NOIA E ARENA, MA BRAVO SOBRERO. E BRAVI I BORA IN UN GIRO DOWN UNDER
Cronometro passerella in quel di Verona, luogo di aspettative disattese se mai ve ne furono nel ciclismo, con quei Mondiali sempre sulla carta durissimi e poi inevitabilmente preda dell’inerzia e del fulmineo Freire. Oggi vince Sobrero. Fine.
Che bello l’arrivo nell’Arena, sempre spettacolare ed emozionante; ma, come in una riproduzione in scala del resto del Giro, una volta ripresici dalla sindrome di Stendhal prodottaci dai panorami scenografici entro cui scorre la gara, vale giusto la pena di applaudire il vincitore di tappa, brillante in mezzo al nulla e alla noia di una corsa ingessata.
La cronaca si riduce dunque all’entusiasmo per Matteo Sobrero, che, coerentemente con i suoi 25 anni, rende sempre più corposa la propria graduale crescita tecnica come cronoman versatile dal potenziale aperto, dando lustro alla maglia di campione italiano, e così confermando en passant l’ottimo lavoro condotto per la crescita della disciplina sul medio-lungo periodo in Italia, grazie ad alcune menti illuminate più che alla Federazione, dopo epoche assai fosche. Matteo ha dato fiducia al traballante progetto Bike Exchange e il team ha dato fiducia a lui: il risultato, una ciliegina finale di ulteriore consolazione dopo le glorie e disgrazie di Simon Yates. Addio alla generale, ma tre tappe vinte sono un bottino niente male anche in termini di quei punticini UCI che per gli australiani quest’anno valgono oro nella lotta per non essere espulsi dal World Tour.
Ecco, va detto che dietro a Sobrero proprio non succede quasi nulla, l’unico uomo a subire meno di 2” al km (!) da Sobrero è il giovinetto formidabile Arensman (che ne becca comunque quasi uno e mezzo…), promettente spilungone tuttofare già probabilmente razziato da Ineos. Per il resto arrivano alla rinfusa cacciatori di tappa più o meno orfani di forma o fortuna e gioie, come Mollema, Schmid e Cort, oppure il prezzemolino MDVP o il gioiellino britannico Tulett; magari l’uno o l’altro uomo di classifica ansioso di dimostrare qualcosa, categoria che include ovviamente Carapaz, più sorprendentemente Hindley (che comunque patisce 7 secondi dal colombiano, sottolineando l’eccezionalità della cesura di ieri), o il povero Hugh Carthy, vero Ecce Homo di questo Giro disperato per la sua EF, altro team in lotta per non retrocedere.
Ebbene sì, l’ennesima stramazzata del povero Hugh stavolta vale 40 punticini extra per la squadra, come aver fatto secondo in una tappa, e ben più di quanto non avessero apportato finora le sue disumane fatiche e il paio di quarti posti ricavatini. Nessuno avrà fatto caso al suo undicesimo posto odierno, e pochi avranno osservato che grazie ad esso Carthy scambia nono e decimo in generale, scavalcando così l’iconico Juanpe López, più che contento della sua maglia bianca dopo tanta rosa provvisoria; mentre a pochi sarà sfuggito il protagonismo in fuga dell’uomo EF. Ma così è se vi pare, o anche se non vi pare, questa dei punticini è una curiosità in più non necessariamente in accordo con la logica globale dello sport. Aggiunge pepe, senz’altro, e quanto ce n’è bisogno a questo Giro.
