PUY DE DÔME: SOPRA IL VULCANO ROTOLIAMO SULLA PELLE DELLA TERRA
“Dammi un senso, dammi una direzione, un cavallo di luce… Sono un vulcano e non mi ferma nessuno”, con un cuore che “pompa sangue dall’ombelico della vita e della morte”. I Litfiba preconizzavano così nel 1993 la tappa che si sarebbe svolta giusto trent’anni dopo, questa domenica.
Un grumo di sensazioni contraddittorie e rockettare s’impastano nella canzone qui citata in apertura, così come nella tremenda tappa che chiude la prima vulcanica settimana del Tour. La musica dei primi anni Novanta sembra di un’altra era geologica, ma il disperato “SOS Terra SOS uomo, vento spazza via, terremoto cancellaci” che risuonava in questo testo è inquietante per attualità. E quasi coeva era stata l’ultima apparizione del Puy de Dôme, solo cinque anni prima del pezzo in questione. Indiscutibilmente un altro ciclismo, anche se il decennio ciclistico allora alle porte non sembra, ad oggi, così lontano da quello odierno, nel bene e nel male. I nipoti somigliano più ai nonni o ai propri padri? Il gomito a gomito su questa rampe fra Anquetil e Poulidor immortalato in una storica istantanea rivive nel duello secondo contro secondo fra Pogacar e Vingegaard. Coppi che proprio all’ultimo chilometro sorpassa nel 1952 l’ultimo sopravvissuto della fuga per andare a vincere in maglia gialla, dopo aver saltato come birilli gli altri fuggitivi fra cui il 38enne Bartali (comunque clamorosamente quarto nella generale finale) ricorda frammenti di ieri, o forse un frullato di universi paralleli. Il ciclismo è sempre ieri e oggi combinati o sovrimpressi come in un palinsesto medievale, un documentario d’avanguardia o un sogno. Sembra un sogno anche il salto dalle strade strabordanti di folla attorno a Clermont-Ferrand per passare invece a quelle svuotate da ragioni di sicurezza e punteggiate solo di poliziotti e silenzio nell’ascesa finale vera e propria. Le prime ricordano il ciclismo di tutti i tempi, sport popolare e di massa, le seconde ricordano invece il ciclismo modernissimo dei paesi mediorientali, denaro e deserto, introspezione e astrazione tecnica.
Ripercorriamo allora questa giornata di ciclismo al contempo antico, perturbante e moderno o postmoderno. Un classico del ciclismo di tutti i tempi sono le due tappe in una: alla fuga viene lasciato un quarto d’ora, i distacchi in classifica generale sono già abissali anche se la compongono uomini di qualità, spesso proposti dai team in solide coppie di appoggio mutuo. Di conseguenza, la battaglia per la vittoria di giornata e quella per la maglia gialla correranno su due binari paralleli, pur avvitandosi l’uno sull’altro, come quelli del tram a cremagliera che si arrampica in spirale attorno al cono del Puy de Dôme, a di fianco ai quali competono i ciclisti.
La fuga, come detto, è potente: vi va segnalato il kazako Lutsenko, già capace di vittorie di tappa su terreni variegati oltreché di difendere belle top ten nella generale finale; Mohoric, naturalmente, sebbene il finale non gli si addica sulla carta; Latour che abbiamo già visto all’arrembaggio col suo stile sciabolante, proprio l’altro giorno, in un finale mosso; Berthet, scalatore francese di cui abbiamo già segnalato la progressiva crescita qualitativa; e poi i due uomini più indicati per un arrivo in salita, il canadese Woods, ben stagionato perché viene dall’atletica leggera, e la maglia a pois di Powless. Impossibile non avere un occhio di riguardo per Matteo Jorgenson, il giovanissimo statunitense emerso con prepotenza quest’anno come talento a tutto tondo ma già brillante in fuga la stagione passata; per adesso ancora in casa Movistar prima di traslocare armi e bagagli in direzione Jumbo-Visma, purtroppo per il tasso di competitività diffusa del ciclismo.
