VINGE, IL CAVALIERE PALLIDO FA SBIANCARE POGI (E IL MONDO)
Laruns o Laredo? Tappa western, sottofondo di Morricone, Vingegaard spara più veloce che la propria ombra. Ma tappa e maglia vanno al coraggioso Hindley.
Tappa complessa, tappa avventurosa. Tappa che comincia come scontro fra squadre e finisce come un duello fra singoli. La tensione è altissima fin dal via quando prende il largo, dopo una lotta acerrima durata per oltre trenta km, una fuga potentissima di quasi quaranta atleti. Nubi nere metaforiche riempiono il cielo pirenaico, aria di Giro, aria di L’Aquila 2010, ma qui siamo oltre la fuga bidone, qui vibra nell’atmosfera una vera e propria “electrical storm”, fulmini e saette pronti e percorrere l’alta classifica: per una volta, vanno applaudite a scena aperta le formazioni che cercano una via alternativa per rompere il duopolio a cui sembrerebbe improntato il Tour.
Ecco allora che la Trek lancia in avanti Ciccone (anche se l’uomo per la classifica generale è il giovanissimo danese Skjelmose) accompagnato da due scudieri di primissima categoria come Juanpe López – a lungo maglia rosa del Giro 2022 – e l’ex campione del mondo Pedersen, idem per la Ag2R che accompagna il proprio capitano Gall con il già vincente Paret-Peintre o il promettente scalatore Berthet, la Quickstep che spedisce in avanti Alaphilippe (più per la tappa, invero) con due guardie del corpo d’eccezione quali Cavagna e Asgreen, e via dicendo, con formula simile ma ridotta a duo, con Van Gils scortato da Campenaerts per la Lotto, Matteo Jorgenson supportato da Mühlberger in casa Movistar, Martínez e Fraile per la INEOS.
Volutamente lasciamo per ultimi gli autori di quel che sarà il capolavoro di giornata, i BORA che già ci regalarono con un’azione orchestrale la tappa più memorabile del Giro 2022, quella di Torino: in fuga c’è proprio Jai Hindley, vincitore del Giro proprio quell’anno ma già secondo dietro Tao nel 2020. È al suo primo Tour, ma questo Tour non è più come quelli “di una volta”: qui di cronometro, specialità dove Hindley tentennava, ce n’è pochina. Questo è un Tour dove Hindley può fare quel che gli riesce meglio, aprire il gas con veemenza in qualche arrivo in salita strategico. È assolutamente anomalo che una figura di questo calibro sia riuscita a mettersi in fuga, che glielo si sia consentito, da parte del gruppo, ma anche da parte della fuga stessa, che gradirebbe la serenità di non vedersi inseguita alla morte. Ma la quadratura del cerchio riesce, e Hindley si trova in testa alla gara con due compagni di primissimo livello, a propria volta già, nel recente passato, grandi speranze per l’alta classifica dei movimenti austriaco e tedesco: Konrad e Buchmann.
La chiave di volta tattica è probabilmente la Jumbo che realizza, forse involontariamente, se non direttamente per sbaglio, un altro capolavoro di strategia, certamente stavolta con molta complicità da parte dell’ingenua tracotanza in casa UAE. Il punto della questione è infatti che in testa alla corsa c’è anche Wout Van Aert, anzi c’è una bella fetta del comparto classiche dello squadrone giallonero, stante il fatto che Wout ha al proprio fianco Laporte e un jolly come Benoot. Parliamo degli uomini chiave per le tappe del Galibier e dell’Hautacam l’anno scorso.
E allora qui va segnalata una prima differenza importante, rispetto a un finale che – quello sì, come vedremo – ricorda un po’ troppo la Sky dei tempi d’oro: durante i più soporiferi Tour Sky, le fughe massive della prima settimana si sganciavano con facilità a causa di accordi più o meno taciti di natura preventiva, vale a dire che tali fughe massive erano il frutto di equilibri politici che non si esprimevano in un braccio di ferro sulla strada. Idem dicasi per l’era Armstrong. Durante quei lunghi periodi di dominio, era rara la pratica ora più comune (così come era comune nel ciclismo storico, fino agli anni Ottanta) di dover negoziare la formazione della fuga a base di scatti, controscatti, trenate, chiusure, con medie altissime per mezzora, un’ora o anche più. La fuga riceveva il beneplacito dei pope del peloton con un gesto benedicente, e tanti saluti. La corsa era già controllata fuori dal nastro d’asfalto e prima che si sbandierasse il via. Tant’è che le poche eccezioni sono restate nella storia dello sport, direttamente, a prescindere dal fatto di aver o meno scosso la classifica finale. Qui la situazione, per i motivi che siano, prende un colore diverso, con una gestione degli uomini Jumbo arrischiata, dividendo il team e spostandone il baricentro all’attacco.
