VUELTA PER LA STORIA: EVENEPOEL VINCE, AGLI ALTRI L’INVIDIA

settembre 12, 2022
Categoria: News

Una Vuelta intraprendente, un po’ sforacchiata nella partecipazione dalla pandemia e altre stanchezze, trova guizzi di spettacolo ed emozione che danno, nonostante tutto, una bella consistenza al trionfo storico di Evenepoel.

A Remco e al suo entourage è sempre piaciuto esagerare, gonfiare, cercare la zuffa mediatica, ancor meglio se via reti sociali: sarà chissà per la matrice calcistica dell’atleta, o forse per il suo avvento da predestinato in un Paese che respira ciclismo e che, forse anche per questo, tende a trasformare i propri campioni del pedale in divinità fragili, costantemente sotto i riflettori, a volte per brillare al massimo sulla scena, altre invece per essere abbattuti da raffiche di mitragliatrice mediatica. Questo contesto, assieme alla giovane età del fenomeno belga, spiega le lacrime di ieri all’atto di confermare sul traguardo della tappa regina la vittoria de facto della Vuelta, ma oggi Remco ha modo di razionalizzare e verbalizzare più chiaramente quale sia il peso oggettivo della sua vittoria, un peso proporzionale a decenni interi di Storia del ciclismo.
Il Belgio non vinceva nessun Grande Giro da qualcosa come un quarto di secolo, come a dire l’ultimo 20% di tutta quanta la Storia di questo sport. E non parliamo solo di Merckx – “certo Merckx, ma quello era Merckx!” – perché durante e dopo Merckx il Belgio aveva ancora saputo esprimere negli ultimi anni Settanta e fino alla primissima soglia degli Ottanta tutta una generazione di talenti puri, come Van Impe e Criquielion (o anche meno puri, come Pollentier) per non dire di De Muynck o del fenomenale, inmitabile Maertens capaci fra tutti di vincere lungo l’intero ventaglio dei Grandi Giri, oltre a raccogliere svariati podi, giusto per dimostrare che non di exploit occasionali si era trattato. Da lì in avanti, il nulla cosmico, appena solcato meteoricamente dal podio totalmente occasionale seppur non accidentale di un altro grande talento quale De Gendt, al Giro 2012,nonché da un Bruyneel pollentieresco che fa terzo alla Vuelta 1995, quella del compagno di squadra Jalabert, in cui la famigerata ONCE piazza tre atleti ai primi quattro posti della generale, tanto per capirci (se proprio vogliamo, ci sarà anche un podio ex post per Jurgen Van den Broeck nel riscrittissimo Tour 2010, ma di quel genere che alletta più i fan del ciclismo su carta che gli amanti di quello su strada). Per spigare questa carestia epocale non è che si possa più di tanto elucubrare su doping o men che doping, visto che alcuni dei nomi citati, così come le semplici note di cronaca nel corso degli ultimi decenni, lasciano ben chiaro che il Belgio non sia certo luogo di speciali ascetismi farmacologici: oltre tutto, il declino nei Grandi Giri del movimento belga precede ampiamente le ben note evoluzioni tecnologiche che sarebbero state capaci di alterare nel tempo certi equilibri dello sport. Né ha senso arrovellarsi in congetture fisiognomiche legate alla geografia o alla genetica del Benelux, dacché la stessa area ha frattanto prodotto sia nei Paesi Bassi sia in Lussemburgo un discreto profluvio di uomini da podio, capaci di giocarsi e in una o due occasioni perfino vincere un GT.
Si tratta, più probabilmente, di una miscela fra il mero caso e certi indirizzi culturali di un movimento: il profilo prediletto a livello giovanile, il tipo di gare più amate dagli sponsor, le squadre dominanti nel lungo periodo e le loro rispettive attitudini. Viene da pensare alle allergie del movimento spagnolo quando si parla di Classiche, anche se in Spagna non sono mancate illustri e pesanti eccezioni. In entrambi i casi, comunque, gioca un ruolo interessante l’esistenza di una struttura di team molto longeva de estremamente specializzata in una delle due macrocategorie di gare ciclistiche: così come la saga di Unzué in Spagna vive di gare a tappe, parimenti quella di Patrick Lefevere in Belgio si alimenta di Classiche; e in entrambi i casi l’idiosincrasia sfocia in un certo qual imbarazzo all’atto di confrontarsi con l’altro lato dell’universo ciclistico. Questa Vuelta è infatti anche il primissimo Grande Giro vinto dalla Quickstep in qualunque sua incarnazione degli ultimi vent’anni, da quando cioè il team si formò come una sorta di spin-off della Mapei (che invece aveva un decoroso comparto da gare a tappe, sebbene non così dominante e spesso soggetto a tensioni). Anche qui risulta impossibile