DELIRIO WOUTACAM: VINGEGAARD, VISMA, VINCIAMO. TUTTO.
Giochiamo di sigle, WVA è l’MVP di questo Tour de France. Nel tappone pirenaico, Pogacar ci prova a fondo, ma Van Aert lo stacca in salita e lancia Vingegaard. Tappa in cascina, e – salvo incidenti – maglia verde matematica per Wout, gialla e a pois per Vingegaard. Saluti e baci!
Jumbo-Visma, l’alveare meccanico. Gialloneri a orologeria in una tappa degna di un film di Christopher Nolan per il thrilling ma soprattutto per gli incastri temporali. Il ciclismo è spesso così: sullo stesso spazio lineare si sparpagliano ciclisti le cui linee narrative divergono e poi convergono in accordo alle diverse velocità relative, con tutta una combinatoria di incroci o rovesciamenti. Insomma, per capirci, si va dal banale “due tappe in una” in cui il gruppo si divide in una corposa fuga, che si giocherà la tappa, mentre poco più tardi sullo stesso traguardo si possono dar battaglia i migliori della classifica generale (che arrivano “dopo” ma di solito sono e restano “davanti” in classifica); fino a ogni sorta di complicata strategia per cui un corridore va in avanscoperta magari a raccogliere punti su un traguardo volante, o perfino per aiutare un altro compagno pure lui in fuga; poi rallenta e viene raggiunto dai migliori, e quindi dà il suo contributo accelerando di nuovo; e magari di seguito si stacca, ma per riportare infine con un’ultima trenata un altro capitano attardato verso il gruppo principale.
Ecco, i Jumbo-Visma nella tappa odierna sono andati ancora più in là, forse piccati dall’impennata di orgoglio con cui ieri McNulty aveva fatto piazza pulita del gruppo quasi da solo per il proprio capitano Pogacar. Niente scherzi, si devono essere detti nel bus della squadra. Oggi lo spazio e il tempo li pieghiamo ai nostri comodi, punto e a capo. E il punto, nonché il capo, o se vogliamo l’X-man (CX-man in questo caso) con il superpotere di schiacciare la serpeggiante strada pirenaica come una lattina di Coca Cola testé scolata, traforandola quindi a piacimento, risponde ovviamente al nome di Wout Van Aert. Troppo. Oltre.
Ma prima di parlare di Van Aert, prendiamo l’esempio di Benoot. Entra nel fugone che si forma solo in salita, sull’Aubisque, dopo una sterile ma sofferta ora e passa di lotta all’arma bianca sul filo dei 50 km/h in cui la fuga non riusciva a venire alla luce. Lavora per supportare la fuga e lanciare Van Aert in testa alla corsa, poi cede sul penultimo GPM. Quando da dietro su impulso di Pogacar il gruppo dei migliori lo passa, non si perde d’animo. Si ritrova con Kuss, pure lui staccato da Pogacar sulla penultima ascesa e lo riporta sotto nel corso della discesa e avvicinamento al finale di Hautacam. Dopodiché tira per i primi due km dell’Hautacam stesso, prima di cedere quest’onere a Kuss, da lui appunto riportato dentro. Ascensori spaziotemporali.
Wout Van Aert ci regala invece una quasi perfetta struttura ad anello, altro modulo caro a Nolan. L’istantanea del km zero con la bandiera del via appena calata lo vede già tre metri avanti a tutto il resto. In fuga dal primo secondo, senza voltarsi. Poi, come detto, la fuga non va fino all’Aubisque, ma Wout ci sarà. C’è sempre.
