1+1+1+1 = ZONA ZERO; IL TOUR ESPLODE ANCORA
Quattro leoni scappano dalla gabbia verso Le Lioran, e il massiccio centrale, punto medio del Tour, fa dà perno di una giostra che si inclina in modo imprevedibile. Pogacar attacca, Vingegaard vince, Remco resiste e Roglic ringhia.
Se fosse calcio, Pogacar sbaglia per il raddoppio un appoggio sotto porta, poi parte un contropiede e segna Vingegaard. Uno a uno e palla al centro (forse Pogacar gioca in dieci). Ma calcio non è. Se fosse tennis, Vingegaard annulla un set point e poi porta a casa perfino un bel break. Ma non è nemmeno tennis. Se fosse basket, il danese ultima un recupero tumultuoso e si porta avanti di uno all’inizio del terzo tempo. Con tutta l’inerzia della partita dalla sua. Eppure non è nemmeno basket. È ciclismo folle, esaltante, da brividi e nervi a fior di pelle.
In questo ciclismo, dispiace per gli altri. Bruciati via dallo schermo perché davanti la corsa esplode in un fuoco bianco e giallo di fosforo e zolfo che sovraespone l’immagine e lascia in vista – a stento – solo i quattro fenomeni che già guidano la classifica generale. Pogacar, Evenepoel, Vingegaard, Roglic. E di questi quattro fenomeni lo scatto del fotofinish ne immortala solo due, Pogi e Vingo, gli extraterrestri, gli unici che contano quando si assaltano l’un l’altro e il resto del mondo si dissolve in polvere, fenomeni inclusi, come già s’intuiva nelle dinamiche viste sullo sterrato.
Per capirci, stiamo parlando di una delle poche tappe rimaste over 200 km nel panorama moderno dei Grandi Giri. Niente salitone alpine, ma più di 4.000 metri da macinare su stradine tortuose, tutte a mangia e bevi, con un finale brutale che inanella un muro dietro l’altro. Ciò nonostante, si parte con un bel paio d’ore a 50 km/h di media perché il gotha dei fugaioli mondiali si è andato risparmiando in vista di oggi, e viceversa la UAE di Pogacar non ha la benché minima intenzione di lasciare spazio a chicchessia. Quando la fuga costa così cara, rischia di aver vita breve, perché il dispendio di energie è sovrumano e nel finale lo si paga. In effetti sul traguardo i fuggitivi, a dispetto della loro indubbia qualità (dallo specialista Guillaume Martin al campione olimpico Carapaz, spesso frequentatore di podi a Giro, Vuelta e Tour, e tanti altri) finiscono a quasi un quarto d’ora di distacco da primi. Ma con un’eccezione: l’irlandese “cavallo pazzo” Ben Healy sarà 17esimo di giornata, contenendo in meno di cinque minuti il ritardo da Vingegaard. Ma dobbiamo liquidare questa prestazione fenomenale in una frase, così come in una frase facciamo cenno alla meravigliosa e insensata caparbietà di Carapaz che, agli sgoccioli ormai dell’avventura di giornata, quando si avvantaggiano il compagno Healy e l’arrembante giovane spagnolo Lazkano, non demorde, tiene duro, rientra sui due, il tutto con l’unica finalità di regalare a Healy un’ultima trenata: tutto questo con l’UAE lanciata come una locomotiva mezzo minuto dietro di loro, vale a dire nella futilità più assoluta. Correre comunque, correre alla grande, anche se non serve a niente e nessuno se ne ricorderà oltre le due righe in cronaca. Questo resta agli altri, a tutti gli altri.