la faciloneria esplicativa, dato che la struttura di Lefevere ha provato in alcune occasioni a contrattare specialisti da GT: tuttavia, al contrario di quanto non succeda coi velocisti, quando esiste un termine di paragone esterno presso altra squadra, non si osserva alcun beneficio derivante dal correre in Quickstep; i risultati più di spicco, relativamente recenti, sono i secondi posti di Urán o Mas, presto replicati altrove, mentre, anche al di là del caso emblematico di Rujano, potenziali uomini da GT belgi come Seeldraeyers o Devenyns non sono mai stati fatti sbocciare come tali, né troppo migliori, in proporzione, sono stati i frutti con atleti di be superiore talento come Jungels o lo stesso Almeida. D’altronde colpisce che gli sparutissimi podi belgi dell’ultimo trentennio siano venuti dall’estero o dall’altra sponda nazionale, la di per sé ben più modesta Lotto, epperò ben più versatile come squadra.
Insomma, le premesse storiche non erano delle più incoraggianti, e difatti un’impresa che a tratti sarebbe potuta sembrare facile, alla fine non lo è stata affatto. Anzi, diciamo che sotto molti punti di vista sia l’atleta sia la squadra dovranno intavolare importanti riflessioni in vista del futuro: intanto, però, il segno storico è stato tracciato, e il merito di averlo ottenuto in questo contesto non può essere sminuito. Evidentemente, per un’infinità di motivi, negli ultimi vent’anni è divenuto impervio frequentare l’altissima classifica generale di un Grande Giro se si è nati in Belgio, e peggio ancora se si corre per Patrick Lefevere. Potremmo perfino dire che questa Vuelta ha addirittura confermato, in certo qual modo, queste indicazioni di massima: Evenepoel tuttavia è stato superiore, a questo carico enorme ancor più che agli avversari.
Prima che si cominciasse a pedalare, c’erano state già notevolissime oscillazioni nelle aspettative e nelle sensazioni, fermo restando – va sottolineato – un bel percorso, almeno per i canoni della Vuelta, anzi ulteriormente migliorativo nel solco già apprezzabile di progresso pian piano imboccato da una decina di anni in qua, riducendo la ripetitività di tappe monosalita improntate al garagismo, pur senza rinunciare del tutto a questa specie di marchio di fabbrica. Abbiamo addirittura visto diverse tappe superare i 180 km con buon dislivello, e fra queste quelle che più si sono avvicinate alle cinque ore di gara sono state fra le più spettacolari in assoluto, senz’altro la 18.a ma anche la 20.a o la 6.a ; anche tappe di montagna più brevi come quelle cruciali della Pandera o di Sierra Nevada pur di chilometraggio non abnorme hanno superato le quattro ore per la loro difficoltà altimetrica. Viceversa hanno un po’ deluso (ma può succedere) le due tappe da tre orette e spicci che si sperava potessero produrre fuoco e fiamme su un terreno mosso, ai due estremi della competizione quella basca di Laguardia e quella di Talavera de la Reina; alla fine si sono tradotte in inseguimenti di qualche interesse ma comunque finiti in volata ristretta, per puncheur a Laguardia e per sprinter resistenti a Talavera.
La peculiarità negativa del tracciato era una terza settimana leggerina, e questo già creava aspettative positive su Evenepoel, così come la presenza di una solida crono filante di 30 km da spingere ben al di sopra dei 50 km/h (55 per i primissimi). A favore di Remco anche il fatto che pur in una bella variabilità di fattori mancava una vera e propria tappa regina con salite sia dure, sia lunghe, sia multiple. Va detto che le tappe che in qualche modo più rispondessero a questa descrizione si situavano nella prima settimana, e forse grazie a questo Remco invece di soffrirle le ha rese il teatro di un vero e proprio one-man show di distruzione generalizzata della concorrenza. Ex post, tutto facile: ma niente impediva che invece gli andassero subito di traverso, come a un Carapaz, per dire. Sulle salite davvero maiuscole, anche perché mai unica ascesa del giorno, Evenepoel ha in effetti sofferto, alla fine della seconda settimana: ma quando le pendenze si sono moderate, nella terza settimana, il belga si è ripreso alla grandissima, quando invece avrebbe potuto perfettamente proseguire un’inerzia di gara in calando. Si è comunque capita l’importanza fondamentale di ridurre le tappe monosalita: sia sulla Pandera sia a Sierra Nevada, Roglic ha spinto al limite o direttamente alle corde Remco grazie al lavoro pregresso dei propri Jumbo Visma sulle salite precedenti. Senza quelle salite, la gestione degli sforzi sarebbe stata del tutto diversa, così come diversa sarebbe stata la possibilità di isolare il leader.