Nella fuga finisce quasi un quarto del gruppo, perché tutti cercano il varco cronologico in cui infilarsi per strappare se non la vittoria di tappa, almeno una giocata d’anticipo con cui scalare qualche posto in classifica generale, oppure, come Geschke, quella decina di punticini con cui confermare la maglia a pois (per la cronaca, il barbuto tedesco finisce in lacrime perché vincendo la tappa e il corrispondente arrivo in salita Hors Categorie, Vingegaard gli sfila in extremis la maglia per una manciata di punti). Segnaliamo Ciccone che ben supportato dalla sua Trek con Mollema prova a portarsi via lui la classifica di miglior scalatore, missione ben cominciata sull’Aubisque, poi spazzata via dalla montante marea Pogacar e Jumbo sui due restanti GPM. Merita una nota di merito anche Meintjes, che si muove un po’ più tardi, sospeso fra gruppo e fuga, e a lungo lì oscilla, particella quantica di natura ignota che confonde spettatori e regia non appena l’entità “gruppo dei migliori” e quella “fuga” collassano, si intersecano, si rifrangano. Tenendo duro getta le basi per un potenziale quinto posto finale (a un certo punto lo si vede solo soletto sul penultimo colle, che regge la ruota per qualche centinaio di metri dei due scatenatissimi Pogacar e Vingegaard). E indichiamo anche Pinot, Dani Martínez e Lutsenko in quanto si rivelano i più coriacei di tutti da un lato nel tenere le ruote, in fuga, di un bombastico Van Aert, e poi, nel caso di Lutsenko, per aggrapparsi a un piazzamento di tappa che si traduce in top-10 finale, puro oro per un’Astana disperatamente bisognosa di punti UCI.
Curioso il nastro temporale di un Vlasov, che non va in fuga, anzi si stacca presto dal gruppo dei migliori, ma poi anche aiutato dai suoi gregari insegue e insegue e insegue, risale il fiume del tempo controcorrente scavalcando così gli altri residui di fuga, o di gruppo principale, che il vento cosmico generato dai fenomeni là davanti spazza verso l’indietro. Pure lui, come e più di Mentjes, fiuta una potenziale classifica in top-5 dopo la crono. Anche Gaudu si stacca prestino dai migliori, molto prima di un Thomas per dire, ancora una volta l’ultimo a cedere; ma poi, in questo spaziotempo che si apre e chiude a fisarmonica riprende l’inglese, lo stacca, ne viene di nuovo staccato, e alla fine i due convergono a meno di 5 secondi di distanza. Thomas che, diciamolo a suo onore, è l’unico essere umano a sopravanzare con un allungo il cursore temporale in accelerazione irrefrenabile rappresentato dal duo dei migliori, Pogacar e Vingegaard. Durerà poco, il ghiribizzo di una particella instabile.
Eppure questa infinità di storie, vicende, sottotrame, si comprime e condensa quasi in un nulla quando Pogacar innesca sull’inedito colle di Spandelles il suo ultimo tentativo di invertire il destino e il distacco in classifica generale. Accelerazione del team, e poi, via, velocità smodata, attacchi, e scatti, e attacchi. Non regge nessuno tranne l’ombra gialla del leader, Vingegaard, ormai seconda pelle dello sloveno. Spettacolo puro. Forse qualcuno rimpiangerà in Pogacar il non aver fatto ricorso al pantaniano “o salta lui o salto io”. Pogacar spara forte, poi quando l’altro risponde allunga un po’, ma senza mantenere il gas indefinitamente aperto (l’aveva fatto un po’ di più, e pagandolo appunto carissimo, in quel del Galibier, quando in giallo c’era lui). Di questi tempi il gas indefinitamente aperto è proprio meglio non lasciarlo, c’è aria di penuria, e così anche al Tour, in realtà. La vittoria di ieri di Pogacar di fatto era in realtà una resa a metà. Ricordiamo però anche che l’esplosività è dove Pogacar si è visto comunque superiore a Vingegaard, dunque forse non è così assurdo provare a porre la sfida su quel terreno, piuttosto che non su un ritmo infernale che si vorrebbe infinito ma che una fine deve averla per forza, prima o poi.