Tanto per dare un altro riferimento in merito al vuoto cosmico odierno, lo scambio di posizioni fra Hugh Carthy e Juanpe López, peraltro non proprio trascendentale (ribadiamolo: si invertono nono e decimo in CG…!), è l’unico, attenzione attenzione, “unico” mutamento in classifica generale verificatosi entro le prime 32 posizioni di classifica nella giornata odierna. Il resto permane immutato, nemmeno bastano le rispettive attitudini a spostare alcunché. E se sembra scontato, possiamo prendere a paragone un’altra pagina nera dei grandi giri degli ultimi anni, il Tour 2017, la cui altresì discutibile crono conclusiva, tanto bella quanto poco significativa, oltre a invertire nono e decimo come quella odierna permise in questo ventaglio di posizioni anche lo scambio fra secondo e terzo nonché quello fra 13º e 14º (per non dire di Landa a un secondo dal podio). Poca roba, invero, perché come premesso peschiamo nel torbido, ma oggi è valsa pure meno. Tanto per capirci, nella tutt’altro che stravolgente ma quantomeno dignitosa crono finale dello scorso Giro 2021 si vide entro lo stesso range di una trentina di atleti almeno la metà di essi cambiare il proprio posizionamento nella generale.
Chiusa la cronaca su questa tappa, emblematica come dicevamo del Giro in toto, tracciamo qualche bilancio. È triste a dirsi, ma probabilmente si è testé concluso il peggior Giro, in termini di spettacolo sportivo, da che siamo entrati nell’era dei vari Pro Tour, World Tour e compagnia. E ciò non si legga nei termini di una critica pregiudiziale al Giro del 2004 o a quello del 2003, bensì come un semplice riferimento per pesare parametri comuni, vale a dire senza entrare in un dibattito che diverrebbe annosissimo relativo alla qualità dei partecipanti, al sistema degli inviti e via dicendo. Si sarebbe potuto scrivere con egual arbitrio che l’edizione 2022 è il peggior Giro in 20 anni, richiamando il 2002 in nome di quella allora sfumata prima vittoria di un australiano, il giovane Cadel Evans in maglia Mapei; o il peggior Giro del millennio, maledicendo il 1999 e Madonna di Campiglio; oppure perfino il peggior Giro in un quarto di secolo, riscattando le imprese di Pantani in quel 1999 e prendendocela con le vittorie di Tonkov o Gotti su top-10 finali dalla qualità un po’ zoppicante (ma quell’Enrico Zaina 1996 è l’unico ciclista pro ad avere scalato in gara la Marmolada più velocemente che Jai Hindley in tutta la storia dello sport!). Comunque, ci siamo capiti, è il più brutto Giro in un lasso di tempo parecchio lungo.
Poi, sia chiaro, il Giro resta la corsa più bella del mondo nel Paese più duro del mondo, o qualcosa del genere, quindi un brutto Giro non è comunque uno spettacolo infame. C’è stata una bella tappa per la generale, una!, vale a dire Torino. A volte questo basta per fare un Tour de France (i transalpini sono capacissimi di produrne zero). C’è stato un attacco serio per la classifica, sul Fedaia. Uno!, e a meno di 3 km dalla linea del traguardo (sic), ma potevano non essercene proprio. Ci sono state tappe dove i primissimi non si sono scannati a sciabolate, ma una selezione atletica pesante s’è data da sé (e vorrei vedere con cinquemila metri di dislivello, per quanto mal disegnato), vedansi Blockhaus e Aprica. E delle belle lotte per la vittoria di giornata, come no. Un monumento a Mathieu van der Poel pagato da Vegni, per favore. Anche se perfino MDVP diventa gigione col passare del tempo e una volta saltato per il tappo di Prosecco l’altro fenomeno, Bini. Il monumento a De Gendt, invece, se l’è tirato su da solo in quel di Napoli. Ecco, a proposito di De Gendt, il 2012 è stato a lungo, e giustamente, il titolare della corona spinosa al “Giro più brutto che si ricordi”: perché quel Giro aveva avuto – al di là delle battaglie di giornata – “solo” l’epica giornata dello Stelvio a spiccare fra le schermaglie con poco costrutto per la generale. Quella sola tappa, però, basta a spostare poderosamente gli equilibri, unitamente all’attitudine aggressiva, anche se solo alla flamme rouge, del buon Purito, e di Hesjedal a Pampeago, naturalmente, pure lui con tempi record come quelli della Marmolada. Lotta fra Giri poveri, o poveri Giri, ma tant’è.
