LA SAGA(N) DI PETER – CAPITOLO XXXIV: MONDIALE 2015
È una corsa che inseguiva dal 2011 e nella quale finora aveva conseguito come miglior risultato il secondo posto a Firenze nel 2013. Stiamo parlando del campionato del mondo, che Peter Sagan riesce finalmente a conquistare nel 2015, nonostante la sua marcia d’avvicinamento sia stata interrotta in malo modo da una caduta avvenuta un mese prima al Giro di Spagna. A Richmond, in Virginia, lo slovacco è primo, anche a dispetto della minoranza numerica della sua nazionale, che può permettersi solo tre corridori al via: sarà il primo di tre mondiali consecutivi, una sequenza di vittoria che finora non era mai riuscita a nessuno
SAGAN, ASSOLO DA URLO. PESSIMA ITALIA
Lo slovacco attacca sul penultimo strappo, si leva di ruota Gilbert e resiste nell’ultimo chilometro al ritorno del gruppo, regolato da Matthews su Navardauskas. Solo quarto Kristoff, addirittura 29° Degenkolb. Prova incolore dell’Italia, con Ulissi, Nibali e Trentin mai protagonisti e Viviani speso forse fuori tempo al terzultimo giro.
Come Cadel Evans a Mendrisio, Peter Sagan ha scelto il palcoscenico più prestigioso per scrollarsi di dosso la nomea di piazzato nelle grandi occasioni. Una fama forse precipitosamente affibbiata ad un ragazzo ancora 25enne, atteso però ormai da diverse stagioni alla prima affermazione in una classica monumento, a volte sfumata di fronte alle prodezze del Cancellara di turno, a volte gettata al vento come in alcune edizioni della Milano-Sanremo. Al Campionato del Mondo, poi, lo slovacco era sempre stato tanto temuto alla vigilia quanto impalpabile in gara, non recitando mai un ruolo da protagonista, e andando paradossalmente a cogliere l’unico piazzamento nei dieci a Firenze, nell’edizione forse a lui meno adatta.
Dopo le tante delusioni patite nelle passate edizioni, Sagan ha costruito invece, nel finale del Mondiale di Richmond, un piccolo capolavoro. Nascosto nella pancia del gruppo per 256 dei 259 km in programma, il campione di Zilina si è materializzato nelle posizioni di testa all’imbocco del sedicesimo ed ultimo passaggio sullo strappo di 23rd Street, il rettilineo in pavé che Greg Van Avermaet aveva eletto a trampolino di lancio per dare la caccia al titolo iridato e scollarsi di dosso un’etichetta non dissimile da quella del futuro vincitore. Sagan si è dapprima incollato alla sua ruota, per poi lasciarla a metà salita e attaccare a sua volta, allungando di poche biciclette sul belga e su Boasson Hagen, e scavando un solco già netto sul resto del plotone.
I due diretti inseguitori sono parsi per alcune centinaia di metri sul punto di riagganciare il battistrada, che del resto sembrava finirsi inutilmente intestardendosi a difendere i pochi spiccioli di vantaggio, anziché cercare man forte. Nella successiva discesa, però, Sagan ha dilatato i pochi metri di margine fino a trasformarli in un divario incolmabile: un fatto non certo anomalo, non fosse che la discesa in questione misurava poche centinaia di metri ed era pressoché dritta. A fare la differenza, forse, la posizione scriteriata ma redditizia assunta dallo slovacco, pedalando con il sedere sul telaio, o forse, più banalmente, un attimo di indecisione alle sue spalle.
Sbarazzatosi di Van Avermaet e Boasson Hagen, Sagan ha dovuto tuttavia ancora fare i conti con il gruppo principale, tirato da una Spagna che ancora una volta ha dovuto puntare su Valverde, e ancora una volta si è dovuta accontentare del solito piazzamento. Il rettilineo finale in leggera salita deve essere parso interminabile al leader, visibilmente appesantito, ma non al punto da non trovare nel serbatoio le energie sufficienti a rilanciare quel tanto che bastava per non finire infilzato come Franco Bitossi 43 anni fa.
Michael Matthews, anch’egli mimetizzatosi magistralmente in mezzo al gruppo fino all’ultimo istante, è comparso davanti giusto in tempo per bruciare tutti allo sprint, buono però soltanto per la medaglia d’argento. Sul gradino più basso del podio è salito il sempre sottovalutato Ramunas Navardauskas, mentre Kristoff, forse il favorito numero 1 della vigilia, è stato relegato alla medaglia di legno, giusto davanti a Valverde, incredibilmente capace di aspettare la volata anche su un percorso che consentiva di resistere anche a molti velocisti.
La top 10 è stata completata da Gerrans, Gallopin, Kwiatkowski, Rui Costa e Gilbert nell’ordine, mentre per trovare la prima bandiera italiana nell’ordine d’arrivo bisogna scendere fino alla 18a posizione di Giacomo Nizzolo, evidentemente troppo stremato per poter far valere il suo spunto veloce. Meglio, forse, sarebbe andata al più quotato e vincente tra gli sprinter azzurri, Elia Viviani, che ha però scelto di giocarsi la sua chance al terzultimo giro. Una decisione quantomeno discutibile che offre il pretesto per aprire la triste pagina della prestazione italiana.
