VINGEGAARD THE KINGSLAYER: POGI DOMINA UNA LOTTA EPICA, POI CROLLA
Granon 2022, una tappa per la Storia. Il sogno di ogni spettatore, botte da orbi su salite da leggenda come Telegraphe e Galibier, già dal terz’ultimo Gpm, a decine di km dal traguardo. I migliori faccia a faccia, ma anche tattiche a iosa. L’eroe solitario accerchiato, e la caduta dell’invulnerabile.
Il ciclismo è uno sport violento. A qualcuno fa brutto, coi tempi che corrono, lèggere metafore belliche (quelle metafore che si sono sempre impiegate quando erano in corso – sostanzialmente tutto il tempo – guerre magari meno mediatiche e meno mediate). Ma i corridori arrivando uno a uno disfatti in cima ai 2.400 metri di altitudine del Granon sembrano reduci che sfilano spersi dopo la battaglia, anche quelli che pur non avendo vinto escono vincitori dalla giornata, come Bardet, che lascia cadere la bici su un prato stempiato e si accascia, resta seduto a terra a fissare il vuoto degli abissi alpini. Sono reduci da uno scontro titanico se mai ve ne furono, Iliade e film giapponese. Pogacar contro il mondo, Pogacar assalito da tutti i lati dallo sciame giallonero al gran completo, Pogacar in controllo che piroetta da uno scatto al successivo, Pogacar che mette tutti fuori gioco, Pogacar che sfodera un ghigno di simpatia alla vigilia del Granon, Pogacar che ritrova un Majka sbucato di tra i caduti a rimettere in fila il gruppo, a liquidare tutti i Jumbo-Visma, a lasciare il campo sgombro se non di fantasmi del passato, razziatori e bucanieri. E proprio quando mancano quindici minuti di strada da triturare, Vingegaard scocca se stesso come un dardo e Pogacar crolla, diventa petreo in volto e nei pedali, e sembra scivolare all’indietro sul nastro di asfalto invece che avanzare. Sprofonda di tre minuti in nemmeno cinque chilometri. Il Tour è finito, comincia il Tour.
Della fuga che parte dopo quell’oretta filante a 50 km/h di media che ben conosciamo dai tempi del Giro, segnaliamo giusto alcuni pochi nomi. Barguil, perché dalla testa della fuga si involerà solo a 50 km dalla fine, in pieno Galibier, in una sua storia parallela, aliena agli uragani alle sue spalle – sempre solo, sempre in testa – fino a che a una manciata di km dalla meta, già ritorto dai crampi, la tormenta agonistica, i fulmini sprigionati dallo scontro fra Vingegaard e Pogacar, lo investono e travolgono. Geschke perché fa il suo supportato da Izagirre per tenere la maglia a pois ancora un altro giorno. Van der Poel perché fa coppia con Van Aert dal km zero in un attacco che promette un buon giorno – per i corvi – fin dal primo raggio di sole del mattino (diciamo così anche se è quasi mezzogiorno!). E Mathieu finirà metaforicamente – metaforicamente! – in pasto ai corvi, arenato fra i ghiaioni del Galibier. Ritirato, finisce qui il suo Tour. Van Aert perché unitosi presto a Laporte inaugura una giornata in cui i Jumbo scatenano l’inferno. Non è bello per nessuno avere Van Aert davanti a “far da ponte”, però Van Aert oggi non “farà da ponte”, farà da elicottero, da cavalcata delle Valchirie vivente, correndo avanti e indietro per il percorso a proprio piacimento. Pare una di quelle sgambate fra amici a cui si aggrega qualcuno molto più in forma degli altri, che a proprio piacimento come fosse una motocronaca raggiunge i primi, poi torna a incoraggiare gli staccati, si riporta sui primi, tira sempre in piano… Ecco oggi Wout è uguale uguale. Una superiorità quasi insultante per il resto del gruppo, visto che “ehi ragazzi, qui siamo tutti professionisti!”. E poi condisce il tutto regalando la maglia verde a un fan che gli presta una pompa a bordo strada. Versione divinità omerica, solca il campo di battaglia rovesciandone le sorti, ma non si nega al cameratismo o all’avventura coi comuni mortali.