E i motivi magari sono bizzarri, come una possibile insurrezione di Van Aert che, insoddisfatto per non avere ancora vinto la sua brava tappetta, decide di prendere il largo con un paio di fedelissimi per farsi i fatti propri. Fatto sta che la giocata, potenzialmente suicida, anche per via della gamba non pienissima dello stesso Wout, si trasforma invece in colpo di genio. La fuga si sente corroborata dalla presenza del carismatico belga e riceve generose iniezioni di vantaggio grazie ai suoi sodali. Dietro la Jumbo stessa non tira, e viceversa si profonde da subito la UAE in solitario: ma così la minaccia per la fuga è assolutamente relativa e percepita come gestibile. Risultato? Nessuno si propone di cacciar via a base di attacchi ad personam il buon Hindley, che naviga fino al finale sostanzialmente a ruota e sostanzialmene indisturbato. Perfetto.
La UAE stessa si consola con la presenza, là davanti, di due alfieri di peso e prestigio, vale a dire Marc Soler e Grossschartner (Austria e Danimarca, come si vede anche oggi, sempre paesi in grandissimo spolvero, esibendo una “muscolatura” del proprio movimento ciclistico anche superiore alle attese, già interessanti). C’è perfino un momento in cui sembrerebbe che la Jumbo, per incapacità di dare un senso chiaro alla missione di Van Aert là davanti, stia in realtà servendo su un piatto d’argento la giocata magistrale a Pogacar: due forti gregari che si riposano in testa, se in qualche momento Pogi aprisse un buco anche piccolo, poi potrebbe agganciarli e dilatare le differenze. Questa la nota tattica che ronza come un basso continuo sullo sfondo di un distacco che oscilla in modo elastico fra i due e i quattro minuti. Un’area di indefinizione che apre ogni ventaglio di possibilità e rende lo scenario appassionante da seguire minuto per minuto, con l’aggiunta ulteriore delle sorprese che la fuga in sé riserva con le proprie dinamiche: Van Aert che anticipa il Soudet, regge con lui solo Campenaerts, e già si pregusta una cavalcata trionfale del “crossista”. Poi però in salita salta fuori che Wout non è più (o non è ancora) l’uomo dell’Hautacam, Juanpe López lavorando per Ciccone lo riporta a tiro, e i nomi forti con la strada all’insù appaiono altri, lo stesso Ciccone, ma ancor più l’arrembante Felix Gall, Dani Felipe Martínez (tutti questi a caccia di punti per la maglia a pois), e naturalmente, assai sornione, il buon Hindley, sempre al coperto. Poi tanti rientri in discesa, e di nuovo Wout a provare l’anticipo, stavolta con Alaphilippe, sulla scia di Neilands, l’uomo delle evasioni a sorpresa.
Fuochi d’artificio, o una sparatoria da saloon, a volte con la sensazione che alcuni cowboys siano perfino un po’ alticci, esaltati dalla possibilità di una vittoria inattesa, giacché dietro avvertono che sta prendendo piede il panico, nelle fila UAE. Soler e Grossschartner vengono richiamati in sequenza per lavorare in testa al gruppo, una marcia indietro che tatticamente comunque penalizza il team, dunque una correzione per evitare mali peggiori, ma con l’inevitabile sentore di confusione e di aver dunque sbagliato tutti i conti.
Arriva il Marie Blanque, lo spauracchio dei Pirenei occidentali, ed è ora di vedere tutti i bluff al tavolo da poker. Hindley se ne va con Gall, poi da solo. Ciccone insegue, il migliore degli altri, con l’altro BORA, Buchmann, sempre sulle ruote a far da stopper (ma a questo punto conta poco, giusto una remora psicologica). Il resto della maxifuga, disperso. Dietro la UAE prende la salita con un certo piglio, ma la Jumbo ha altro in mente. Kuss inietta veleno nei polpacci del gruppo con una delle sue accelerazioni da scalatore puro, potenziata da una bella trenata aggiuntiva da parte di – indovina chi? – Wout Van Aert, incrociato come per caso a mezza salita. In un batter di ciglia il gruppo dei favoriti è sfatto, ridotto al trio Kuss, Vinge, Pogi. Aveva provato a restare attaccato con le unghie il giovanissimo spagnolo della INEOS, Carlos Rodríguez, ma naturalmente scoppia e rimbalza, anche se poi riuscirà a salvare un piazzamento nei dieci, subito dietro il più cauto Gaudu, che ancora ricorda le sberle prese in edizioni anteriori del Tour dai Bud Spencer e Terence Hill che menano forte là davanti. Altro giovinetto pimpante Skjelmose, per il quale come vedremo corre la Trek (ora non più Segafredo ma Lidl). Del resto del panorama intero del ciclismo mondiale, non vanno a fondo, per un filo, giusto i gemelli Yates.
