TRE PICCOLI GRANDI GIRI (…A VUOTO!)

settembre 18, 2023
Categoria: News

Con la Vuelta finisce in farsa una stagione delle grandi corse a tappe logorata da seri problemi strutturali.

In una riscrittura della calviniana trilogia degli antenati: quest’anno abbiamo assistito al Giro inesistente, al Tour dimezzato e alla Vuelta… ripugnante. Il bicchiere mezzo pieno è naturalmente quello del Tour de France, che per la prima metà ha offerto uno spettacolo roboante, riportando alla mente gli epici duelli uno contro uno che han fatto grande la storia del ciclismo. Purtroppo la stravolgente cronometro espressa da un vampiresco Vingegaard, con differenze sostanzialmente mai viste in oltre un secolo di sport a pedali, ha risucchiato ogni linfa vitale dal suo avversario Pogacar per quel che restava del Tour, e di conseguenza ha prosciugato d’un sorso tutto l’interesse agonistico e tecnico che sarebbe potuto rimanere alla competizione. La grande sfida è comunque valsa ascolti eccellenti, soprattutto in Francia. Tuttavia il trapasso da una lotta acerrima, con un apparente leggero vantaggio per lo sloveno, alla brutale imposizione di una superiorità fisica indiscutibile ha trasmesso un’impressione di falsità e dubbio su quanto visto fin lì, anche senza trascendere in sospetti farmacologici o motoristici che sono impazzati nel vespaio delle reti (ancor più dopo la Vuelta, come vedremo), ma sui quali non è d’uopo far leva in assenza di altri e più probanti elementi. Basta la semplice e sgradevole sensazione del fatto che il duello capace di appassionarci tanto non foss’altro che un gioco del gatto col topo, un mero teatrino, o una sofisticata strategia, se vogliamo essere più elogiativi: lo sloveno si spremeva – e noi fremevamo – con un presunto confronto alla morte sul filo dei secondi, ma intanto il danese, con un ulteriore passo da gigante sul piano atletico rispetto al 2022, dopo quello già colossale dell’anno prima, stava in realtà cincischiando e risparmiandosi, obbedendo ai magnificenti e meticolosi piani Jumbo-Visma.
Per un caso, o forse non per un caso, anche il Giro si è esaurito nel breve volgere di una corta cronometro. Tutta l’emozione si è concentrata sul Lussari, in cui Roglic, alfiere anch’egli della Jumbo-Visma, ha ribaltato la classifica al termine di un Giro per lui decisamente sottotono, complici i postumi di una caduta e forse anche qualche malanno di salute. Va detto però che la possibilità di un Roglic sornione non era così imprevedibile, e non ha quindi trasmesso la stessa sensazione di imperscrutabilità degli autentici valori in campo che sarebbe stata prodotta dal Tour. Il problema del Giro è stato tuttavia ben altro: la noia e inazione assolute nel corso delle intere tre settimane, fatta salva, appunto la cronoscalata conclusiva. L’uscita di scena per covid di un Remco Evenepoel in maglia rosa non ha certo migliorato la situazione. Senza dubbio possiamo parlare di contingenze sfortunate, come nel caso del maltempo che, altrove tragico, sul Giro è stato comunque esasperante, anche se mai di per sé davvero compromettente. La questione, grave, è stata come la situazione sia stata sfruttata con un certo grado di cinismo per imbastire l’ennesima e già logorata retorica relativa alla “sicurezza”, termine che qui va usato fra doverose virgolette perché i vari partecipanti alla discussione hanno ben dimostrato di avere un interesse modesto nei confronti di più autentici e radicali attacchi alla sicurezza di chi pedala, ad esempio in allenamento su strade inevitabilmente condivise col traffico veicolare normale.
