PAMBIANCO, RICORDO DI UN “GARIBALDINO”
luglio 11, 2022
Categoria: Approfondimenti
È scomparso negli scorsi giorni all’età di 86 anni Arnaldo Pambianco, il corridore che vinse il Giro d’Italia del 1961 e che era soprannominato il “garibaldino” per il suo modo di correre e “Gabanein” dai suoi corregionali. Lo ricordiamo con il racconto di Mario Silvano
“Generoso!” Così ha definito Pambianco il mio amico Michele Dancelli, al quale ho chiesto che tipo di corridore fosse stato il campione romagnolo recentemente scomparso.
E che avesse questa caratteristica gli sportivi italiani se ne erano accorti ben prima del suo clamoroso successo al Giro del 1961.
Perché nel 1957, al campionato mondiale dei dilettanti, il ventunenne Arnaldo Pambianco diede prova di coraggio e di generosità, lanciandosi in un tentativo solitario verso il successo iridato, che si infranse a ottocento metri dal traguardo quando venne raggiunto dal belga Proost, che lo superò in volata. Un secondo posto amaro, invelenito dalla polemiche nell’ambiente azzurro, che non risparmiarono chi, tra i compagni di squadra, non lo avrebbe adeguatamente protetto. Quell’argento si aggiungeva non solo al titolo nazionale dei puri, conseguito lo stesso anno, ma anche al quinto posto ottenuto l’anno precedente alle Olimpiadi di Melbourne, dove il successo arrise al suo conterraneo Ercole Baldini.
Insieme a lui sarebbe passato professionista nelle fila della Legnano, ma nei primi due anni dovette accontentarsi di compiti di gregariato, che sembravano cozzare con i brillanti trascorsi da dilettante.
Al Mondiale di Reims, nel 1958, Pambianco c’era e quando Baldini andò in fuga fu sul punto di andarlo a riprendere, ma Coppi lo stoppò: “Lascialo andare”, gli disse. E Fausto aveva visto giusto, quel giorno.
Poi, nel 1960, dopo il secondo posto al Giro della Sardegna ottiene la prima vittoria da professionista: alla Milano-Torino giunge in solitudine nel motovelodromo, dopo essere scattato sulla salita che conduce all’Eremo. E il suo primo gesto dopo la vittoria è dettato anch’esso dalla generosità: depone il mazzo dei fiori del vincitore ai piedi della stele che ricorda Serse Coppi, tragicamente scomparso dopo la caduta alla Milano Torino del 1951.
Al Giro di quell’anno è un esempio di regolarità: in otto tappe si piazza nei primi dieci e nello storico tappone del Gavia è quarto. Conclude la corsa rosa al settimo posto e la brillante prestazione lo porta dritto in Francia, ad affiancare Gastone Nencini.
In quel Tour il generoso contributo di Pambianco per la vittoria di finale del campione toscano è determinante. Il giorno del trionfo azzurro a Briançon (primo Battistini, secondo Massignan) è accanto a Nencini e arriva insieme a lui sul traguardo. Addirittura potrebbe impreziosire la sua partecipazione alla Grande Boucle con una vittoria di tappa, ma a Luchon deve accontentarsi della piazza d’onore alle spalle dell’elvetico Gimmi.
Il settimo posto finale nella generale (terzo degli italiani, dopo il primoposto di Nencini e il secondo di Battistini) è un ulteriore conferma delle indubbie qualità del romagnolo.
Ma è l’anno successivo che Pambianco (il quale ha cambiato squadra, passando alla Fides con i gradi di capitano) compie il suo capolavoro, l’impresa che lo renderà indimenticabile.
E’ il Giro del 1961, la corsa a tappe dedicata al centenario dell’Unità d’Italia. Torriani pare essersi ispirato in buona parte alla memorialistica risorgimentale di Abba (Da Quarto al Volturno) quando ha disegnato il tracciato. Da Torino a Milano, passando per Quarto, Marsala, Teano, Castelfidardo, Trieste ,Vittorio Veneto e Trento: un evento sportivo il cui significato travalica il dato meramente agonistico per trasformarsi in una celebrazione dei luoghi del Risorgimento e dell’italianità.
Assente Nencini, non sembra che i nostri portacolori possano competere con Anquetil e Gaul, accreditati dei favori del pronostico.