A proposito di isolamento, va detto che il supporto collettivo del “wolfpack” è stato accettabile ma modesto, e poi via via direttamente insufficiente. Alaphilippe ha fatto il diavolo a quattro per Remco, prima di farsi male, Van Wilder ha confermato il suo verde talento già visto a livello giovanile, Masnada e Cavagna si sono confermati piuttosto solidi (anche se un po’ opachi) sui rispettivi terreni, pure il covid ci ha messo del suo… ma la verità globale è che non solo UAE (specialmente), INEOS, Jumbo (aggressivamente più che per qualità intrinseca dei gregari) hanno brillato assai di più, non solo, no, anche team più zopicanti o affaticati come Astana, Bora o Trek hanno saputo impressionare di più in quanto collettivo. Per un corridore che da un certo punto in poi doveva puntare sulla difesa, si è trattata di una sfida non da poco, ancor più con un’esperienza comunque breve alle spalle, specie se parliamo di tre settimane. Scommessa stravinta, a livello individuale, per Evenepoel.
Ecco, soggiungiamo anche, a questo punto, che di un altro tipo di “isolamento” invece Remco ha goduto: i rivali non sono stati dei più tremendi, anche se quando Roglic è entrato in forma sono stati guai grossi. E dire che nei mesi precedenti alla gara si parlava di un redivivo Bernal, e poi Pogacar, e tutti i reduci presuntamente recuperatissimi del Giro, da Hindley a Carapaz a Landa, più quanti finirono prematuramente fuori gara per qualsivoglia motivo, ancor più freschi, come Simon Yates o Superman López… Alla fine dei conti, la verità è che la stagione viene lunga anche se non si corre; o forse, una volta di più, che la classe superiore in questa generazione è stata profusa in abbondanza, ma forse non su troppi nomi. Il covid, come anticipato, ci ha messo del suo. Fatto sta che Remco ha avuto un solo vero rivale, Roglic. Certo, Roglic è bastato per offrire una solida pietra di paragone. I suoi attacchi di squadra e poi inviduali, da “tutto per tutto”, hanno inflitto tutto il danno possibile e immaginabile. Evenepoel ha patito quel che doveva e poteva patire: non sapremo mai, questo è vero, se avrebbe retto con eguale scioltezza la pressione quasi più psicologica che fisica di un rivale di tale caratura ben addentro la terza settimana. La caduta di Roglic ha smorzato i colori di una terza settimana già non folgorante sulla carta, anche se poi va detto che la buona volontà degli altri attori, specie la UAE dell’adolescente Ayuso (a podio!), di Almeida e Soler, ha reso lo stesso godibilissime le lunghe tappe di montagna che rimanevano, di nuovo legittimando il leader. Appassionanti anche le vicende INEOS, con Carapaz arrembante cacciatore di tappe dopo aver rinunciato alla generale non sentendosi all’altezza (tre tapponi e la maglia di miglior scalatore corroborano la sua caratura di atleta di prima fila in questi anni), e l’altro giovanissimo spagnolo, Carlos Rodríguez, scivolato al sesto posto in una resistenza strenua dopo aver sofferto una brutta caduta. Mas e la Movistar, che dire, solidi, di eccelsa qualità, ma in sostanza anonimi, preoccupati di altro che non di vincere, un po’come Valverde onestissimo 13esimo alla fine, 42enne alle sacrosante soglie di una meritat pensione. Dice molto questa top 20 finale divisa quasi equamente fra baby fenomeni (maglia bianca e rossa condividono buona parte delle posizioni top), lo stesso Evenepoel, e poi appunto Ayuso, Almeida, Carlos Rodríguez, Arensman, più giù anche un Mäder, e, all’altro estremo anagrafico, una palata di quasi pensionati – letteralmente! – come Urán, Meintjes, Valverde, Landa, Luisle Sánchez, Pinot… fra coloro che sono sospesi si difendono solo, e senza incidere troppo, due forze già ben note e definite (due forze peraltro opposte, caratterialmente e come persone) quali Enric Mas e Superman López.
Una situazione che caratterizza anche il campo dei velocisti, dove una ruota veloce ma più che altro resistente come Mads Pedersen stradomina la competizione, tripletta di tappe e maglia verde (complice l’uscita di scena di Bennett). Per capirci, e entriamo in una minimalistica cronaca dell’ultima tappa, vera e propria passerella, oggi vince Molano, l’ultimo vagone del treno di Ackermann: stufo delle cilecche del proprio capitano, uno dei tanti sprinter da un anno di gloria e via, il colombiano semplicemente non smette di pedalare, non si fa da parte… e vince.