Nella stantia riproposizione di un film già visto troppe volte, una parte nemmeno maggioritaria del gruppo ha fatto leva su un cocktail letale di reti sociali informali e formalismi rappresentativi, il tutto con l’obiettivo di mutilare una tappa chiave del Giro. C’era chi aveva o credeva di avere interessi propri nel perseguire questo obiettivo, come INEOS, che a queste pratiche distorsive o ad altre simili è ben avvezza. Il karma ha poi castigato questi protagonisti, che con una tappa vera avrebbero (forse) potuto lasciar più attardato Roglic. Ma, ripetiamo, è una prassi invalsa e come tale automatica, in cui paradossalmente colludono tutte le super squadre che invece dovrebbero vedersi mutuamente quali rivali con interessi divergenti. Invece fanno oligopolio e blindano così una linea comune, quella di ridurre al massimo grado l’imprevedibilità e la variabilità in corsa. Certo, preferiscono giocarsela in tre o quattro piuttosto che immaginare un campo di competitori più esteso. Peccato che questa visione da bigino di economia aziendale sia la risultanza di una sostanziale incomprensione del ciclismo, nonostante le vittorie degli anni precedenti (spesso prodotte soprattutto dalla leva economica sproporzionata e da altre connivenze, più che da una vera abilità tecnica differenziale). Infatti la compresenza di rivali minori capaci di interagire sullo scacchiere o l’apertura di scenari poco controllabili può rivelarsi l’unica occasione di riaprire un minimo di competizione per i vecchi team colosso, oggigiorno ormai relegati a un secondo gradino dallo strapotere Jumbo. Sotto il secondo gradino, va da sé, come a Fontamara, non c’è niente, poi ancora niente, poi ancora niente, poi arrivano le altre squadre. Fuor di elucubrazione o calcolo, la nuda realtà è che nelle gare a tappe, tutte, ad oggi praticamente vince quasi esclusivamente un solo team. Un esito brutto e storicamente inedito.
Al di là di queste dinamiche, i due dati di fondo sono, anzitutto, il manifestarsi di scontri di potere relativi a chi controlla il ciclismo, chi decide il percorso, chi fa le regole, chi modifica il campo da gioco pur da giocatore. Un UCI divenuta più apparentemente rispettosa, dialogica e non interventista (i maligni direbbero in coincidenza con l’esautorazione operata dalla WADA in campo gestione antidoping) ha creato un vuoto di potere in cui si lanciano soggetti multipli, imponendo però alla fin fine una legge del più forte o spregiudicato: non che il viceversa fosse tanto meglio, ma bisogna forse prendere coscienza della situazione per arginarla.
Il secondo dato di fondo, stavolta tecnico, è la consapevolezza del fatto che un Grande Giro sia una struttura complessa e articolata, come minimo già in termini di percorso. Mutilare tappe chiave altera in ultima analisi l’intero sviluppo della competizione, non solo l’aritmetica dei minuti.
Il panorama globale del Giro è quello di una corsa che, dopo anni di veemente crescita dalla metà dei Duemila, è entrato in un ciclo di declino, per ora ancora di breve periodo, ma potenzialmente strutturale, purtroppo. Il rischio, se già non è una realtà, è che si attivi un circolo vizioso di disaffezione e screditamento. L’evento Giro, a differenza di quanto accada col Tour in Francia, è sempre meno rispettato e amato a livello di società circostante, soprattutto su scala politica, mediatica e istituzionale, ma anche con gravi ricadute sull’interesse e il coinvolgimento popolari. Sentendosi debole e insicura, la dirigenza del Giro tende a giocare al ribasso con qualsiasi controparte, ma questo non fa altro che ridurre l’autorevolezza e l’aura popolar-sacrale dell’evento. Fra il pubblico e dentro lo sport stesso, con atteggiamenti sempre più lesivi o sminuenti da parte delle squadre, uniti al disinteresse o a uno stretto utilitarismo di troppi atleti. Per fortuna con le dovute eccezioni, sia quelle ovvie come Ganna, sia quelle meno ovvie anche se puntuali del van der Poel 2022.