Un po’ come nel 2012 ciò che affossa del tutto il morale è una somma fra opportunità perse, nelle poche occasioni in cui il tracciato offriva guizzi d’ingegno, e assenza generalizzata di azioni da parte degli uomini di classifica. In generale, quel che si riassume in “fumarsi il Giro”.
Chiudiamo qui con due domande, tanto per rimuginare un po’ visto che non possiamo crogiolarci nel semplice ricordo dei momenti memorabili quest’anno alquanto latitanti. Il primo interrogativo concerne le squadre che hanno perso: erano in qualche modo conscie della propria inferiorità, sia in termini di team sia in termini di capitani, rispetto alla Bora? E se tale equilibrio o inferiorità si palesava soprattutto negli sforzi brevi e concentrati, perché non provare a mutare l’organizzazione del lavoro erogato, proponendo moduli differenti, ad esempio con intensità medio-alta su due Gpm invece che ridurre il tutto a un braccio di ferro di pura scalata negli impervi finali? Il Giro, va detto, aveva fra i suoi enormi limiti una chiara predisposizione a favore di questa seconda impostazione, divenuta rapidamente dominante. Epperò un poco di fantasia non guasta: e se l’azzardo a cui chiamava a gran voce la tappa di Potenza con la Montagna Grande di Viggiano – greggismo dei più nefasti mai visti, con la strada bloccata dai team con interessi al passeggio – poteva essere in effetti prematuro, un lusso per veri risk-takers (Astana 2015, Contador 2011, Nibali 2013), non ci sono più scuse di sorta per il modo in cui sono stati neutralizzati il Vetriolo o, autentico crimine sportivo, il Kolovrat. Perdoniamo solo la tappa valdostana perché mettere una tappa da forzature dopo Torino è un errore così grossolano del tracciatore che i team finiscono assolti. E allora bravi i Bora, perché alla fin della fiera non solo Hindley ha proposto l’unico serio attacco individuale (col supporto ben orchestrato di Kämna peraltro) fra uomini della generale, ma anche giacché l’unica volta che si è visto un team propositivo al 100%, puntando fiches pesanti, in un’azione aggressiva e concertata dal medio raggio, sono sempre stati loro, in quel di Torino. Niente di più e niente di meno, ma in uno scenario mediocre tanto basta. I Bahrain qualcosina hanno fatto, non si dica di no. Epperò senza quell’ingegno che era assolutamente indispensabile a colmare il divario fisico-tecnico inevitabilmente implicito in un Landa, figuriamoci!, quasi 33enne. Hanno tiricchiato tutti in buon ordine, ma senza rinunciare alle chance di tappa con gli uomini in avanscoperta; alzando un pochino il ritmo prima del duello finale, e tuttavia non parliamo certo di martellate feroci a scremare e infilare il gruppo. Senza con ciò disprezzare le occasionali prestazioni eroiche di un Poels o la giornata vincente di Buitrago. Ineos – che dire? – fra le proprie incarnazioni peggiori, in modalità difensiva: compatta e sciatta. Altro che il 2020, o la prima metà di 2021.
