FANTASMI DA MORZINE: POGACAR EYES WIDE SHUT
Una sola salita lottata, un solo secondo fra i duellanti. Tappa ridotta all’essenziale, ma ciclismo spaziale.
Kasparov ebbe a dire che gli scacchi sono lo sport più violento che esista. Il ciclismo in giornate come quella di Morzine può esibire solide credenziali quale pretendente al titolo. La tappa, micragnosamente breve ma infarcita di dislivello, si riduce al suo totem finale, il Joux Plane. Prima il tutto si riassume in una sebaldiana storia naturale della distruzione: i bombardieri Jumbo radono al suolo qualunque cosa si ritorca sulla vacua superficie della terra, in una pioggia di fuoco che rende ancor più rovente una giornata corsa tutta fin troppo sopra i trenta gradi (e fin troppo al di sotto dei duemila metri). Il sudore frigge come olio bollente, le borracce si sprecano, e i gialloneri pregustano un match point decisivo. Pogacar, pare assodato dai guru, tende a soffrire il caldo; il cumulo di dislivelli a passo ossessivo ne ottunde lo spunto; le salite vere favoriscono Vingegaard. L’accidentale Ventoux 2021 trasformato in protocollo, la scienza coglie il caso prototipico e si predispone a farne sistema.
Note al margine: Ciccone all’arrembaggio, si inserisce di forza nella lotta per la maglia a pois, anche se, come gli anni scorsi, con le tappe di gran montagna vi irrompono pure i fenomeni della generale, che potrebbero finire per portarsela via quasi per caso. Di Ciccone ci piace ricordare la sorta di muta protesta, la fronda, la resistenza, con cui, pur essendo ormai segnato il destino della fuga, allunga in solitaria un pugno di secondi davanti al gruppo trenato prima da Van Hooydonck poi da Benoot sulle rampe della Ramaz. Un gesto senza senso proprio, senza speranza, solo un granello di sabbia negli ingranaggi Jumbo che lo stritoleranno senza pietà. E proprio quando il gruppo lo deglutisce e tritura, passando di fianco a Pogacar, uno scambio di battute, un sorriso dello sloveno (un sorriso a 6 watt per kg). L’esibizione Jumbo scoccia. I terzi in causa per obiettivi minori cominciano a tifare contro. Travolte con Ciccone tutte le storie che si erano intrecciate nel conformarsi della fuga, le sportellate con Dani Martínez e Powless ai GPM, il coraggio di Pinot, l’ambizione e la voglia di bis di Woods o Kwiatko, le malinconie di Landa o Alaphilippe, e tanto altro per tanti altri ancora.
Ma la Jumbo ha deciso che oggi Morzine sarà Megiddo, il luogo della battaglia atomica finale, e non c’è spazio per altri fili narrativi.
Emergono allora prepotenti dalla memoria le altre storie recenti che hanno reso iconico questo arrivo. Pantani in fuga, inevitabilmente in fuga, il 18 luglio 2000, compleanno di Gino Bartali. Di nuovo all’assalto dopo il Ventoux in cattiva compagnia, dopo la prova di forza solitaria di Courchevel. Nonostante un fisico già minato, nonostante un mondo sportivo e non solo violentemente ostile. Lungo la strada per Morzine, i problemi di alimentazione (altri tempi, altra scienza). La scarsa collaborazione e quasi il boicottaggio dei compagni di fuga, poco predisposti al magnicidio contro il Re Americano, pur di ricevere qualche briciola e una vernice di redenzione. Virenque, emblema di questo atteggiamento, a vincere la tappa. Pantani ritirato. Ma anche. Ma anche Armstrong nel panico, che telefona, sì, telefona in diretta in piena corsa al suo spirito guida, il Dottor Ferrari. Armstrong telefona alla scienza, e la scienza rassicura: Pantani non può arrivare. L’economia delle entrate e uscite energetiche non può tornare, lo sperpero, l’azzardo, la diarrea, la solitudine consumeranno il Pirata. Il dubbio però rode, Courchevel rode. E Armstrong fa crac. L’arcirivale Ullrich gli rifila quasi due minuti. Lo lasciano indietro anche Heras o Escartín, i compagni di merende che lo avevano salvato dal naufragio verso Courchevel, facendogli da gregari pur appartenendo ad altro team, quel Kelme che fu di Fuentes. Il Tour de France era già deciso, ampiamente deciso, da molte tappe, o da molti mesi. Non cambierà nulla. Scienza e fantasmi. Il fantasma di Pantani contro la scienza dello sport, o Pantani contro il fantasma della scienza sportiva (Ferrari la chiamava arte: l’arte è lunga, la vita breve, diceva Ippocrate).