La sfida resta appassionante, con i tipici riavvicinamenti da dietro quando il duello diventa di nervi. E, a proposito di nervi, una volta scollinato Spandelles la discesa ghiaiosa li mette a dura prova. Pogacar forza, Vingegaard quasi va per terra ma si salva con un equilibrismo a gamba tesa, e poi per terra Pogacar ci finisce lui, fra l’altro dopo un salvataggio a propria volta acrobatico, cui segue però un incoccio della ruota col limite fra asfalto e fuoristrada. Coscia sbucciata, mani spellate, ma in un secondo lo sloveno è di nuovo in sella. Davanti, Vingegaard lo attende apertamente. E Pogacar gli offre una bella stretta di mano con cui si salda la tregua in quanto resta di intermezzo prima dell’ultima leggendaria salita ad Hautacam, che Nibali ha lasciato negli occhi degli italiani e il danese Riis in quelli di tutto il mondo.
Tutto pare rientrare nella normalità, l’universo si riordina con il rientro da dietro di vari atleti in attesa della prossima accelerazione. Vingegaard schiera i suoi Jumbo-Visma di nuovo presenti: come spiegato sopra, ecco Benoot, e poi ecco Kuss. Scrematura, carneficina, sono di nuovo i magnifici due col gregario a tirarli. Ma ecco il fattore X a piombare nella “normalità” come un meteorite e a sconvolgerla alla radice. Lì davanti si intravvede… Wout Van Aert. Sì, il mostro belga aveva schiodato di ruota tutti gli avversari e compagni di fuga, per quanto scalatori di prima fila, addio Pinot, addio Dani Martínez, ed era ancora in testa da solo. I migliori ora lo riprendono.
Siamo alla chisura della struttura ad anello. Ouroboros, la testa del serpente morde la cola. Kuss profonde un ultimo estremo sforzo per riprendere Wout e, mentre tutti immaginano che il fuggitivo venga superato e lasciato indietro come ogni suo predecessore, accade invece l’impensabile: Kuss esausto fa cenno a Van Aert di mettersi a tirare, ed è lo statunitense a cedere.
Wout Van Aert, la maglia verde, lo sprinter, l’uomo da pavé, dopo quattro ore in fuga e quasi quattromila metri di dislivello, prende il comando davanti agli unici superstiti, Pogacar e Vingegaard. Maglia verde, maglia gialla, maglia bianca. In fila. Poi il vuoto.
E Van Aert accelera, e accelera. E scatta. E stacca. Stacca Pogacar.
Se ne vanno i due Jumbo, il meccanismo perfetto si chiude secco. Ci mancherebbe solo che facciano assieme gli ultimi 4 km e che il danese omaggi con la tappa il belga (che così avrebbe preso lui la maglia a pois!), ma non esageriamo. Lo sforzo ha fatto scoppiare Wout, mentre dietro Pogacar non è scoppiato del tutto come invece sul Granon, e va dunque ancora eliminato, certo senza più il fastidio di doverlo levare di ruota, che spesso è il difficile. Vingegaard si regala allora, e ci regala, i 4 km finali di Hautacam più veloci di tutti i tempi, più veloci anche di quelli del compatriota Riis (ma fin a quel punto si era andati un paio di minutini più lenti che Riis…). La freschezza, gli sforzi risparmiati, si traducono in un finale folgorante, mentre Pogacar transita semplicemente la propria consapevolezza di essere stato battuto, e supera Van Aert senza degnarlo di chissà che sguardi (tutta amicizia invece con Vingegaard, in cima). Vingegaard è primo, vittoria di tappa in giallo per le foto, bacetto romantico di celebrazione, maglia a pois, e Tour in cascina salvo sciagure. Pogacar è secondo, incassa un minutino, con ieri tre tappe in saccoccia, miglior giovane comunque (il secondo è il fenomeno Pidcock a 50 minuti, il terzo è il fenomeno McNulty a un’ora e venti). Van Aert è terzo a un altro minutino, dopo una giornata campale come poche se ne sono viste. E a un ulteriore minuto arriva il quarto di oggi e terzo a Parigi, Geraint Thomas – distacco nella generale, sulla decina di minuti per lui e altri tre, poi si parla di 15-20’. Con venti minuti di distacco sei in top-10, con tre quarti d’ora in top-15, il ventesimo è più di un’ora dietro. In questo Tour, decisamente, la misura intuitiva del tempo umano è travolta da quella di alcuni fenomeni stellari.
Gabriele Bugada

Vingegaard spiana la salita di Hautacam (Getty Images)