DA LA DÉFENSE A LA DÉPENSE: SI CHIUDE IN SHOW UNO SPETTACOLO DI TOUR
Dalla parignia Défense parte una tappa di piccole allegrie da scolaresca in gita per chiudere un Tour generalmente felice, sfavillante, spettacolare, alla faccia del covid. Fra i migliori di questo scampolo di secolo se non il migliore, il prosieguo della Storia gli darà il suo posto.
La cronaca è cronaca in gran parte di uno spettacolo goliardico, roba da criterium! Wout Van Aert che inscena il suo attacco ormai pavloviano dal km zero, a sua volta un riflesso speculare e più o meno condizionato di quanto inscenato da van der Poel al Giro (a questo Tour solo un fantasma l’olandese), ma nel caso di Van Aert con un surplus di efficacia e decisività. Tranne oggi, ovvio. Oggi è tutto teatro, come dimostra l’aggregarsi lesto all’operetta da parte di Vingegaard e Pogacar, così replicando, altro riflesso teatrale, il terzetto allora assai serio dell’Hautacam, e preludendo, va da sé, al gran podio dei vincitori di maglia quando si andrà a posare davanti all’Arco di Trionfo. Oggi, si sa, è tutta scena. E da lì si salta da un photo opportunity all’altra: la combriccola dei danesi, lo squadrone Jumbo coi numeri dei compagni ritiratisi frattanto (un po’ lugubre, come ogni sceneggiata che si rispetti è sempre, sotto sotto). E via dicendo. A proposito di ritiri, perfino oggi se ne vanno – ma perché? – un paio di corridori positivi al covid, i canadesi Woods e Boivin della squadra israeliana. È stato uno stillicidio, come in poche altre corse, fra regole poco chiare e timori della prima ora, che forse hanno inciso anche sul modo di correre di Pogacar quando cominciava a vedere il proprio team decimato dal virus. Comunque sia, più si andava avanti, meno ci si pensava, a metafora della pandemia più in generale. A qualcuno va storta? Poco male. Alla fin fine, la corsa non cambia granché, a ben guardare. Fra l’emblematico e l’esilarante il ritiro di Gorka Izagirre che per poter correre la “corsetta” di casa al suo paese – letteralmente – rinuncia a finire il Tour (e butta i 25 punticini UCI del 33esimo posto in CG, preziosi per il suo Movistar Team in aria di retrocessione).
Dopo una trafila di tentativi di fuga senza storia, segnaliamo solo quello a 6 km dalla fine di Pogacar, parzialmente assecondato da Ganna e Thomas. Paradossalmente si vede solo in extremis all’attacco un Ineos che aveva pure promesso fuoco e fiamme alla vigilia con una squadra da tre capitani e mezzo (due dei quali finiscono pure in top-10 finale, e uno sul podio, mica male… peccato che tale risultato arrivi per via d’irrilevanza). Ma è tutto vero o è solo uno show? Chi lo sa. Non è una patente messinscena come quella al via, ma puzza anche un po’ di boutade senza convinzione. Soddisfatto con la tappa di ieri, non prende sul serio quella di oggi nemmeno Wout Van Aert, che resta indietro in prossimità del traguardo per festeggiare col resto del team, prolungando con un piccolo ritardo verso l’arrivo il godimento di una corsa che ora non vogliono veder finire, dopo averlo probabilmente bramato per giorni e giorni.
Divertimento, spettacolo, ma a volte la sensazione di non capire dove comincia la serietà e dove la sceneggiata. Una postilla che purtroppo tocca apporre al Tour in generale dopo la tappa a cronometro di ieri, dove Vingegaard ha deliziato il pubblico in un finale col freno a meno per regalare la vittoria di tappa al compagno Van Aert, e che Vingegaard coi suoi 60 chiletti debba “regalare” a Wout una tappa contro il tempo di 40 km a oltre 50 km/h, ovvero non proprio da scalatori, già la dice lunga, lunghissima. Non che mancassero elementi di perplessità pregressi, come sempre quando un intero team sfodera prestazioni globalmente da urlo, però si era rimasti comodamente nei limiti della “sospensione dell’incredulità” con cui lo spettatore può godere di un ciclismo, diciamo, realistico. La gomma era stata stiracchiata qui e là, ma tutto sommato senza mai strappi eccessivi, fors’anche grazie al carattere per ora ancora non arrembante e travolgente di Vingegaard, che per attaccare Pogacar sul Granon aveva atteso l’allungo di Bardet (e se Bardet non si fosse mosso, pensa tu!) come su Hautacam aveva delegato a Wout il duro compito di levare lo stesso Pogacar di ruota.