Sei anni e due giorni dopo siamo nel 2006, 20 luglio 2006, e Floyd Landis ha appena perso la maglia gialla. Altro yankee inventato in casa Bruyneel come gregario eccezzionale (con due “z”, minimo), ma messosi in proprio già nel 2005 con la sulfureissima Phonak (perché giallo-verdastra, non peraltro…). L’anno precedente non gli era andata così bene, top ten risicata a una dozzina di minuti. Ma nell’anno 2006 l’era Armstrong è finita. Tocca ai liberi imprenditori, così Floyd assurge alla gloria gialla sulla cima della mitica Alpe d’Huez. Verso la Toussuire tuttavia il giallo si è subito scolorito in dieci minuti di ritardo dal danese Rasmussen (e altri venti atleti). Però Landis non si arrende. A quasi 130 km dall’arrivo parte da solo a doppia velocità lasciando basiti gli inseguitori che pure provano a prendergli la ruota, ma senza alcuna chance. Proveranno poi collettivamente. Tutto inutile. I più vicini inseguitori arrivano a quasi 6 minuti. Il regno di Lance è finito, e tornerà a finire, in modo ancor più radicale, pochi anni dopo; ma la scienza frattanto ha imparato a farsi arte con Ferrari, e ora da arte si fa pura magia. Operation Witchcraft. Floyd però non aveva capito che la vera magia non è quella della scienza, né quella dell’arte: la vera magia è quella della politica. Non quella dei partiti, anche se può corrispondervi, né quella degli Stati, anche se vi si intreccia: bensì la politica generale e microscopica del potere, che impregna i corpi e se ne nutre, la biopolitica degli sponsor multinazionali, dei comitati olimpici, dei nuovi grandi racconti a cui vendersi quando li si compra. Floyd Landis non ha intercettato questa magia, e il gruppo storce il naso, sciopera platealmente, proliferano i sussurri dietro le quinte, e Landis sale in giallo sul podio parigino solo per esserne rimosso via antidoping. Troppo testosterone, Floyd, ma senza essere un maschio alfa, e soprattutto senza appartenere al branco giusto.
Finisce l’excursus e siamo ai piedi del Joux Plane. Il gruppo non c’è più. Ci sono solo i Jumbo contro gli UAE, il resto sono dettagli, Hindley penzolante, Carlos Rodríguez 22enne umile ed enorme per l’INEOS mentre Pidcock è scoppiato tempo prima. Simon Yates staccato da Van Aert nella discesa della Ramaz, rientrato sputando sangue con il sempre più sorprendente austriaco Felix Gall e con il filosofo che non ti aspetti, il buon Guillaume Martin. Una dozzina di uomini ma quel che conta è la partita a scacchi. La partita letale fra UAE e Jumbo.
Dettagli, fra i quali si annida il diavolo. Come negli scacchi. Mosse e contromosse. Pensiero anticipatorio. Congetture e interpretazioni. Trappole. Carlos Rodríguez, lo vedremo, è uno di questi dettagli.
Dettagli: Pogacar chiede a Majka di dare una trenata inattesa per scombussolare il treno Jumbo. Rompere il rullare dei tamburi di watt predefinit. Calcolo e intuizione contro scienza e misurazione. Funziona, il treno deraglia. Contromosse, sorprese: ad esempio, Van Aert. Van Aert che aveva tirato alla morte, scoppiato, piantatosi come spesso vediamo oggidì piantarsi i corridori-lavoratori spremuti dai superteam fino all’ultima goccia. Van Aert resuscita dai morti: scienza, arte, magia, pura forza di volontà, genio ciclistico, aberrazione atletica? Van Aert non solo riprende il gruppetto dopo essersi letteralmente fermato, ma passa tutti a doppia velocità e tira e tira fino a stroncare Majka. Il treno torna in corsa.
Dettagli: a Pogacar cade una borraccia. Sguardo di smarrimento. Gesti di panico, che appaiono invero sproporzionati. Ma oggi le calorie sono calcolate al minuto. Entrate e uscite. Economia del sudore. Economia contro entropia. Si avvicina sereno il compagno Adam Yates, ecco una borraccia. Sollievo. Yates non sta facendo quasi nulla, fin qui, per Pogi, basta paragonarlo con il lavoro di Kuss per Vinge. Ma oggi bastava la sua faccia. E la borraccia, certo.
Tira e salta Kuss, Pogacar potrebbe far leva sull’attendismo. Due contro uno, lui e Adam Yates appunto contro Vingegaard che ha esaurito l’intero team e non sembra pronto. Non è arrivato al metro esatto, al minuto esatto, dove avrebbe dovuto scatenare i watt. Qualcosa non quadra. Quei turni sfasati, forse. Quel Ciccone inutile come un granello di sabbia a spostare watt fuori luogo e fuori tempo tanti e tanti km fa. Chi lo sa. Vinge non agisce.
Ma Pogacar non è tipo da attendere. Fa tirare Yates, e poi.
Attacca. Allo scollinamento mancano quasi 4 km.
E subito se ne va. Stavolta Vingegaard non prova nemmeno la reazione immediata. Ha capito l’antifona. Sale del proprio passo, e fra i due la regia disegna un filo d’argento virtuale. Il filo d’argento infrangibile. 5 secondi di differenza che restano tali.
