CAVE CAVEN: TRIONFO A ROMA, MA C’È ARIA DI CIRCO.
Finisce un Giro mesto con un altro colpo a effetto. Ma un paio di alzate d’ingegno da campioni, non si sa quanto studiate, non tengono in piedi tre settimane di stasi.
Tante volate, forse troppe volate, a questo Giro 2023, come già dissero alcuni in sede di presentazione del percorso, e alla fine con sei protagonisti diversi. Sostanzialmente, si scherzava alla vigilia, han vinto pressoché tutti i velocisti puri presentatisi al via: a Roma sarebbe dunque dovuto toccare a Cavendish o a Gaviria, ma quest’ultimo si affaccia al finale sempre più in vesti di finisseur, e quindi di fatto finisce spesso per lanciare lo sprint di qualche rivale. In questo caso un Cavendish imperiale non ne avrebbe avuto comunque bisogno perché c’è l’antico collega di Team Sky e di velodromi, Geraint Thomas, a fargli da apripista, benché oggi corrano in squadre diverse. Probabilmente già si erano ripromessi di proporre la scenetta quando ancora il gallese coltivava sogni rosa, solo l’altroieri, ricreando così il finale del peraltro osceno Tour de France 2012 al cui termine Bradley Wiggins in maglia gialla lanciò la volata vincente di Cav sui Campi Elisi. Suona tutto un po’ troppo bene, da sceneggiatura di una serie TV, magari redatta da un’intelligenza artificiale, e infatti il sospetto è che ci sia lo zampino di una complicità collettiva nel metter su un regalone d’addio per Cavendish giunto all’ultimo giro di pista della sua carriera agonistica, e giustamente commosso in più occasioni durante questo Giro, annunciando il ritiro prima e poi da vincente. Per una volta, non ce ne scandalizziamo (troppo). In fin dei conti stiamo parlando probabilmente del più forte velocista puro della storia dello sport, e dunque di una figura eccezionale che merita un addio eccezionale, anche se questa sottocategoria di iperspecializzati è un po’ troppo striminzita – perché ovviamente il buon Cav svanirebbe al cospetto dei veri imperatori, Rik I e II, tanto per fare un esempio. La grazia del tutto sta ovviamente nel dubbio: i ciclisti a volte sono bravi nel regalare (o vendere!) con sprezzatura sufficiente a non far crollare del tutto il senso, o il sentimento, di un’effettiva competizione, a maggior ragione perché in questo caso sul rettillineo d’arrivo concorre anche una maxicaduta colossale da peplum che comunque scompagina le carte. Ricordiamo anche che, ragionando statisticamente un po’ a braccio, sei vittorie di sei diversi protagonisti presuppongono un livello tecnico-atletico non eccelso degli stessi, soggetti a rotazione in una sostanziale parità di forze, chi per limiti tecnici a strozzarne il potenziale fisico strabordante come Milan, chi per imperscrutabili assurdità di squadra come Dainese. Nell’ambito di questo panorama ci sta anche che Cavendish si porti a casa la tappa – e un record!, quello, non a caso, di più anziano vincitore in una frazione della Corsa Rosa, battendo peraltro Tiralongo a cui pure la tappa era stata servita per riconoscenza da Contador.