Tuttavia la crono, come spesso capita, è stata un po’ la corsa della verità, e dell’unica verità possibile: cioè, come dice Totò al suo ultimo film, nei panni di Iago per “Che cosa sono le nuvole?” di Pasolini, la verità ciascuno la può sentire, concentrandosi, dentro di sé epperò – “sssh, la verità non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più”.
Chiudiamo questa parentesi di filosofia estetica tornando in cronaca: ai Campi Elisi finisce in volata di gruppo, e la vince Philipsen, l’anno scorso amareggiatissimo secondo. Happy ending, feel good story. Unico velocista a fare il bis in un Tour debolissimo quanto a velocisti, in un’epoca a propria volta scarsissima in quest’ambito (normale ricambio generazionale), il che ha reso gioco facile per un clamoroso Van Aert la maglia verde incassata con il record di punti di tutti i tempi (ma le scale cambiano). Bravi tutti così.
E allora, detto quel che andava detto, torniamo a rivedere questo Tour per quel che è stato, cioè uno spettacolo raro, una perla, un vertice per la corsa transalpina. Soprattutto un cambio di paradigma speriamo definitivo rispetto al modello ultradifensivo che aveva contraddistinto i Tour dell’era Sky, fin dall’imprinting dell’abominio 2012 in qualche modo imposto delle caratteristiche di Wiggins, ma poi anche con Froome tutto assoggettato alla logica del colpo da ko singolo o quasi, e poi corsa ammazzata in una processione pure lenta, con gli spettatori a propria volta stramazzati di noia. Poi dal 2016 compreso sparì pure il colpo da ko e rimase solo una noia infinita appena infranta dall’attacco (uno solo, pure quello, ma almeno da lontano) del buon Bernal. Pogacar aveva simbolicamente distrutto questo paradigma, che la Jumbo aveva ereditato assieme ad altre licenze di spendere e spandere, strappando a Roglic il Tour 2020.
Dal paradigma della difesa si passa a quello dello sperpero, dello strafare semmai, e non ce ne possiamo davvero lamentare. In questo Tour 2022 anche la difesa si identifica con una profusione magnifica di energie e risorse. Pogacar difende il titolo? Ma morde la strada viscida già nella prima crono, e poi fa il diavolo a quattro sul pavé, e poi litiga su ogni strappo e butta in volata ristretta fra i migliori ogni rampetta cittadina. Ha speso troppo? Probabile. Pensava a non finire a casa per covid a mani vuote? Possibile. Voleva far la voce grossa sentendosi minacciato seriamente? Ce n’è l’aria, basta ripensare alla Superplanche.
Fatto sta che quando la Jumbo imposta il proprio gioco di squadra alle pendici del Galibier, basato stavolta non sul chiudere la corsa e spremere per compressione gli avversari, bensì sull’aprire il gruppo come un melone e ribaltarsi come calzini per crivellare Pogacar in un fuoco incrociato, ecco, la difesa di Pogacar non può che essere ancora una volta in nome del dispendio, della generosità, del rilancio. Ancora una volta, critiche sapute a pioggia col senno di poi. “Ah, non avesse chiuso su Roglic”, “Ah, non avesse fatto lui il passo sul Galibier”. Ma la verità è che con la minaccia di un Van Aert super a far da appoggio davanti, Pogacar ha corso come doveva e poteva. Errori, se ce ne sono stati, sostanzialmente forzati. E comunque, che bel ciclismo. Che bel modo di usare la squadra, quello di usarla nell’unica chiave con cui davvero ci si mettesse in posizione di vantaggio assoluto verso la vittoria. Da scacchisti.