L’icona di questa tappa è il viso di Pogi, senza occhiali, con gli occhi enormi, ingenui, infantili, spalancati, persi nelle vastità senza limiti dello sforzo. Vede fantasmi, Pogacar? Certamente ne vede quando comincia a voltarsi, anche un po’ troppo spesso. Un fantasma danese.
Sono stati minuti ad altissima intensità, e di colpo si passa al surplace. I processori ricominciano a calcolare impazziti, ci vorrebbe un computer quantistico per gestire la deriva delle interpretazioni. Pogacar ha fallito, sta male, non è riuscito a fare il vuoto. E Vingegaard perché non scatta quando riprende Pogacar? È cotto pure lui? È al limite? Avrebbe dovuto insistere, Pogacar? Avrebbe – potuto – insistere? La scienza non ha più risposte. In cima alla salita c’è un abbuono in tempo, una delle novità strampalate che il Tour introduce di tanto in tanto. Ai 500 metri Pogacar lancia una prevedibilissima volata lunga, ma i muri di gente strozzano l’allungo e due moto, di fotografi e riprese, bloccano del tutto la strada. Stop and go. Non cambierà niente, ma la sensazione è che sia cambiato tutto. Si torna alla surplace, letteralmente, velocità da amatori, mentre da dietro si avvicinano Adam Yates e Carlos Rodríguez, che in un paio di km avevano incassato più di un minuto.
Da qui Pogacar sembra andare in confusione. Scacchi e ciclismo. Ciclismo e boxe. Il ciclismo è lo sport più violento che ci sia, con la differenza che il danno inflitto all’avversario, o meglio, come intendevano Kasparov, e Fisher, all’ego dell’avversario, passa per infliggere danni fisici a sé stessi. Una strategia scacchistica di sacrificio, ma perenne, costante, sistematica. Sempre sul limite. O appena oltre.
Al GPM Vingegaard pizzica Pogacar distratto, e gli strappa il passaggio sulla linea con una volata cortissima, quasi inesistente, tutta giocata sull’effetto sorpresa. Pogi incassa.
Il diavolo in rosso Carlos Rodríguez rientra e subito allunga, Yates non riesce a tallonarlo, Vinge neppure, men che meno Pogi. Ha scelto bene la curva e volerà via per tutta la discesa fino a vincere la tappa laggiù a Morzine. Come dirà Matxin, il DS spagnolo di Pogacar, oggi ha vinto l’alunno più studioso, il più intelligente, il più lucido. Calcola perfettamente il talento 22enne, e poi calcola perfettamente pure i rischi in discesa, perché “il leone di Almuñécar” ama anche l’azzardo, che è dopotutto l’altra faccia del calcolo, dove calcolo e arte s’incontrano. Vittoria in solitaria, a braccia alzate, e, molto provvisoriamente, terzo posto nella classifica generale. Per un secondo.
Pogacar si mette davanti e scende malissimo, Vingegaard gli si incolla alla ruota, altra scelta azzardata, da guerra psicologica, o forse solamente da confusione. Interpretazioni alla deriva. Pogi potrebbe aspettare Yates che fatica tantissimo a scendere, a sua volta, in modo accettabile, ma lo sloveno sembra ossessionato dal non perdere sulla testa della corsa. Ossessionato dagli abbuoni, ossessionato dal far tornare i conti, ma non abbastanza da pensare che se si fermasse, se facesse passare Yates, magari facendo lui stesso un po’ da tappo, poi Vingegaard dovrebbe inseguire e diventerebbe una facile ruota a cui agganciarsi. Se poi Yates arrivasse, fare terzo contro il danese quarto premierebbe comunque di più che fare secondo con il danese terzo. Non ci pensa Pogacar, né ci pensa l’ammiraglia. Qui non è questione di conti, è questione di sensazioni, di voglia di vincere, di trovarsi quasi a sorpresa ad emergere nello scenario che tutto avrebbe voluto più favorevole al rivale. Ma, allo stesso tempo, non riuscire a chiudere il break, schiantarsi quasi su quelle moto, non poter più far correre libero il proprio sguardo dagli occhi spalancati a un orizzonte ignoto, ma impegolarsi nei conti della serva, nel secondo più o secondo meno. E, sul terreno della lucidità, inaspettatamente stentare. Alla fine Pogi sarà secondo, Vinge terzo. Bilancio in secondi, uno guadagnato dal danese. Che cosa significherà tutto questo, alla fine del Tour? Alla fine delle carriere? O dopo altri vent’anni di ciclismo? Chi sarà divenuto un fantasma, chi sarà inseguito dai fantasmi? Non abbiamo una risposta oggi, anche se alla prima domanda ne avremo una fra una settimana. O fra qualche mese, o fra qualche anno. L’arte è lunga, la vita è breve.
Gabriele Bugada