Esaurita la riflessione sulla giornata odierna in cui tutto ha un retrogusto teatrale, che sia l’allungo di Gee o qualche sferzata della INEOS, va riportato lo sguardo su quanto ci lasciamo indietro, con una chiave di lettura che proprio la volata ci ha fornito. Volata finale che si sarebbe voluta clone o analogia o anagogia di quella di Parigi 2012, e corsa a tappe intera che si pretende riproposizione del Tour 2020, con la redenzione in questo caso di Roglic stavolta riscattatosi per pochi secondi in una durissima cronoscalata, come invece nel 2020 Pogacar strappò a lui in una prova simile un Tour de France che pareva già in saccoccia. Ebbene, nonostante chi disegnava il Giro abbia conseguito l’esito voluto a tavolino, c’è da interrogarsi profondamente sul senso di questo “successo” che è semmai un fallimento a tutto tondo. Anzitutto, il Tour è il Tour: lapalissiano, ma non bisogna scordarlo. La corsa più importante al mondo sempre e comunque, bella o brutta che sia, dunque si può permettere strafalcioni e obbrobri che al Giro costerebbero, o costano, molto più cari. Il pasticcio del Ventoux 2016 con il tempo regalato inspiegabilmente a Froome, alla faccia dei precedenti (o alla faccia di Nibali quando patì una situazione simile sull’Alpe 2018); la farsa della partenza in griglia stile formula 1… questa sorta di episodi a stento incidono sulla grandeur della corsa transalpina. Per il Giro, nel momento in cui si affaccia di nuovo sul palcoscenico internazionale con piena dignità come sta pian piano avvenendo dopo la parentesi dei primi Duemila, non esiste lo stesso grado di tolleranza, anche perché viceversa, sul piano interno, si va affievolendo l’amore per la Corsa Rosa che invece sembrava ancora, appunto, “infinito” fino a un decennio scarso fa. Ricordiamo in questa edizione il sindaco di Vinovo negare il passaggio, e obbligare a un cambio di tracciato dell’ultimo secondo, seppur poco influente, in quanto “Vinovo non può restare paralizzata [cioè impedita nell’uso dell’automobile, NdR, per chi non lo avesse capito] per colpa di una corsa di biciclette”. Vinovo, non Milano, che pure fa pena. Invece che rendersi conto che Vinovo si dà una mossa precisamente se il Giro passa, e in quanto passa il Giro, come pure avevano ben capito i valdostani a cui invece il Giro ha negato il proprio transito per mere manfrine di cui già abbiamo conto. Insomma, viviamo un’epoca di transizioni e tensioni, un’epoca che esige pertanto il massimo slancio e la massima coerenza.
Ecco, un Giro che si traduce in uno sciopero bianco per l’80% del gruppo nella stragrande maggioranza delle tappe non è un Giro che susciti o rifletta chissà che slanci. Al Tour questa sorta di 0-0 tattico può reggere in virtù di ciò che si considera in gioco, e in virtù di un pubblico che venera la propria corsa sempre e comunque. Da notare che perfino al Tour, comunque, situazioni simili negli anni del Team Sky erano costate un’emorragia di spettatori. Ma per il Giro si tratta di un autentico suicidio. Purtroppo i dati televisivi sono lì a darne testimonianza. Dati da prendere con le pinze, perché si iscrivono comunque in un calo generale nei consumi del prodotto televisivo, per cui lo share, ad esempio, rimane piuttosto buono, anche al netto di novità nella msiurazione. I numeri assoluti però sono in picchiata, e risulta in special modo deludente il fatto che meno di due milioni di persone abbiano seguito l’emozionante cronoscalata che, per gli appassionati e fedelissimi, ha riscattato almeno in parte la gara di quest’anno. L’ultimo sabato, giornata invece di picchi in condizioni normali. Tuttavia è probabile che un certo sforzo gli spettatori, appassionati e non solo, l’avessero fatto il giorno prima, quando in giorno feriale due milioni e mezzo di persone avevano seguito l’indigeribile processione verso le Tre Cime. Dopo cotanta sofferenza (del pubblico non dei ciclisti), i più han deciso di dedicare ad altro il pomeriggio successivo, col risultato che la migliore ed unica autopromozione che questo Giro avrebbe potuto darsi… l’han vista relativamente in pochi. I superstiti. I già convertiti. Va detto che si è consolidato, in questo Giro, un nocciolo duro: a giudicare dai numeri, se è pur tristemente vero che i picchi sono sfumati completamente, in compenso si sono ridotte le differenze fra tappe di transizione – alcune guardatissime – e tappe decisive; fra l’ora finale di tappa, e tappa intera (con a volte oltre un milione e mezzo di persone a seguire ore e ore di svolgimento!, certamente ad accompagnamento di altre attività, ma comunque con apparecchio acceso e sintonizzato sul Giro); fra fine settimana e giorni feriale; fra prima e terza settimana. La sensazione è che il pubblico sia sempre più un pubblico da un lato in età da pensione, dall’altro lato comunque radicalmente appassionato. Un pubblico molto specifico, sempre più legato a una certa fascia d’età, da un lato, alla specificità dello sport ciclistico, dall’altro. Questo tipo di andamento, tuttavia, potrebbe senz’altro premiare le Classiche (e così sta accadendo in termini di audience), ma per quanto concerne il Giro rischia di essere una scommessa molto penalizzante, visto che la forza del Giro è da sempre il suo potenziale popolare, la capacità di trascendere il confine degli appassionati delle due ruote.