La fuga si struttura nell’ultima ora di gara secondo una struttura interessantissima: davanti a tutti c’è proprio Matteo Jorgenson, partito da solo a quasi 50 km dall’arrivo. Per lui tantissimo vento in faccia, ma anche la possibilità di gestire in piena autonomia il proprio ritmo, nonché di scommettere sulla regolarità dell’andatura. Manterrà a lungo un minuto circa sui più immediati inseguitori. Dietro c’è un secondo blocco all’apparenza parecchio solido, una più tipica fuga della fuga, con Powless, Mohoric, De la Cruz (che consente a Lutsenko di non lavorare dietro) e Burgaudeau (idem per il compagno Latour). La situazione tattica inchioda il favoritissimo Woods in un imbarazzante terzo blocco, ove gli atleti più forti hanno un compagno davanti (aggiungiamo Gorka Izagirre ai già nominati, in quanto compagno della testa della corsa Jorgenson), mentre altri da isolati non avrebbero gran motivo di esporsi in prima persona, come Berthet. Tuttavia questo terzo gruppo, precisamente in virtù della sua posizione, non ha alcun interesse ad avanzare a strappi, ma, piano o forte che macini i km a seconda delle circostanze, tenderà comunque a muoversi con un passo più regolare e dunque meno spaccagambe: tutto il contrario di quanto accade nel secondo gruppo, dove regnano l’aggressività e le fasi di attendismo, magari anche strumentali, pensando alla fin fine più a fiocinarsi vicendovelmente che non a riprendere anzitutto Jorgenson.
La grande sfida finale vedrà dunque scontrarsi non solo corridori dalle caratteristiche diverse, ma anche avvicinamenti alla salita di assai varia impostazione, portando così a rimescolamenti delle carte fra i più inattesi. Woods avrà dalla sua diversi fattori chiave, in parte meritori, come il sacrificio del connazionale e gregario Boivin, gran passistone, e in altra parte invece totalmente fortuiti, come il problema meccanico di De la Cruz, che, sganciando lo spagnolo dal secondo gruppo e spostandolo al terzo, non solo sottrae spinta propulsiva agli uomini intercalati, ma ne aggiunge oltretutto al terzo gruppo, perché l’Astana diventa di colpo parte in causa sia con lo stesso David sia con Lutsenko. Da ricordare anche le trenate kamikaze di atleti con ben poche chance di emergere a fronte degli avversari odierni come i nordici dell’Uno-X (anche se il danese Gregaard, in formissima, salverà comunque una top ten di giornata), o l’isolato e sempre più cane sciolto Campenaerts, che sembra correre per il puro piacere di devolvere watts a qualunque causa, come con Van Aert l’altro giorno.
La resistenza e la regolarità di Jorgenson sono davvero epiche, mentre alle sue spalle il terzetto già privato di De la Cruz si sgretola a base di scatti e controscatti, con il prevalere inatteso di Mohoric. Ma da ancor più dietro sta rimontando con l’implacabile meccanica di un treno il 36enne Woods, il suo naso una reincarnazione bartaliana, fuggitivo come Bartali nel ’52 ma non uomo di classifica, eppure come Coppi implacabilmente lanciato a saltare avversari che non hanno il suo passo, uno via l’altro, fino a mettere spietatamente nel mirino l’ultimo dei mohicani quando il traguardo non dista più km bensì centinaia di metri, eppure, anche così, senza speranza alcuna di reazione per Matteo, che china il capo, cede, crolla, e abbattuto finisce quarto liquidato anche da Latour e Mohoric, poi Berthet, Powless, Lutsenko…
Quando transita l’ultimo residuo dei drappelli che avevano preso la salita in testa, i favoriti sono a metà dell’interminabile spirale che porta in cima. L’altra gara nella gara si è già accesa nelle periferie di Clermont-Ferrand.
La Jumbo ha lavorato, ma hanno lavorato anche INEOS e, un po’ a sorpresa, la DSM di Bardet. Sintomo di un passo non così furibondo da parte dell’alveare meccanico. Ad ogni modo, anche suonando in tono minore, la musica della Jumbo è ballabile per pochi, e così dopo un paio di trenate da parte di Van Aert e Kelderman tocca a Kuss dare una bella scremata in vista dei 4 durissimi km finali, tutti al 12%, quelli veramente iconici avvolti come un serpente mitologico attorno le pendici del vulcano.
