SUPERDÉVOLUY E I MASTINI DELLA GUERRA: VENI, VIDI, VICI, REMCO, POGI, RICHIE

luglio 18, 2024
Categoria: News

Torna l’aurea via di mezzo nel Tour fin qui spesso schizofrenico delle troppe tappe piatte senza fughe, neppure tentate prima di finire confusamente in volata di massa; oppure viceversa del tutti uno per angolo, staccati di minuti. Oggi no, oggi è battaglia corpo a corpo, e col dente avvelenato.

Tappa perfetta per Pogacar, approccio da classica dura, finale prima arcigno con giro di vite nel doppio tornante a scollinare, poi misto, tutto da rilanciare con arrivo in leggera salita. Tappa perfetta per Pogacar come già quelle italiane, quella degli sterrati, quella del Massiccio Centrale. Tappa, insomma, che Pogacar farebbe un gran bene a lasciar assopire, perché tutti i precedenti si sono rivelati forieri di grandi dispendî e pochi ragni cavati dal buco. A meno che, certo, quelle mutue frizioni e quello stringere i denti non siano stati l’autentica causa dell’erosione che ha consumato i piloni non così solidi della preparazione di Vingegaard, proprio come era accaduto a parti invertite nel TDF 2023. Ad ogni buon conto, ora che la maglia è più gialla del sole di luglio, non vale la pena di svenare se stessi ma soprattutto la squadra per guadagni destinati a essere cronometricamente modesti: ci attende da domani un trittico di tappe d’impegno crescente in termini di team.
E, per una volta, tutto sembra concorrere a questo disegno ordinato: ordinato fino a un certo punto, perché apre la strada, letteralmente, al caos vorticoso in cui si traducono le migliori tappe da fughe, quelle più sopraffine. Ma il menù apparecchiato è ancor più appetitoso, in varie portate: prima di tutto ci sarà la lotta per formarla, questa fuga, con l’antipasto annesso delle valutazioni tattiche qualora in fuga ci finiscano gregari degli uomini forti della generale. Averne davanti può significare disporre di importanti teste di ponte per un attacco di media gittata, ma anche, difensivamente, che se la bagarre fra i migliori si dovesse scatenare troppo presto, perdendosi dunque il supporto immediato, ci sarebbero uomini davanti da fermare per venire in soccorso a un capitano isolato. Seconda portata, la guerra di trincea punto a punto per la maglia verde finale: sembrava che l’eritreo Girmay fosse definitivamente destinato ad essere il primo africano investito del primato finale nella classifica ormai associata agli uomini veloci, invece la forma crescente di Mathieu van der Poel, qui ad allenarsi per le Olimpiadi sotto le umili vesti di assistman per il compago Philipsen, si è tradotta all’istante in un terzetto di trionfi per il belga, mentre Girmay ha perso una palata di punti con una caduta in un finale cruciale. Ora la battaglia si articola nei traguardi intermedi rimasti, posizionati spesso in modo peculiare nel tracciato di tappa. Infine, va da sé, la vittoria di tappa in quanto tale.
Con queste premesse non sorprende che la fuga stenti a prendere forma: su un percorso che prevede infiniti falsipiani a salire, senza respiro, rimbombano come tuoni in un temporale estivo gli attacchi e i contrattacchi, uno via l’altro, tanto più che si alza il vento e il peloton apre e chiude i propri ventagli con l’ansia di una beghina in una chiesa afosa. Due ore a 48 km/h di media su un nastro d’asfalto che implacabile accumula in quel centinaio scarso di km la bellezza di 1.300 metri di dislivello tutto positivo, senza uno straccio di contropendenza per rifiatare. Se ci sono luogotenenti degli squadroni, serra le fila il controsquadrone rivale, se nell’attacco è assente un team che ancora non ha vinto niente, ecco che dovrà rincorrere per contrappasso e ulteriore tortura, se, più in generale, c’è modo