I primi boati si odono sul Telegraphe, “Benoot Benoooot” rumoreggiano le valli, sono le cannonate che provano a lanciare prima Roglic poi Vingegaard, con Pogacar incastrato nella doppia marcatura. Sono salve di avvertimento, perché i primi colpi secchi partono proprio nello spazio interstiziale, né salita né discesa, quasi boscaglia o palude metaforica, fra Telegraphe e Galibier. Roglic stavolta va via secchissimo e in niente parliamo di soli cinque atleti in testa: tre sono Jumbo, i due capitani con Laporte testa di ponte attivata con tempismo perfetto; poi c’è Geraint Thomas a far onore al proprio dorato passato di “inseguitore”; e poi, per forza, c’è Pogacar. Enric Mas ci aveva anche provato, ma la sparata lo fa scoppiare a livelli tali che passerà il resto della tappa in affanno ad inseguire (per la cronaca, arriva al traguardo con otto minuti di distacco, e ciò nonostante è in top ten della generale, giusto per capire il livello di devastazione a tappeto).
Roglic e Vingegaard mettono letteralmente in mezzo Pogacar e iniziano a martellarlo ai fianchi, o meglio, ai fianchi, in faccia, alle tempie, uno scatto, due, tre, sempre con veemenza, tant’è che il gruppo già disgregato nemmeno si avvicina. E Pogacar c’è sempre, come uno spadaccino che salta sui bambù, chiude di qua, schiva di là, controlla la gragnuola di colpi, a tratti ribatte, e quando ribatte si fa subito il vuoto, solo lui e Vingegaard sospesi sul filo di asfalto bollente anche in quota, quasi 30 gradi, sotto il sole senz’ombra e senza ossigeno di chi sale verso i duemila e ben oltre. Ci sono momenti di respiro, a tratti, come quando un eroico Marc Soler gregario d’eccezione di Pogacar riesce miracolosamente a rientrare, nonostante i Jumbo facciano del tutto per renderglielo impossibile. E quando Soler rientra, si fa ordine, si scandisce un passo, si tirano le fila, c’è chi da dietro rientra (piccoli piccoli come figurine di un plastico i trenini Movistar per Mas e FDJ per Gaudu che cercano di ridurre i danni). Fra gli altri il più in palla sembra Quintana, ma poi s’incaglia, per riprendersi poi in altura; e anche Bardet se la cava niente male. Si avvicinano gli inglesini Yates e Pidcock a consolidare la presenza INEOS, accorrono altri gregari Jumbo come Krujiswjik e Kuss a rinfocolare il senso di assedio, c’è pure un sorprendente Lutsenko… Ma non c’è niente da fare, il leit motiv è sempre lo scontro all’arma bianca fra Pogacar e i Jumbo. A 7 km dallo scollinamento torna a martellare Roglic, e poi Vingegaard, e poi Roglic al quinto scatto solo sul Galibier, quinto e ultimo perché poi Pogacar si scoccia, apre gas, e scrolla dal gruppetto ormai minimale il suo connazionale. Passano i km, e appena Pogacar fa un po’ di ritmo restano solo in due, lui e Vingegaard. Ma Vingegaard ha fatto la metà degli scatti, i suoi sono stati ben spartiti con Roglic (anche se bisogna pur sempre rientrare, ma per terzo, e sulla ruota altrui) – e non ha certo speso energie facendo il ritmo in testa solo. Pogacar però non demorde né si lascia intimorire. Controlla la situazione. Quando arriva in cima al Galibier, il resto del mondo è sottomesso. Si può lasciarli rientrare. Gran traffico di gregari nella lunga discesa e nei falsipiani, rientri, Van Aert che come detto aspetta che ti aspetta per andare a ripescare… Roglic!… e riportarlo sotto. Attenzione tuttavia a questa fase: in tanti mangiano e bevono, hanno supporto o sono tranquilli – Pogacar non ha supporto, e anzi è sottoposto a continue piccole punzecchiature, un buco di qua, un allunghino di là, in modo da mantenerlo sotto pressione. Oltre all’enorme fatica accumulata prima, qui scatta probabilmente un deficit di rifornimento. La catena delle vettovaglie che decide dove finisca l’infinita cavalcata di Alessandro Magno.
