A PARIGI SOFFIA LA BORA. VINGE MAGLIA GIALLA E CALICE NERO!
Finisce un bel Tour con un retrogusto amarognolo di illusioni perdute.
Philipsen non batte il cinque, è lui il battuto, per la seconda volta in questo Tour su sei sprint di gruppo dove, quando non è stato primo, alla peggio ha fatto secondo. Maglia verde incontrastata per il velocista dominante in un’epoca di sprinter un po’ spenti, come peraltro è pure un po’ spento il nuovo tono cromatico che contraddistingue il leader della classifica a punti. Philipsen è più che uno sprinter, l’abbiamo visto potente nelle classiche del Nord sia in proprio vincendo gare di blasone come De Panne o lo Scheldeprijs, sia a supporto di van der Poel, che qui di converso, fra malanni e concentrazione rivolta al Mondiale agostano, ha ricambiato alla grande il favore, guidando magistralmente il compagno nelle melée massive dei tanti arrivi piatti. Ha pure due quarti posti, il buon Philipsen, nelle due tappe rocambolesche della terza settimana in cui i fuggitivi ci hanno regalato parecchie emozioni, pur su un terreno, appunto, assai amico alle ruote veloci. È andata bene, benissimo, così, per evitare un’indigestione di volate che il percorso pareva rendere quasi inevitabili. Anche perché gli Alpecin oltreché potenti vi apparivano via via anche sempre più prepotenti, fino a rasentare il fastidio in chi guarda ma soprattutto nel resto del peloton.
Inevitabile è invece la volata parigina, va da sé, dopo le “fughe” iniziali a titolo di parata per gli uomini in maglia (gialla per Vingegaard, bianca per Pogacar, a pois per il bravissimo Ciccone e, come detto, verde per Philipsen), dopo i brindisi e le sceneggiate assortite. Poche tutto sommato le iniziative volte a rovesciare l’ovvio copione, fra esse va segnalata quella, stavolta non meramente scenografica, di Pogacar in persona, stoppato però dalla Jumbo-Visma con un van Hooijdonk nelle vesti di fastidioso stopper; sembrano volerci credere, su questo allungo protratto, bei nomi quali Bettiol, Kwiatkowski, Skjelmose, Lampaert, Wright… ma alla fine dei conti il cumulo di volponi talentuosi, come spesso succede, è la rovina della fuga stessa, che non prende il largo e ai meno trenta è già neutralizzata. Più convenzionale, nonché sostanzialmente innocuo, il successivo tentativo di Frison, Oliveira e Clarke, mera transizione verso lo sprint. Groenewegen lancia lunghissimo con Pedersen, mentre van der Poel appariva appannato (che ci attendiamo fra due settimane sotto l’arcobaleno di Glasgow? Contro un Van Aert i cui doveri paterni si sono sovrapposti alla perfezione con un ritiro classico stile Vuelta, di quelli in cui il GT spagnolo risulta, ritirandosi all’inizio della terza settimana, il trampolino perfetto per il Mondiale, quando tenuto in date autunnali standard). Il più destro di tutti è Jordi Meeus, ancora giovane atleta del Bora, lui pure uomo da Nord più che missile di massa, agile nel saltare sulla scia dei tentativi di anticipare e poi solido nel reggere al rientro di Philipsen.