Perché Pogacar ha messo la squadra a pestare duro, perché il peloton ormai conta meno uomini che la top ten in classifica generale, perché all’ultimo km del Puy Mary Pas de Peyrol, uno di quei nomi di valico impastati da ASO che suona più che altro come una bestemmia, ecco che Adam Yates, assistman di Pogi oggi, dà tutto, spreme le gambe sul 15%, e poi, bam!, scatta Pogacar, scatta forte, fa subito malissimo a tutti senza eccezioni, Vingegaard guarda gli altri, Roglic fa la mossa, tira un po’, ma niente ci vogliono proprio le gambe dell’unico altro extraterrestre o niente, e allora il danese apre gas, attacca pure lui, arranca ma c’è poco da fare, il distacco metro a metro si dilata, e infine sul falsopiano finale, come se fossimo in cima alla Redoute (ma una Redoute lunga due volte tanto), i metri non sono più decine ma centinaia, si parla di mezzo minuto, e tutti quanti già inseguono uno ad uno. Fuori quadro. Non ci sono moto o elicotteri per tutto e tutti. Pogacar. Vingegaard. Roglic. Evenepoel.
Vingegaard tentenna in discesa e Rogla lo salva, lo riprende e gli traccia le linee, brevissima alleanza cruciale. Remco appena c’è una miseria, uno straccio di pianura, innesta il suo passo speciale e irrompe in coda al duo, trascinando con sé qualche resto di top ten che occhieggia da dietro nelle vesti del bravo discesista Carlos Rodríguez, di un eccellente Ciccone. Loro due i primi degli umani, a loro modo, scortati dai gregari di lusso dei primi Almeida, Yates o l’inossidabile Mikel Landa.
Ma la pianura è un fazzoletto e subito si risale verso il Perthus. Pogacar sembra opaco, chiede qualcosa all’ammiraglia, sospetta anche lui dei tubeless come già Remco a crono, o forse ha bisogno di rifocillarsi, ma la solitudine del primato è tremenda. Non ci sono i puntuali ometti del team a rifornirlo di beveroni a scansioni regolari come li ebbe Froome dopo il Finestre: la UAE è un superteam ma in certe cose continua a somigliare alla vecchia Lampre più che alla vecchia Sky.
Vingegaard ricambia il favore e in salita tira lui, pure abbastanza regolare, non giochicchia né scatta. Ma arriva il momento in cui fiuta il sangue di un Pogacar che si dissangua di vaga stanchezza, e in quel momento innesca una progressione assolutamente devastante. Di nuovo, uno ad uno. E presto due a due.
Pogacar è ripreso. Extraterrestri in testa. Fenomeni a inseguire, Remco e Rogla. Poi niente, poi niente, poi ancora niente. Poi i grandi ciclisti polverizzati dal superciclismo.
I valori espressi da Vingegaard nei dodici minuti del Perthus in cui riprende Pogacar corrispondono ai massimi assoluti mai toccati dal ciclismo di ogni tempo. 1900 di VAM. 6,9 watt/kg. Evidentemente, la forma è tornata.
Il duo di testa si alterna con cambi regolari. Sprint tiratissimo al Gpm. La spunta Pogi per un’incollatura. Ancora (brevi) discese ardite, ancora (brevissime) risalite. Tensione più appicciosa del sudore, fatica e dolore. Cambi regolari, prudenza, ma nessuna strategia: Pogacar potrebbe facilmente rifiutarsi di prendere la testa, e lasciare così a Vingegaard la scelta fra tirare e veder sprecati i propri sforzi pregressi a fronte di un potenziale rientro da parte di Remco e Rogla, già espulsi dai picchi di velocità ascensionale ma solidissimi sulla tenuta e in avvicinamento ad ogni incertezza davanti. Tuttavia Pogacar non esita mai. Tornano in mente le immagini di Boonen contro Cancellara al Fiandre, ancora ai tempi del Kapelmuur e del Bosberg, il terreno prediletto del belga, i muri su cui accelerare con brutalità in cui sembrava inevitabile che a prevalere dovesse essere l’esplosività del più grande ciclista da pavé di tutti i tempi, e quando ancora lo svizzero era un punto interrogativo in queste gare. Ma nella fuga a due, col passare dei km, subentra la certezza che Cancellara ne abbia di più: Boonen si potrebbe mettere a ruota più che legittimamente, forte del proprio spunto veloce, ma non ci pensa neppure. Cambi regolari anche se vuol dire avviarsi al macello, come puntualmente avviene. Qui Tadej è su un terreno che per lui dovrebbe essere il più consono in assoluto. Un incrocio fra Lombardia e Liegi, le gare in linea nelle quali è il dominatore incontrastato. Il passo, la potenza, l’esplosività. Ma le energie vengono meno. Gli equilibri dell’universo si sono spostati impalpabilmente ma implacabilmente e chi a stento teneva le ruote ora a più energia nelle gambe. Pogacar, però, si nega a risparmiarsi. E puntualmente va a giocarsi da favoritissimo la volata, per puntualmente perderla, “scioltosi il nodo delle ginocchia” come recitano i versi dell’epica greca, non può spingere in piedi sui pedali allo sprint, si alza, si risiede, si rialza, si risiede, è sconfitto.