di stroncare l’allungo, ci penserà l’Alpecin di Philipsen che vuole il traguardo intermedio, meglio ancora sganciando Philipsen in avanscoperta in un gruppetto nel quale manchi Girmay. Guerriglia di mestiere per la quale a poco vale il controllo dall’ammiraglia, le situazioni in testa al gruppo sono fluide e variabili più di un fronte burrascoso. Al più i direttori sportivi possono strillare di “chiudere, chiudere, chiudere”: intanto la fatica aumenta, il costo di imbroccare la fuga chiave si fa stellare, e le energie rimaste per il finale di partita pericolosamente misere.
Con questo clima se ne va un drappello di guastatori di lusso, uomini per tutte le stagioni accomunati da un motore clamoroso, Benoot (gregario di Vingegaard che ricordiamo soprattutto vincitore di una delle Strade Bianche più fangosa), il danese Cort killer delle tappe in tutti i grandi giri, dalla mezza montagna, ai muri, alla spiaggia di Viareggio, il rouleur lussemburghese Bob Jungels con una Liegi in palmarés, vinta in fuga ça va sans dire, e poi il francesino promettentissimo Romain Gregoire, qui ad imparare alla scuola di questi scafatissimi navy seals.
Ma dietro il gruppo ancora ribolle. Per fortuna di tutti, tranne che dei quattro davanti, arriva il traguardo volante, vince gli avanzi Girmay su Philipsen, un punticino in più accumulato, ma sostanzialmente un occasione in meno per il rivale belga.
Sullo slancio, si squarciano i cieli e scroscia un cataclisma di fuga da 50 atleti o giù di là, un terzo del gruppo praticamente. Per miracolo non c’è nessun vero uomo di classifica, ma sarà anche che ormai i “veri uomini di classifica” sono una dozzina, per non dire mezza dozzina, per non dire tre. Si rivedono tutti coloro che ci avevano provato e riprovato per quelle due lunghissime ore senza mai farcela, sia i fuggitivi che peraltro hanno provato e riprovato per così tante precedenti tappe, i Carapaz, i Mas, i Guillaume Martin, Simon Yates, De Plus, Aranburu, Mohoric… e poi, si vedono, gran novità alfieri di spessore di Visma e UAE a tagliare la scacchiera avvantaggiandosi “in diagonale”, Soler e Sivakov a coprire Pogacar, mentre Van Aert e Laporte si assomano a Benoot per costituire un’avanguardia di assoluto lusso per Vingegaard.
Mosse e contromosse, basta la reciproca copertura in questa guerra di dissuasione per calmare il gruppone, anzi il gruppetto o quel che resta del gruppo. Così quando arrivano le salite il vantaggio dei fuggitivi è già di sei, sette, otto minuti e può prender corpo la gara nella gara. Non senza, come vedremo, qualche incrocio di linee temporali.
Dopo qualche schermaglia sulla prima e più facile salita, sul Col de Noyer, teatro di una crisi tremendissima di Merckx provocata da Ocaña, oggi è Simon Yates ad accendere le polveri, saltando a velocità doppia i quattro evasi della prima ora, a cui si erano aggiunti un altro paio di cagnacci come Madouas e G. Martin. Dietro però di cagnacci ne arrivano un altro bel paio: Carapaz, mai scoraggiato dal suo laborioso indaffararsi senza costrutto nelle battagliatissime tappe di montagna vissute fin qui, scortato dall’inglese Williams, sorpresa di stagione nel gelo della Freccia Vallone. Le carte si rimescolano e sulle rampe finali durissime e dense di pubblico abbiamo un duello, restano soli Yates, composto come un ufficiale inglese, e Carapaz, ringhiante, col coltello fra i denti. Due re del fuorisella, l’uno ritmico, l’altro rabbioso, il primo però fiammeggiante, il secondo martellante. In una giornata così, chi la dura la vince. E stavolta la tappa è del duro Carapaz. Consolazione parziale di non poter difendere l’oro olimpico a Parigi, l’Ecuador ha un solo posto e sarà per scelta tecnica riservato a Narváez (che infilò Pogi nella