Alla Vuelta si è ripetuta, in ben altri termini, la storia degli altri grandi giri, ma in questo caso trasformata in farsa. Difficile definire altrimenti la telenovela dei Jumbo che non sapevano come comportarsi per decidere chi far vincere, in cui tutto era un potrei anche non vincere io, ma purché non vinca lui, e allora che vinca l’altro. Commento in breve dello spettatore o spettatrice sull’orlo di una crisi di nervi: il triangolo no!
Insomma, un evento di per sé unico ed eccezionale nella storia del ciclismo (frase che si ripete oggi più volte: di eventi unici ed eccezionali stiamo facendo collezione…), vale a dire che un’unica squadra vinca nella stessa stagione i tre Grandi Giri, viene esponenzialmente esasperato dal fatto che addirittura il terzo GT si “disputi” fra tre compagni dello stesso team (grandi virgolette pure qui, in un ciclismo sempre più fra virgolette). Pure qui c’è come al Giro un dato circostanziale, nella fattispecie l’uscita di scena, qui solo per la classifica generale, di un Remco Evenepoel rivale potenziale. Poi la Vuelta in quanto spettacolo in realtà ne ha goduto, poiché l’unico sollazzo per il pubblico è stato lo show di un Remco sempre lanciato a bomba contro l’ingiustizia in una profusione di fughe fluviali e kamikaze, a volte terminate in gloria, altre volte in sconfitte di misura: premio di consolazione per gli appassionati dello sport, e maglia di miglior scalatore quale premio di consolazione per Remco. Ma sono elementi di contorno. Quel che ha tenuto banco è stata la manfrina di sceneggiate, furbate, fagianate, esibizioni che ha gravitato attorno al trio Jumbo. Cattivo segno se siamo ridotti a parlare di questo. Però forse preferiamo parlare di questo invece di interrogarci sul fatto che Kuss non abbia nessun cedimento serio, fino a poter ratificare senza sforzo la maglia roja finale concessagli dal team, dopo aver corso ad altissimo livello tutti e tre i GT. Unico, eccezionale. Nessun capitano avversario, né i valori non stratosferici ma solidi di un Mas, né il talento di un Ayuso, entrambi focalizzati sulla Vuelta, possono avvicinarsi al livello atletico di un gregario, benché d’eccezione, che ha corso al massimo tre grandi giri filati.
Umiliante e simbolica la neutralizzazione de facto dell’ultima splendida tappa seria attorno a Madrid, una piccola Liegi adatta ai ribaltoni. Ma prima c’erano state altre neutralizzazioni ufficiali, come a Barcellona, un’assurdità che ripeteva tal quale, anzi lo clonava, lo sproposito del Giro.
Nel complesso, la sensazione è di stare assistendo a una gravissima crisi di agonismo e competitività. Se però talvolta sono fasi che il ciclismo vive per naturali alternanze e ricambi, come potrebbe essere ora la povertà generale nella specialità dello sprint, o l’epoca di transizione nelle Classiche dopo i picchi dell’era Boonen-Gilbert-Cancellara-Bettini prima dell’avvento di van der Poel-Pogacar-Van Aert-Pedersen-Alaphilippe (finché è durato), con l’eterno Valverde a far da ponte. Qui il discorso tuttavia sembra un po’ diverso, perché su una effettiva fase di transizione è precipitata come un meteorite la “strabordanza” made in Jumbo-Visma. Il risultato è un ciclismo che sembra avere, oltreché diverse velocità, anche diverse quinte teatrali, un ciclismo in cui quel che si vede succedere è il prodotto di una sceneggiatura redatta da qualche testa d’uovo del marketing. Una sceneggiatura peraltro e purtroppo mediocre, un ciclismo Netflix buono solo per chi vuole rimanere stupito mezzora e poi passare ad altro. Essendo però questa l’antitesi strutturale del concetto di Grande Giro, sarà da capire se non solo lo sport ma anche “il prodotto” sopravviverà a questa atroce contraddizione interna. Svilirsi o morire? Oppure svilirsi, e quindi morire?

Gabriele Bugada

Roglic e Vingegaard festeggiano la vittoria di Kuss (Getty Images)

Roglic e Vingegaard festeggiano la vittoria di Kuss (Getty Images)

Commenta la notizia