure lui uomo di fondo più che da fiammate, e questa “doppia top 10” ricorda da vicino quella “doppia top 20” che nel 2008 deluse cocentemente molti appassionati in attesa dell’uomo della provvidenza, quando fu raccolta fra Giro e Tour da un Nibali praticamente coetaneo del Carlos Rodríguez attuale. Ora, dubitiamo anche solo per ragioni statistiche che “il leone di Almuñécar” possa replicare quanto seguì, ma “lo squalo di Messina” dopo quell’annata passò i dieci anni (!) successivi senza mai più uscire dalla top 10 di nessun Grande Giro portato a compimento, eccettuando il TDF 2016 dove preparò le Olimpiadi: e su 14 GT finiti, per 10 volte salì sul podio finale. Come detto, la questione non è se l’andaluso possa replicare questa carriera pazzesca (non proprio facilissimo), ma è semmai rendersi conto di come delusioni e aspettative su atleti giovani vadano pesate e comprese rispetto al contesto, con pazienza; in questo caso purtroppo anche accettando che il ciclismo attuale non sembra favorire questo profilo atletico.
In conclusione, una Vuelta divertente e varia, specie nella prima parte, mentre la seconda si è un po’ appiattita sul concept del monosalita ad libitum. Gran merito di questa apertura va dato appunto al disegno del percorso specie nella prima metà della competizione, giusto per sottolineare che se si vuole scompaginare un po’ le carte è importante lavorare sui tracciati. Non è un caso se al Tour la tappa più bella e memorabile in assoluto sia stata quella di Le Lioran. Roglič è stato fenomenale nel districarsi fra le difficoltà fisiche dovute agli infortuni accumulati e le puntuali debolezze di squadra a causa sembra di un virus. La gestione tattica del complesso della Vuelta è stata stratosferica, come spesso accade con lo sloveno in corsa. E come spesso succede proprio alla Vuelta,Roglič ci ha anche regalato momenti di autentico spettacolo con attacchi violentissimi o tirando i rivali al limite dello sconsiderato, il tutto alternato logicamente a tappe viceversa di attesa o stallo in cui ha pensato soprattutto a difendersi e recuperare, con lo spettro per tutti della sua staffilata finale. Proprio la varietà dello spartito maneggiato sempre con la massima padronanza è stato il suo punto di forza, ancor più che la comunque netta superiorità atletica. È per questo che lo sloveno possiede chiaramente lo status di campione che lo situa come unico trait d’union o quasi fra il mondo degli umani e quello dei fuoriserie.
Nota più negativa della Vuelta, le riprese televisive pessime, oltre il credibile. Non ci siamo. È vero che la Vuelta ha un budget che è un 10% di quello del Giro e un 5% di quello del Tour, ma su questi aspetti bisogna investire sì o sì, né d’altro cando le limitazioni economiche (peraltro arbitrarie, nel senso che essendo la Vuelta di ASO, cioè dei padroni del TDF, volendo si potrebbe dotarla meglio…) giustificano appieno questo tipo di carenze. Si vede di meglio in gare organizzate da organizzatori di ben minor taglia in Italia. No, ecco, forse la palma di nota peggiore in assoluto non è nemmeno della TV. Il peggio è il silenzio vergognoso dell’associazione corridori a fronte di situazioni climatiche dove ben due atleti han visto compromessa la loro gara da seri problemi di salute (colpo di calore) durante la competizione, fra cui Tiberi. Il tutto condito da pietose bugie sul fatto che “nessun atleta si sia lamentato” quando invece le rimostranze dei corridori sono state rese pubbliche a mezzo stampa. Questa è la prova del nove di come le chiacchiere sulla salute e sicurezza dei corridori tirate in ballo ormai sistematicamente, edizione dopo edizione, per boicottare tipicamente il Giro siano state a dir poco pretestuose. Anzi, usarle per secondi fini le inflaziona e squalifica. Questo fa il paio con la Freccia Vallone, sempre posseduta da ASO, dove pure problemi di salute reali e gravi, non immaginati o congetturabili, furono comportati da freddo e pioggia che condussero qualche atleta all’ipotermia; pure lì, niente da dire da parte del sindacato corridori. Il buon O’Connor che da compaesano di chi quel sindacato lo dirige ebbe a spalleggiarlo durante il Giro con dichiarazioni di fuoco; alla Vuelta si è ben guardato dall’aprire bocca, anche quando i problemi organizzativi della corsa l’hanno lasciato orfano di scorta in cima a una montagna, in maglia rossa di leader ma abbandonato al suo destino; e quando poi lui decise di tornare per conto proprio in albergo alla buona, è stato multato per aver mancato il podio. Ma questi sono organizzatori modernissimi e bravissimi, che non si dica!
Gabriele Bugada