Qualcuno, alla vigilia, accenna a Pambianco tra i possibili aspiranti alla vittoria finale, pur non nascondendo i limiti dell’atleta di Bertinoro il quale, invece, affronta la sfida con uno spirito “garibaldino”. Dopo una settimana di gara è quarto in classifica con soli 44 secondi di distacco dalla maglia rosa, l’iberico Suarez, mentre Anquetil ha quasi due minuti di ritardo.
Nella tappa da Cosenza a Taranto Pambianco è vittima di una grave caduta. Riesce a concludere la frazione, sospinto dai suoi compagni di squadra (“Qui non si ritira nessuno”, gli dicono) ma i sogni di gloria sembrano definitivamente tramontati. Il giorno successivo c’è la tappa cronometro e, miracolosamente, riesce a limitare i danni, pur accusando un ritardo di oltre quattro minuti dal transalpino. Risalendo la penisola, tuttavia, giorno dopo giorno guadagna terreno e dopo la tappa di Castelfidardo si ritrova al terzo posto, con un distacco di un minuto e 18 secondi dal campione d’oltralpe (ne aveva più di sette dopo la crono di Bari!).
Ma è nella tappa da Ancona a Firenze che Pambianco termina la sua rincorsa alla vetta della classifica. Sul passo del Muraglione si lancia in fuga con altri ardimentosi accorgendosi che Anquetil non è in giornata di grazia (il francese avrebbe addentato un panino insieme alla carta che lo avvolgeva, stagnola o oleata che fosse a seconda delle versioni). Settimo al traguardo, conquista la maglia rosa con un vantaggio di ventiquattro secondi sul francese, che diventano quarantaquattro dopo l’arrivo di Trieste.
L’Italia sportiva e non si appassiona all’impresa del romagnolo, a cui resta un ultimo ostacolo da superare, il temibile tappone dolomitico che, seppur modificato (il tracciato originario prevedeva il Gavia, oltre allo Stelvio da Bormio e l’arrivo in quota al Passo Resia), resta una prova ardua.
In quei giorni di inizio Giugno solo un altro evento ruba spazio al Giro: alla Corte d’Assise di Roma si celebrano le ultime udienze del famoso processo Fenaroli e gli italiani si dividonoin colpevolisti e innocentisti, in attesa del verdetto.
Pambianco, invece, rappresenta un momento di ritrovata unità e, sullo Stelvio, tutti vorrebbero essere lassù a sostenerlo. E l’impresa riesce: Gaul si aggiudica la frazione, ma il romagnolo a Bormio chiude al secondo posto, distanziando ulteriormente Anquetil. Il Giro è suo e la notizia oscura quella della sentenza di condanna emessa nel caso Fenaroli.
Finisce in un trionfo, per nulla annunciato, al Vigorelli (con l’attrice Joan Crawford a consegnargli il mazzo di fiori) e sarà il punto più alto (e irripetibile) della sua carriera.
Non ha vinto alcuna tappa, ma la lacuna verrà colmata due anni dopo con il successo al Nevegal.
Nel frattempo ci sarà spazio per un quinto posto ai Mondiali di Salò e per la vittoria finale al Giro di Sardegna. Passato nel 1963 alla Salvarani, Pambianco coglierà un prestigioso successo alla Freccia del Brabante prima di dedicarsi, negli ultimi due anni di carriera, a scortare con la consueta generosità Adorni e Gimondi nei loro successi al Giro e al Tour.
Una bella storia, quella di Arnaldo, che da ragazzo faceva il garzone di macelleria e indossava una giacchetta corta e striminzita (da qui il soprannome “Gabanein”).
Bella e romantica come la sua storia d’amore con Fabiola, la donna che avrebbe sposato dopo la vittoria al Giro e che sarebbe stata la compagna di tutta una vita.
E che fosse un atleta generoso lo aveva capito anche Coppi, il quale una volta gli consigliò di imparare ad amministrarsi, a non sprecare inutilmente energie. Il romagnolo fece tesoro dei preziosi suggerimenti del Campionissimo proprio in quel Giro del 1961, vinto – come ebbe a ricordare – grazie alla forza di volontà, alla resistenza alle avversità e a cinque minuti di fortuna. E chissà come sarebbe stato contento Fausto…..
Vera e propria icona del ciclismo di quegli anni Pambianco ha goduto dell’apprezzamento di colleghi e appassionati e non è mai stato dimenticato: il “garibaldino d’Italia” ha saputo conquistarsi, con pieno merito, un posto nella storia del ciclismo.
Mario Silvano

Arnaldo Pambianco in maglia rosa al Giro del 1961