Quattro chilometri per un quarto d’ora circa di sforzo. E, un po’ a sorpresa, otto uomini rimasti in testa: meno a sorpresa la loro identità, due INEOS, con Pidcock e il giovanissimo spagnolo Carlos Rodríguez, entrambi ancora in età da maglia bianca, i due gemelli Yates, di cui uno a supporto di Pogacar, e naturalmente Pogacar stesso, i due Jumbo Kuss e Vingegaard, quindi l’australiano Hindley già campione del Giro.
L’attesa per l’esplosione atomica è palpabile, e si attende soprattutto Vingegaard dato che è la sua squadra ad aver lavorato, mentre Adam Yates cederà ancora una volta senza poter aver offerto alcun aiuto diretto a Pogacar. La strada scorre a ritmo regolare, ma nessuno si decide a imporre accelerazioni violente, chi soffre riesce a rientrare, Kuss stesso, unica figura chiaramente devota al sacrificio, è l’unico a proporre un certo ritmo, appena spezzato da qualche allungo di colui che appare il più coraggioso del giorno, Simon Yates. Si inizia a sentire odore di no contest, di polveri bagnate, di gambe piegate dal caldo e imballate da una giornata corsa forse, per paradosso, “troppo piano”. Poi, a due terzi del lungo muro finale, ecco quella che nei corsi di sceneggiatura professionistica viene chiamata appunto “la svolta dei due terzi”: Pogacar prende coraggio e, da davanti, senza sotterfugi, senza mimica ingannevole, intraprende una atroce progressione che in un attimo squaglia il fragile equilibrio dell’ottetto.
Mancano 1.300 metri alla fine, circa quattro minuti di sforzo inumano, estremo, stravolgente, impossibile per chiunque altro. Tutte le lancette virtuali schizzano fuori parametro mentre Pogacar e il suo cavallo di luce pompano sangue dall’ombelico della vita e della morte: quasi 20 km/h su pendenze in abbondante doppia cifra, 2.400 m/h di VAM, valori inconcepibili per il resto dei mortali che continuano a salire a 15 o 16 km/h e incassano così un minuto di distacco in poco più di un chilometro. Una voragine. Il resto dei mortali tranne Vingegaard. Il danese non riesce a tenere la ruota. Gli manca poco, meno di mezzo chilometro all’ora. La distanza si misura in metri, poche decine di metri, non si arriva mai a cinquanta metri di distacco. I secondi sono quattro, otto, dodici al massimo, poi di nuovo otto, sette sul traguardo. Gli abbuoni sono volati via con la fuga. Sono stati quattro minuti di violenza estrema. Pogacar vigilava costantemente affinché Vingegaard non potesse prendergli la ruota, tirando e tirando la corda, senza però che l’elastico si spezzasse mai. Sul 14% con cui sadicamente finisce la salita, Pogacar si alza sui pedali, e si contorce, pestando con violenza inaudita una martellata dopo l’altra, “un minatore” l’aveva definito sprezzantemente Dumoulin prima di abbandonare anzitempo e con poco bottino lo sport professionistico. Pogacar scava secondi, diamanti minuscoli di secondi preziosissimi, poi rifiata prima della linea. Vingegaard subisce e subisce, ma non molla, non crolla, non si spezza, e fiuta la ruota fino all’ultimo metro.
Quattro minuti di mito, quattro minuti fuori scala. Dietro è cronaca: Adam e Hindley i più in affanno, Carlos Rodríguez il più solido ma il meno esplosivo nel finale, Simon Yates il più propositivo e arrembante, Pidcock sulla sua scia. Il resto dei contendenti si spartiranno le frattaglie della top ten, con i francesi Bardet, Gaudu e perfino Pinot ancora in lizza con gli storici frequentatori della media classifica a piccolo cabotaggio di questi ultimi anni, i Bilbao, i Meintjes, uno spento Landa, un malinconico Guillaume Martin. Insomma il solito ciclismo dei tardi anni ’10 che non può fare altro se non correre la propria “gara nella gara nella gara” mentre davanti esplodono i lapilli della leggenda. Quanto può durare un’eruzione vulcanica?
Gabriele Bugada