prima tappa del Giro, dici niente). Con oggi Richard completa la trilogia, ha vinto tappe in ciascun Grande Giro, oltre ad aver raggiunto almeno il podio in tutti e tre (al Giro pure una vittoria finale con due scalpi di lusso come Nibali e Roglic). Probabilmente dietro a Roglic è lui il più grande e il più solido fra i corridori d’interregno, con l’umiltà di saper scegliere traguardi adatti a ogni stagione del ciclismo che si trova attorno, e di lottare sempre per essi con la massima grinta. Doveva proprio arrivare, questa tappa del Tour, remunerazione karmica minima dopo che decise di concedere al gregario Kwiatkowski quella in cui arrivarono assieme dopo una fuga a due leggendaria, quando entrambi correvano in INEOS, e quando lui, Richard, di tappe al Tour non ne aveva ancora vinte. Poi Yates, altro protagonista degli anni di mezzo, e poi Mas, comprimario di lusso, scalatore sopraffino ma sempre in cerca di un qualcosa in più.
E dietro? Dietro ci prova Ciccone, per riassettare la parte bassa della top ten, ma a Pogi non va. Niente contro Ciccone, è solo che evidentemente la maglia gialla con tutti quei Visma davanti vuole evitare che si scuota troppo il vespaio. Il ritmo sale, la pressione pure, la strada anche e in un momento il gruppo conta undici unità. Gli undici uomini che lottano per la top ten finale. Aria tesa, aria di guai, e allora sul muro più aspro in cima al Noyer, è Pogi stesso ad allungare forte… “a sgranchire le gambe”, avrà a dichiarare. L’arrivo è dietro l’angolo, due km all’insù, discesa ondulata, lungo falsopiano finale. Ma ce n’è di che lottare alla morte, perché Vingegaard va in affanno ed è invece Evenepoel ad apparire più convinto. Tornano utilissimi, fondamentali, cruciali gli uomini Visma avvantaggiatisi in precedenza, tutti quanti, Benoot, Van Aert, Laporte, perché Remco è scatenato e seppur in discesa, trattandosi di un tracciato poco tecnico ma semmai rettilineo e di forza, lancia al massimo dei giri la propria pazzesca cilindrata. Pogacar non prende il largo, anzi è presto ripreso, Vingegaard è riportato sotto dai propri scherani. Stallo. La maglia gialla impalpabilmente scivola dall’azione all’inazione: anche questo un atto di guerra, di guerra tattica. E Remco riapre il gas, supportato anche da un Hirt mimetizzato fin lì fra gli avventurieri della maxifuga. Pogi non reagisce, siede sereno a ruota, tocca ai Visma: Vingegaard è ben protetto ma il supporto scema, mentre lui annaspa in un crescente affanno. Ed Evenepoel strappa sul traguardo una manciata di secondi, un niente, dodici su Vingegaard, ma sono dodici gocce di sangue. La promessa di una ferita aperta da cui farne sgorgare ancora. Evenepoel, mastino, indomito, incurante di numeri, distacchi e dati. Infine, sul traguardo, esce, letteralmente “esce”, il Pogacar che non piace, il Pogacar feroce, quello che ha aspettato l’ultimo momento per scattare in faccia al rivale danese e lasciarlo secco. Due. Secondi. Senza nemmeno gli abbuoni da disputare. Solo la cattiveria, la botta morale, lo schiaffone immorale. Esce il veleno di sconfitte incassate col sorriso, ma evidentemente non certo con bonomia. Il veleno sorbito quest’anno con le dichiarazioni fuorvianti di Vingegaard e del suo team, in una campagna di disinformazione e pretattica degna di un’autentica campagna militare. Il veleno, forse, di un timore non del tutto sopito, il timore della sconfitta imprevedibile, impensabile, fuori parametro… lo spettro della crono di Combloux. À la guerre comme a la guerre?

Gabriele Bugada

Carapaz si impone in solitaria a SuperDévoluy (Dario Belingheri/Getty Images)

Carapaz si impone in solitaria a SuperDévoluy (Dario Belingheri/Getty Images)

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