Dietro Roglic casca all’ultima curva dell’ultima discesa, ma la regola dei 3 km neutralizzati, inspiegabilmente indicata da regolamento per la tappa odierna, lo salva. I quattro arrivano in 2-1-1, ma sull’ordine d’arrivo saranno due coppie. Vingegaard-Pogacar. Evenepoel-Roglic.
Il Tour è ancora una volta nuclearizzato. Vingo guadagna un secondo, solo un secondo, nel gioco degli abbuoni vari, ma lo scossone è brutale. Pogacar avrebbe dovuto guadagnare e ha fatto di tutto per riuscirci. Senza esito. L’inerzia della gara precipita a favore di Vingegaard in modo assolutamente folle. Sul Pas de Peyrol Pogacar ha staccato Vingegaard con maggior nettezza ancora che sul Galibier. Ma Vingegaard è tornato con forza ancor maggiore. Sulla carta le tappe che ci attendono, anzi la settimana che ci attende, è molto favorevole al danese. Gli sterrati e il massiccio centrale sarebbero dovuti essere molto favorevoli a Pogacar e si sono tradotti in moltissimo frastuono per un nulla in classifica. Dunque da ora prevarrà con nettezza Vingegaard? O viceversa altre sorprese ci attendono, con un’inversione di ruoli? I due gemelli diversi come in ogni caccia mortale, preda e predatore, detective e serial killer, divengono l’uno il doppio dell’altro, s’immedesimano e rispecchiano: ho allenato espressamente gli strappi dice Vingegaard; ho allenato espressamente le salite lunghe, dice Pogacar. Quel che è sicuro è che in ogni fondamentale, a prescindere dalla loro condizione, sono su un pianeta a parte, con Remco e Roglic unici a poterli sfiorare o a fatica sfidare. Di Pogacar sappiamo con certezza assoluta che ha corso il Giro, seppur con le tabelle d’allenamento in mano. Di Vingegaard sappiamo che è finito in ospedale, anche se dubbi crescenti e legittimi si addensano sull’effettiva natura e gravità delle lesioni dichiarate, stante comunque l’indiscutibile bruttezza dell’incidente. Certamente entrambi non dovrebbero essere al picco teorico e assoluto del proprio potenziale – altrettanto certamente vi sono arrivati molto vicini. Per ora. Certamente entrambi si sono spremuti alla morte in questa prima metà di Tour (e ben più dei loro rivali vicini e lontani): mentre Evenepoel ridacchiava sui rulli il gilet gelato facendo cooling down, Pogacar era piegato in due sulla bici statica, la faccia nera di polvere, come un minatore estratto dopo settimane da un crollo nelle profondità della terra; Vingegaard pure stentava a tenere il capo dritto davanti al microfono, bianco, emaciato, grondante sudore a fiotti, come un marinaio estratto dagli abissi dopo lo sprofondamento di un sottomarino atomico.
Tutto è (ancora) possibile? Proprio tutto? Quanto tutto? Ci resta mezzo Tour per scoprirlo. Intanto si riparte da 1+1+1+1 = ZERO. Il tutto, il niente, il mistero, un cerchio che si chiude, un varco che si apre.
Gabriele Bugada