Ricordiamo fra l’altro che sono state “fumate” a ritmi letteralmente da amatori (pur di livello alto) salite come Crocedomini, Mortirolo, San Pellegrino…
Seconda domanda: Bora e Hindley, bene, bravi, bis. Le ragioni di chi si prende la ragione. Ma col senno di poi. In sé, come valutare la strategia post Torino? Ovviamente l’incognita chiave è il reale potenziale di Hindley, che non è detto fosse noto nemmeno al team o a lui stesso. Se però Hindley ne aveva un po’ di più di quanto visto sulla strada, mantenere le carte coperte può essere stata una furbata da pokeristi… o anche no. È vero che così segni il tuo gol vincente al 90esimo e nessuno ti può rimontare, niente imboscate o assalti disperati da fronteggiare. Tuttavia è pur vero che se la palla non entra, perdi tutto ma proprio tutto, o comunque finisci in un pasticcio non da poco. Le grandinate previste si materializzano, e Hindley reagisce così così. Una caduta che intacca la forma. Carapaz non abbocca e invece che crollare regge sui suoi ritmi visti in precedenza, perdendo magari una ventina di secondi scarsi (un Landa cotto e Hugh Carthy hanno incassato solo 49” d’altronde; e già è un miracolo, in meno di tre km…). Se Hindley davvero è entrato in forma via via e ne aveva tanto quanto vistosi in quel lampo finale, allora quest’attesa esasperata che tanto ha premiato avrebbe anche potuto tradursi in un errore madornale. Un’assunzione di rischi probabilmente eccessiva, oltreché – apparente paradosso! – un modo di correre sparagnino che ammazza lo spettacolo, ma questa è un’altra storia.
Se invece Hindley ha dato tutti gli altri giorni il massimo che aveva, o poco meno, c’è di che rimanere basiti dal salto prestazionale. Per poi tornare all’equilibrio nella crono, corsa, come detto, con l’aggressività di chi ancora volesse dimostrare qualcosa, non con estrema prudenza. Se è così che è andata, possiamo parlare di vincitore quasi aleatorio, pur nei parametri di un atleta che già ha ampiamente dimostrato (nel ridotto campione a disposizione) ottima crescita prestazionale attraverso le tre settimane – anche se gli scettici snobbano questo concetto – e focalizzazione in picchi di rendimento straordinari su occasioni mirate.
Concludiamo con il doveroso applauso a Nibali, ai piedi del podio, pur lontano dagli stambecchi. Giro meno adatto a lui per il suo addio non si poteva disegnare, con tutti quei muri finali a schiacciare la fantasia. Certamente una sua impresa, foss’anche fallita, foss’anche per la tappa, avrebbe strappato questo Giro al suo destino di capofila della colonna infame dei “Giri brutti”. Ma ciò non toglie nulla a lui, a cui nulla si può chiedere visto che una resa del genere nell’anno del ritiro è semplicemente brutale. E si noti che avrebbe comunque potuto correre pian piano a raccogliere fiori e applausi senza che ciò potesse essere in alcun modo criticabile. Porta all’Astana in dura crisi punti preziosissimi, pesantissimi: per averne una misura, il suo risultato al Giro da solo vale oltre il 50% di tutti i punti raccolti da tutto il resto del team fin da inizio stagione. E se Contador chiuse quinto la sua ultima Vuelta attaccando sui cavalcavia, Nibali chiude quarto il suo ultimo Giro confermando ciò che è sempre stato, un professionista eclatante, che va al sodo, e andando al sodo incide a fondo sulla realtà del ciclismo finanche nel suo ultimo anno di carriera. Nibali ama correre in bici, non sfugge a nessuno, ma al contempo Nibali oltre a trasmettere la sua passione per questo sport ci rammenta costantemente (col suo mero agire, per fortuna non con prediche) che il ciclismo non è un gioco, è roba seria. Una percezione profonda legata all’eterna precarietà che permea ogni aspetto di questo sport, al suo non essere mai abbastanza di massa, mai abbastanza dominante, mai abbastanza lussuoso, mai abbastanza straricco, mai abbastanza “a posto”, una percezione insomma che in qualche modo ci fornisce un importante controcanto per quando sentiamo, come a questo Giro, che “non ci hanno fatto divertire abbastanza”.
Gabriele Bugada

Jai Hindley accolto da trionfatore nell'Arena di Verona (foto Tim de Waele/Getty Images))