Torniamo al brindisi. Iconica l’immagine di Vingegaard che levanta il calice alla telecamera: la trovata del team olandese è optare per un calice nero, in modo da far pendant con la maglia gialla del leader per comporre l’abbinamento di colori che già caratterizza la divisa delle laboriosi api Jumbo. Il risultato è perturbante. Gotico danese in puro stile Blixen. Ghigno di labbra violacee (…pare sia l’immarcescibile succo di barbabietola rossa già celebrato da tutte le icone del ciclismo, da Ferrari a Ghislain Lambert al Team Sky!). Cinema vampiresco da “Lasciami entrare”. Casualità inconsapevole o sfida sfacciata e deliberata? Difficile a dirsi, ma quel che è certo è che il comportamento spietato del team olandese ha ghiacciato il sangue e svuotato la linfa a un Tour che era stato a lungo esplosivo, travolgente, eccitante. Van Hooijdonk sulla ruota di Pogacar che irrompe sui Campi Elisi. Le stesse sensazioni avevano infiltrato la peraltro appassionante tappa del sabato, tutta tesa fra un atteggiamento di Vingegaard improntato alla prudenza e al controllo, da un lato, e, dall’altro lato, dal malcelato desiderio del danese di prevalere su Pogacar per la vittoria di tappa, sublimatosi in una goffa e malriuscita volatina. La tappa è stata bella, certo, ma ancor più bella sarebbe stata se, qualora Vingegaard davvero ambiva alla vittoria, la maglia gialla ci avesse regalato uno scontro a viso aperto, tanto più che, con il vantaggio abissale accumulato, il rischio di un approccio più arrembante era sostanzialmente nullo: un ultimo, autentico duello all’arma bianca con il rivale ormai più che sconfitto.
Questo il dubbio e lo spettro che si insinuano come un’ombra lungo le intere tre settimane di Tour, comprese le prime: il duello a cui abbiamo assistito è stato autentico, o è stato un calcolo? Non si tratta qui di saltare ad altro genere di insinuazioni, del tutto fuori luogo in questa sede, bensì semplicemente di comprendere quale sia stato il significato di quanto accaduto sulla strada, prima e dopo, ma il tutto alla luce della folgorante cronometro di Domancy.
Il ciclismo è sport ermeneutico. La verità, l’aletheia, il disvelamento è ciò che accade nel ciclismo. Ci sono allenamenti, ciascuno per conto proprio, e si arriva alla gara con la prima grande domanda sullo stato di forma. Dopodiché tutto è comprendere quanto forte sia davvero il rivale, quali siano le gerarchie. Una sola tappa non esaurisce il dubbio. Quali le condizioni? Chi si è trattenuto? Chi si è spremuto? Le domande appassionano i tifosi di ciclismo, ma sono le stesse che si pone ogni atleta sui rivali, e talvolta, non di rado, perfino nel ciclismo scientifico, anche a proposito di se stesso o se stessa.
Ciò che avvelena questo Tour è il caos interpretativo: forse, in piccola misura, è stato perfino il tarlo che ha roso le gambe di Pogi sulla strada del Col de la Loze. La crono ci ha restituito un atleta enormemente superiore a tutti gli altri contendenti per la tappa o per la generale, come ben già si sapeva: Pogacar. E un altro atleta a propria volta enormemente superiore a Pogacar. La sfida a cui avevamo assistito, con i reciproci affondi sul Marie Blanque o verso Cauterets, con i braccio di ferro vibranti sul filo dei secondi scalando il Puy-de-Dome o il Joux Plane, tutto questo si ribalta in una sproporzione di forze fisiche, di mera erogazione di potenza, che proietta Vingegaard su un altro livello competitivo rispetto a Pogacar. E dunque? Vingegaard si era trattenuto scientemente per non bruciarsi? Pogacar si è consumato come un Icaro scavando nel fondo del suo fisico per trovare le energie necessarie a reggere alla pari una sfida che era in realtà dispari e sovrumana? Si è trattato di una beffa crudele ai danni delle guance rosee e delle ciocche ribelli che esibisce il principe del ciclismo a tutto tondo, il cui sguardo si faceva sempre più spiritato e febbricitante scontro dopo scontro? I Vosgi ci hanno lasciato senza risposte. Vingegaard rivela che aveva programmato dal novembre scorso un doppio appuntamento, Tour e Vuelta, con un apprezzabile prurito froomiano. Ma sarà vero? Questo Tour era allora programmaticamente impostato al risparmio, fatta salvata quella fiammata di mezzora più vicina agli 8 che ai 7 watt per kg, numeri mai visti nella storia del ciclismo? La perplessità sale come una marea. Che supereroe si nasconde nella figura gracile e pallida del danese? Tornerò per il terzo, dice Vingegaard. La maglia gialla ha solo certezze, le domande restano aperte per Pogacar e per tutti gli altri, spettatori e spettatrici compresi.
Gabriele Bugada