Anche perché, e qui chiudiamo il cerchio, questo pubblico ridotto ma vorace è anche un pubblico via via più esigente, che da un lato può magari consentire al Giro di reggere l’urto tremendo che rappresenta, di rimbalzo, il declino del movimento italiano (il pubblico popolare è spesso nazionalpopolare e vuole l’eroe locale, l’appassionato di ciclismo tout court è più cosmopolita nelle sue preferenza da tifoso), ma, dall’altro lato, non si accontenta di belle riprese di paeselli dall’elicottero. Peraltro assai benvenute. Vuole ciclismo.
Nel caso di questo Giro 2023 fin troppe volte si è avuta la sensazione di una collusione trasversale fra le squadre giganti dei big per inscenare un no contest in cui far razzolare i fugaioli di turno. Ma questo finisce per essere più circo che sport. E non il Circo Massimo, dato che oltretutto i ciclisti, non proprio a torto, si negano ad essere fino in fondo gladiatori. Più un circo di numeri musicali e acrobatici anche divertenti, a volte – molte poche volte, in questo caso! – ma in cui è proibito chiedersi se il gesto a cui si assiste sia perizia o messinscena concordata. Si tratta di una questione che va molto al di là di trite riflessioni su un doping effettivo o presunto: si tratta invece della conseguenze nefaste di una diseguaglianza non minimamente gestita dallo sport, le cui ricadute nei Grandi Giri sono specialmente distruttive.
In breve, poca competizione autentica, perché “chi puote” preferisce che a competere siano in pochi. Ma poca competizione equivale a poco ciclismo. Il dato emblematico di questo Giro è che – come mai o quasi mai a memoria di tifoso – non si è vista in nessuna tappa alcuna seria azione dalla media o lunga gittata volta a smuovere la classifica generale. Ciò che più vi si avvicinava è stato l’allungo in discesa di Caruso con un paio di compagni sotto gli acquazzoni dell’Appennino. Movimento di durata peraltro limitata e di effetto nullo. Al Tour, in quanto è il Tour, si sopravvive a un 50% buono di edizioni in cui i protagonisti non attaccano mai prima dei finali. Il Giro non era mai stato così, o quasi mai. In ogni Giro c’è almeno un tentativo di dare uno scossone alla generale provando prima della fine. Spesso anzi di tappe così ce ne sono diverse in una singola edizione… magari non addirittura quattro o cinque come nel 2015 o nel 2016, però un paio suole essere il minimo sindacale anche in Giri vissuti di tensioni più che di assalti alla sciabola come furono il 2017 o il 2020. Una, almeno una. Come la Torino del Giro 2022 già bollato come il più brutto del 21º secolo e probabilmente scalzato dal 2023 (se così non fosse, “salvato” in extremis, e proprio per modo di dire, da questa famosa cronoscalata, oltreché dai tanti bravi fugaioli, Healy, Dee, Pinot, Zana su tutti, senza scordare i Rubio, Buitrago, McNulty, Cort, e poi Bais, Denz, Paret-Peintre…). Il Giro 2020 era stato decisamente discutibile, poi il 2021 era parso di nuovo all’altezza, ma 2022 e 2023 rischiano di delineare una tendenza le cui cicatrici di medio periodo potrebbero essere irrecuperabili. E purtroppo non sembrano esistere soluzioni facili, visto che da molti punti di vista il lavoro di RCS, va detto, non è di mediocre qualità, tutt’altro (grandi inviti, buoni percorsi, anche se in peggioramento rispetto a 7-8 anni fa). Tuttavia fra “sfortune” più o meno incontrollabili e reazioni sistemiche, le cose stanno andando un po’ storte, e con un po’ troppa frequenza, come quei corridori (Roglic e Thomas, per dirne due) che cascano piuttosto spesso, certamente a volte per pura sfortuna o colpe altrui, ma… altre volte ce ne mettono del proprio; per far sì che la tendenza prenda corpo come tale, qualcosa di fondo c’è. Forse la parola chiave, nel caso del Giro, potrebbe essere “disaffezione”, nel sistema Paese da un lato, in un peloton che mitizza sempre meno l’Italia, dall’altro. È anche un serpente che si morde la coda: il che è un vero paradosso per una corsa che ha come slogan “amore infinito” e come trofeo una spirale che avvolgendosi apparentemente su se stessa, in realtà cresce e cresce. Il pubblico inteso come somma di persone e vite individuali è ancora a bordo strada, non ha smesso di seguire il Giro o aspettarlo. La struttura socio-economico-politica italiana e quella del ciclismo internazionale sembrano invece guardare dall’altra parte.
Gabriele Bugada