Ma non è finita. Perché deve ancora sparare Vingegaard. E Vingegaard spara. Pogacar nemmeno abbozza una mezza risposta. Quando l’uomo con il fucile, oggi evidentemente Vingegaard, incontra Pogacar armato di pistola, il secondo è un uomo morto. E che fucile impugna Vingegaard oggi. Non si era vista negli ultimi quindici anni un’erogazione di potenza del genere in salita. Praticamente 7 w/kg durante 20 minuti. L’unico termine di paragone disponibile è il Contador di Verbier. O prima, Pantani. Con il dato ancor più traumatico che questa potenza media già di per sé sconvolgente si distribuisce – il che normalmente è meno efficace – in modo disomogeneo, in una curva di continuo aumento ininterrotto. Nell’ultimo km del Marie Blanque c’è stata fra Vingegaard e Pogacar la stessa differenza proporzionale che normalmente può correre fra un professionista e un amatore seppur ben preparato. Ora, è evidente che Pogacar non è al meglio, perché così lo attesta il fatto di non aver potuto sganciarsi di ruota Kuss, che pure aveva ben lavorato in precedenza: lo sloveno doveva essere già al limite, come si deduce anche dall’incapacità di alzare il ritmo quando, dopo la discesa, si arriva a un breve tratto di pianura e flasopiani in teoria a lui più favorevole. È però altrettanto evidente che il livello prestazionale proposto da Vingegaard non ha semplicemente molti termini di paragone fisiologici nel corso della storia del ciclismo tutta.
Dopo il Marie-Blanque, tocca remare, e Vingegaard da bravo vichingo, rema, eccome se rema. Solo soletto riprende tutti i componenti della fuga, tranne Hindley, che vincerà la tappa e andrà in maglia gialla, aprendo così una breccia interessantissima rispetto allo scenario di duopolio che un po’ già ci annoiava prima del via. Hindley comunque si salva per un misero mezzo minuto, tanto per capirci. Dietro Ciccone si arrabbia anche un po’ perché in ammiraglia gli proibiscono di collaborare con Vinge, e così chiudere su Hindley per giocarsi la tappa: ma l’ammiraglia preferisce non dilatare il distacco su Skjelmose che insegue (davvero pensano di giocarsi una vittoria generale del Tour con Skjelmose? Danish power a gogo. Ma magari!). Peccato, perché la volata per il secondo posto la stravince proprio Giulio, con Vingegaard, per fortuna, diciamolo, che si sgancia esausto quando gli altri, che andavano al traino, lanciano lo sprint. Dietro Pogacar arriva mestamente con un gruppo raccogliticcio assemblatosi in discesa, fugaioli superstiti, più altri frammenti dell’esplosione avvenuta in classifica generale. Ora è quasi due minuti dietro la maglia gialla Hindley, e quasi un minuto dietro Vingegaard. Ma Vingegaard ha sentito il sapore del sangue, e potrebbe cercare già sul Tourmalet di chiudere la pratica Pogacar. Magari alleandosi con Hindley e lasciando la gialla a quest’ultimo. Oppure basterà una revolverata nel breve muro di un paio di km che interrompe la monotonia del falsopiano ascendente verso Cauterets. Oppure… Oppure… Oppure chi lo sa, perché questo Tour è partito scoppiettante. Chiudiamo con un altro dato numerico, apertissimo a revisioni naturalmente: la giornata di ieri ci riporta al ciclismo delle maturazioni graduali, agli atleti che fino ai 25-26 anni regalano giusto sprazzi e poi solo da lì in poi vanno affermandosi con crescente sicurezza. Se Bernal, Evenepoel o Pogacar ci avevano in qualche modo proiettato verso il ciclismo precoce dei Coppi, dei Gimondi, dei Merckx, degli Hinault, ci troviamo – insisto, ad oggi – ad ammirare una generale provvisoria dove Pogacar 24enne è fra i pochi più giovani, ma sul serio, con giusto Skjelmose 8º, Carlos Rodríguez 9º e Pidcock 13º a rappresentare il mondo under 23. Hindley, Vingegaard, Ciccone, gli Yates, Buchmann, Kuss ancora una volta sugli scudi, sono tutti esempi invece di maturazione graduale, come potrebbe essere Gaudu, mentre si affacciano ancora sullo sfondo alcuni “vecchietti” di qualità come Bardet, Kelderman o Landa (Woods storia diversa per il cambio di disciplina, un po’ alla Roglic). Anche fra gli eroi di giornata, Gall o Dani Felipe o Jack Haig corrispondono al profilo, più abituale per chi ha seguito il ciclismo degli anni Novanta e Duemila, di una piena espressione del potenziale solo quando si passi il crinale dei 25 anni. Vedremo se anche la classifica generale finale confermerà questa tendenza o resterà un’eccezione del momento. Simbolico che un Pogi fatto impallidire dal pallidissimo Vingegaard indossi la maglia bianca, stavolta senza prestarla a terzi, e inoltre perché oggi come oggi ne sembra l’autentico titolare più che un rivale alla pari del danese per la gialla.
Gabriele Bugada