In una ventina di atleti scarsa si arriva ai piedi del Granon, colosso di 11 km tutti al 9-10%, per oltre un terzo over quota 2.000. Il Tour lo scalo una sola volta, nel 1986, e marcò il tramonto di Hinault, in crisi e a tre minuti dal compagno Lemond.
Prima mossa, va subito solo Quintana, alza il ritmo e poco a poco dilata il margine. Dieci km in solitaria, lo riprenderà e passerà il solo Vingegaard. Da bravo sciamano levita sul percorso come un ghost di Strava o come un fantasma di altri tempi fra i fenomeni del presente. Gran momento televisivo per l’Arkea con Barguil per qualche km in testa alla gara e Quintana un minuto davanti al gruppo dei migliori.
Dietro fra i revenant c’è Majka. Adesso scoppia, pensano tutti, il gruppetto poi è infarcito di gregari Jumbo. E invece Majka impone la sua marcia marziale, senza sussulti, senza sparate, e piano piano piano dall’albero cascano come frutti maturi quasi tutti i rivali, e in particolare tutti i Jumbo. Siamo giunti alla polarità opposta della storia. Pogacar in controllo con il luogotenente più fidato a mantener pulita la piazza, Vingegaard isolato. Disfatta Jumbo. Sparata ogni munizione disponibile, ma il supereroe le ha evitate tutte quante. E ora è lui in posizione di tiro.
La svolta, come sempre quasi impercettibile, quasi casuale, è un allungo di Bardet. Majka cede, e Pogacar non insegue. Ma Bardet in classifica è più vicino di Quintana, e la mossa è già a distanza ragionevole dalla fine 4-5 km, non i 10 dello scriteriato e serioso colombiano. Perché Pogacar non reagisce? È un istante, la polvere si accende, e Vingegaard scatta come un lampo, si scatena, prende il largo, vola via. Il suo passo è sconvolgente, un wattaggio mai visto a queste quote in cui l’ossigeno scarseggia e dunque pone un limite anche ai motori più potenti. Però oltre al numero di Vingegaard c’è la crisi nera di Pogacar. Piantato secco. Uno a uno, poco a poco, gli si affiancano e lo sorpassano quasi in processione pressoché tutti i rivali per una potenziale classifica generale finale. Bardet e Quintana sono già davanti, e dunque ecco Thomas, e poi Gaudu ricomparso da chissà dove, e Adam Yates che pure vagava fra gli zombie del Galibier, poco dietro arriva Lutsenko, più attardati Vlasov e Mas inframmezzati ai fuggitivi della prima ora. Pidcock invece arriva a 10 minuti, Roglic a 11… uno al km sul tremendo Granon. Salendo a 14 km/h di media dove Vingegaard sfiorava e sforava i 20.
Vingegaard ora è in giallo, con un paio di minuti (o tre) su Bardet, Pogacar, Thomas, Quintana, Yates, Gaudu. I magnifici sette, con Pogacar precipitato fra i comuni mortali. Il resto del mondo è minuti dietro. Che cos’è capitato all’invulnerabile sloveno? Covid? Crisi di fame? Eccesso di scatti? Chissà se mai lo scopriremo. Intanto domani si torna a scalare il Galibier, poi la Croix de Fer e gran finale l’Alpe d’Huez. Domani. L’Alpe d’Huez!
Gabriele Bugada

Vingegaard all'attacco sulle dure rampe del Col du Granon (Getty Images)