E di lì in poi un corridore unico come Pogacar costretto a inventare per risolvere un rompicapo irresolubile. E le invenzioni non sono mancate, da ogni distanza. Nel finale dell’Alpe o a Mende. Nel penultimo scollinamento cercando la sorpresa. Su tutta la penultima salita salendo Spandelles. Come detto, uno spettacolo. Anche i Tour più memorabili degli ultimi 25 anni contavano al più 2-3 tappe davvero spettacolari per l’alta classifica. Il Tour non è il Giro, altre sono le sue logiche. Qui il Granon è una tappa che resterà nella storia, e Hautacam è stata un capolavoro, ma per altri motivi anche la reazione d’orgoglio UAE in pieni Pirenei resta memorabile, così come la tappa del pavé con un Pogacar in totale padronanza, e poi le molte belle schermaglie sulla mezza montagna, troppo spesso un punto debole della gara transalpina, ma non quest’anno. Fra le vittorie di fuggitivi, incredibile quella di Pidcock con una delle discese da cineteca del ciclismo recente, e magica quella di Matthews contro Bettiol all’arma bianca. E molto altro.
Un Tour del tutti a tutta dando tutto sempre, il cui corridore simbolo è Wout Van Aert, l’uomo che probabilmente l’ha vinto per conto Jumbo deponendolo sulle spalle di chi poteva finalizzare in salita il duello con Pogacar.
Come nel caso di van der Poel al Giro resta un minuscolo tarlo: ma Pogacar davvero davvero davvero ha buttato dentro tutto “per vincere”? Il “salta lui o salto io” pantaniano? A volte il dubbio resta, anche se su Hautacam e Granon lo si è visto giungere davvero devastato, esaurito fino all’ultima goccia. Certamente abbiamo assistito a un duello favoloso, fra due individualità e caratteri, ma anche fra il concetto di fenomeno individuale e quello di monumentalità collettiva.
Come anticipato, sono pochi i Tour a cui possa paragonarsi l’attuale, diciamo dall’era Armstrong compresa in poi. Il 2009 e il 2011 vengono sicuramente in mente, entrambi con forti punti a favore, ma entrambi accomunati da una tensione per la generale cresciuta solo nell’ultima settimana. Per loro gioca la sensazione di un vero e proprio atto di forza animica da parte del vincitore finale, come individuo, per impadronirsi della corsa a fronte di circostanze complicatissime. Qui l’onere è stato assunto dal collettivo, fin dal giorno del pavé apparentemente disastroso per i Jumbo ma in realtà salvato per miracolo e ribaltato in punto di forza. Il 2015 è pienamente in gioco, col punto debole di essere stato gettato al vento dalla Movistar con un erroraccio, che magari per loro non è nemmeno tale, assolutamente non forzato e finanché gratuito. A suo favore c’è la percezione di un possibile ribaltamento concretizzatosi in un’inversione su strada dei rapporti di forza, cosa quest’anno molto meno trasparente. Simile al 2015 fu il 2003, anche se lì fu soprattutto la sorte a entrare in gioco, e un altro fattore extrasportivo come il fasullo fair play kamikaze di Luz Ardiden. Insomma, possiamo discernere un settennio Armstrong, decennio con certi suoi strascichi, entro il quale si diede solo un Tour memorabile, così come accaduto ora nel settennio Sky, i cui strascichi includono il 2020, ove pure si è data una sola occorrenza di alta competizione ciclistica in terra di Francia. Coviamo la speranza che questo 2022 faccia parte di un nuovo ciclo, in cui su tre anni torni a cascare magari una gara bellina, una mediocre, e una straordinaria, invece che dover attendere decennali congiunture astrali per far brillare lo sperpero e la generosità di contro al potere sparagnino di chi gestisce un’esclusiva.
Gabriele Bugada

I corridori della Jumbo-Visma in parata per festeggiare la fine del Tour e la vittoria di Vingegaard (Getty Images)