Chiudiamo questa disamina con una valutazione impietosa della situazione italica: con un misto di snobismo e di obiettività, dalle nostre parti si è sempre guardata dall’alto in basso la Vuelta, il cui tasso tecnico stentava a decollare perfino quando le manfrine ASO (e altri fattori) inducevano i fenomeni da laboratorio del momento a scontrarsi con la grandissima generazione di atleti locali. A volte c’erano i campioni ma non il terreno, altre volte il viceversa, talora il cerchio quadrava ma “era solo un’annata”. Sta di fatto però che la Vuelta cresce, e di pari passo guarda caso cresce l’attenzione al ciclismo femminile in un Paese che, incredibile a dirsi, era piu indietro dell’Italia in questa specifica combinazione di genere e disciplina. Si moltiplicano di nuovo le gare a tappe in terra spagnola, per uomini e donne, e, guarda guarda, arrivano anche i rimpiazzi per la generazione di mostri sacri che si sono ritirati. La Vuelta evolve e si corregge, invece di involversi come il Giro delle ultime due stagioni. Il Giro ha goduto di contingenze eccezionali – anche per grandi meriti propri – fra 2008 e 2019, quando parallelemente il Tour inciampava spesso in un passo falso dopo l’altro. Ora però la ricreazione è finita, come direbbero appunto Oltralpe. Il prodotto clou di ASO, il Tour, sta tornando forte, anche grazie alla scelta, prima forzosa, poi assecondata in pieno, di sviluppare il versante femminile. E la Vuelta partecipa totalmente, nonché con iniziativa propria, di questa fase di ascesa dei propri organizzatori. Il Giro ha preferito non sfruttare il proprio apogeo per fissare dei punti fermi, ad esempio per associarsi agli altri due Grandi Giri in un concetto televisivo da propugnare su televisioni free broadcast preferibilmente pubbliche. Anzi, ha monetizzato nel breve con l’esclusiva a Eurosport, relegandosi però così alla marginalità spettatoriale in gran parte dei territori tradizionali del ciclismo. Il resto viene un po’ da sé. L’unica speranza è che il comparto del ciclismo ancora di robusta costituzione a livello nazionale, vale a dire i marchi, decida di riportare il baricentro da ogni punto di vista in Italia, anche in manifattura vista la crisi della logistica; e che da ciò discenda – via peso economico e posti di lavoro – un peso leggermente maggiore del comparto stesso nelle decisioni pubbliche, viabilità compresa (la viabilità è dove gli atleti di questo sport si allenano!). A seguire, che poco a poco l’interesse di chi sa prema sulle rendite di chi semplicemente sul ciclismo italiano “si è seduto”, in ogni senso, a ogni livello. Altrimenti ci resterà solo l’invidia verso la Spagna, e una pazienza da belgi per attendere vent’anni (almeno) il prossimo Messia – certo che loro almeno “si consolavano” con le Classiche. Per fortuna alla faccia dei colleghi uomini abbiamo miracolosamente sempre le Elisa, Silvia, Chiara, Marta, Sofia e così via, abituate a emergere anche senza supporti e senza fanfare. Magari potremmo iniziare a offrirgliene, e così di sfuggita goderci Annemiek Van Vleuten che dopo aver vinto Giro, Tour e Vuelta in un anno, si porta a caso, per dire, le Monumento che le mancano, Sanremo e Lombardia – attualmente inesistenti. RCS anyone?

Gabriele Bugada

Remco Evenepoel sul podio di Madrid (Getty Images)

Remco Evenepoel sul podio di Madrid (Getty Images)

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