Data l’oggettiva mancanza di un uomo intorno al quale costruire la squadra su un tracciato come quello di Richmond, Davide Cassani ha optato – in maniera a nostro giudizio del tutto condivisibile – per una formazione eclettica, forte di varie carte buone per diverse soluzioni. Di tutte queste possibili soluzioni, però, non si è visto neppure un abbozzo: Nibali si è meritato qualche inquadratura soltanto al 10° giro, quando una caduta a centro gruppo (della quale ha fatto le spese Daniel Oss, costretto al ritiro) ha favorito lo sganciamento di un drappello piuttosto nutrito, nel quale siciliano era il solo azzurro presente; Diego Ulissi non ha praticamente messo piede nella prima metà del gruppo, facendosi sistematicamente trovare in coda ad ogni passaggio sugli strappi di Libby Hill, 23rd Street e Governor Street; Matteo Trentin è stato leggermente più attivo, ma soltanto inserendosi in seconda battuta in tentativi già promossi da altri, perlopiù ormai morenti. Con Nizzolo giustamente in attesa della volata, Oss vittima della caduta, Felline sacrificato alla causa dei capitani e Bennati e Quinziato dediti all’usuale lavoro di gregariato, il solo a muoversi e a rendersi protagonista di un’azione significativa è stato, come detto, Elia Viviani.
Lo sprinter del Team Sky è stato l’ultimo ad agganciare un trenino sganciatosi al terzultimo giro su input di Ian Stannard, seguito anche da Mollema, Boonen, Kwiatkowski, Moreno e Amador. Si è trattato del primo e di fatto unico tentativo credibile di evitare una risoluzione negli ultimi 4 km, arrivato dopo la fuga della prima ora di Khripta, Sergent, Stevic, Sung Baek, Dunne, Tvetcov, King e Alzate e il successivo contrattacco di Pantano, Boivin, Siutsou e Phinney, oltre ad alcuni scatti senza conseguenze di Gesink, Kreuziger, Rodriguez e Vanmarcke.
Il drappello di Viviani ha raggiunto un vantaggio massimo di poco superiore al mezzo minuto, subendo tuttavia il prevedibile rientro del gruppo nel tratto selettivo del circuito, al penultimo giro
Per i primi tre quarti dell’ultima tornata, gli azzurri si sono incaricati di trainare il gruppo all’inseguimento di un gruppetto sganciatosi in corrispondenza del passaggio sul traguardo, comprendente fra gli altri Van Avermaet, e dei contrattaccanti Siutsou e Farrar, salvo poi essere risucchiati indietro nel momento chiave, ai piedi di Libby Hill. Mentre Stybar tentava di andarsene, con un Degenkolb fin troppo generoso alla sua ruota, il destino infausto del Mondiale azzurro era ormai segnato, con le punte che arrancavano oltre la ventesima posizione. Dopo un istante di marcamento che ha consentito al gruppo di ricompattarsi, è stata la volta dell’azione di Van Avermaet prima e di Sagan poi, e da lì delle maglie azzurre si sono perse le tracce.
Stante l’estrema facilità della critica dal divano e a posteriori, ci sembra impossibile non etichettare come pessimo il bilancio azzurro nella prova regina del Mondiale. Non ci è ovviamente dato sapere se la condotta di gara incolore sia stata dovuta ad una precisa indicazione attendista arrivata dal C.T. Cassani, o se ai suoi uomini siano semplicemente mancate le gambe, ma un eventuale chiarimento in questo senso potrebbe servire al massimo a spartire le responsabilità , non certo a rivedere un giudizio necessariamente tranciante.
L’aspetto più preoccupante del chiarissimo verdetto emesso dalla strada sulla selezione italiana è che il risultato fotografa piuttosto accuratamente lo stato attuale di un movimento ancora competitivo nelle grandi corse a tappe (anche se con soli due elementi – Nibali e Aru – davvero ai vertici mondiali) ma da anni in difficoltà nel ritagliarsi spazio nelle grandi classiche. Non dubitiamo che corridori come Trentin e Ulissi, se in giornata, o un Viviani gestito diversamente avrebbero potuto far meglio, ma non si può ignorare il fatto che l’unico risultato di prestigio in una grande classica sia arrivato quest’anno da Luca Paolini, 38 primavere sulle spalle, che in tempi neppure troppo remoti poteva al più aspirare ad un ruolo di gregario in Nazionale. Dopo Doha, che il prossimo anno dovrebbe concedere spazio ai soli velocisti, occorrerà una decisa inversione di tendenza, unita alla crescita di qualche giovane e magari alla risoluzione della crisi esistenziale di Moreno Moser, per presentarsi a Bergen in maniera più degna della Nazionale italiana.
Matteo Novarini