INEOS PADRONA, VEGNI PERDONA: ALLA FINE C’È UN PEZZO DI GIRO PER (QUASI) TUTTI
Un Giro godibile, quasi gaudente nonostante la tanta pioggia. In tanti se ne vanno contenti, spettatori compresi, anche se sotto le forbici di Vegni sfuma un po’ il senso di grandezza, fatte salve alcune tappe e i gesti o le gesta di protagonisti piccoli e grandi.
Il meglio del meglio di questo Giro? Il senso di “respect for pink” espresso da gesti semplici, intrisi di spontaneità o generosità da parte dei suoi protagonisti: il giovanissimo Attila Valter che dopo lo show di Bernal sullo sterrato di Campo Felice bacia la maglia rosa prima di abbandonarla. Primo ungherese in testa al Giro e un potenziale impressionante da far crescere, giusto un po’ mimetizzato da una classifica dei giovani nella quale i cinque che lo precedono hanno fatto pure top ten nella generale assoluta (peraltro vincendola, con lo stesso Bernal). E Bernal, naturalmente Bernal, che sciupa secondi sudati su e giù dal Giau per levarsi l’anonima giacca impermeabile – comunque sponsorizzata – e varcare il traguardo di Cortina illuminando di rosa un giorno grigissimo. Sicuro ed elegante come un funambulo consumato sul ciottolato viscido, mossa e sguardo da torero che “mata” definitivamente la concorrenza… almeno in apparenza. Di certo, con quel gesto, riscatta il Giro tutto nel giorno di una figuraccia epocale.
E, senz’altro, il peggio del Giro è stato il taglio di quel tappone, che quasi ha fatto del Giro una Vuelta qualunque. La tappa di maggior dislivello complessivo è rimasta infine a mezza via fra i quattro e i cinquemila metri accumulati, un dato che per il Giro rimanda a epoche di biechi campanilismi o sporadiche eccezioni, mentre ben si confà alle abitudini di tracciato “moderno” della corsa spagnola. Tutti hanno ammesso fin da subito che il tempo non esigeva sforbiciamenti in nome della sicurezza o della salute, tant’è che il pur garantista e assai adattabile protocollo UCI per le circostanze meteorologiche estreme risultava inapplicabile. Parimenti, è stato subito chiaro che non v’era alcuna richiesta concertata e formale da parte dei corridori né delle squadre. Si sono sprecati, in questo senso, i comunicati contraddittori. Ben venga il sindacalismo di quella parte debole che sono gli atleti, lo spirito di gruppo, la difesa mutua in nome di interessi comuni: ma qui non si è trattato di questo, bensì di anonimi e non precisabili “influencers” che han fatto i comodi propri e di una parte del gruppo, a dispetto o a discapito di un’altra parte dei colleghi che invece avrebbero avuto l’interesse, il coraggio o semplicemente la voglia di affrontare una tappa epica in sé, ma non ancora inumana né quanto a freddo né quanto a precipitazioni. Sempre che, ovviamente, il vero guaio non fosse invece una clamorosa carenza di immagini che qualora fosse stata applicata a un tappone di sei ore avrebbe ingenerato uno scandalo clamoroso, mentre in questo modo ci si è potuta mettere una pezza, tra l’altro ratificando vicendevolmente con le presunte condizioni limite tanto il taglio di tracciato quanto il taglio del visibile. Tutto questo senza nemmeno cominciare a ricordare gli appassionati portatisi anzitempo su Fedaia e Pordoi (dei quali hanno testimoniato con foto e video l’assoluta transitabilità), i volontari, gli organizzatori di tappa, gli sponsor… Una pecca enorme che ha probabilmente inciso sui valori finali, anche se magari non sul vincitore (e pure in questo senso, comunque, non si può mai dire, stante la corposità dello stralcio): spiccano soprattutto la bella prestazione di Bardet e quella negativa di Yates, entrambe peraltro confermatesi nell’altra tappa con alte quote e clima freddo. La beffa è specialmente crudele per Bardet, a cui finalmente era stato consentito di provare il Giro a lui più congeniale proprio in virtù di quelle peculiarità fondistiche e climatiche: ma a questa stregua non giunge né una classifica di pregio né la tappa, facendo del suo team DSM uno dei grandi delusi, anche se chi la gara l’ha seguita manterrà intatta l’ammirazione per l’approccio del francese.
Di grandi momenti, ad ogni modo, non ne sono certo mancati: eccezionale la tappa delle Strade Bianche con la susseguente telenovela Almeida-Evenepoel, ma soprattutto con il maestoso lavoro di Ganna che da solo frantuma il gruppo nel primo e in teoria più abbordabile sterrato. Lo stesso Ganna che provoca i ventagli sull’altipiano di Castelluccio a decine e decine di km dall’arrivo, o il suo dominio nelle crono, con tanto di foratura in quella finale. E poi la vittoria strappata dalla fauci del gruppo di Taco van der Hoorn, Nizzolo che smette incredibilmente di far sempre ma sempre secondo, il duello di grandi cilindrate fra Bettiol e Cavagna su e giù per le vigne pavesi, l’azzardo da lontano e ad alta quota di Bardet e Caruso, ben supportati dai rispettivi compagni di squadra. Le tante e belle fughe, con Mohoric che serve l’assist per un gran finale a Mäder, entrambi appena restati orfani del capitano Landa, baby face Lafay che fa felice la Cofidis, mentre Fortunato fa felice Contador, e Vendrame dà scacco alla sfortuna con un finale di partita da manuale nel tappone toscano.
È significativo che ben due terzi delle squadre abbiano vinto almeno una tappa, nonostante il prevedibile dominio INEOS con quattro e il sorprendente bottino a tutto tondo della Qhubeka, con tre vittorie (in cinque giorni! Sterrati, volata e muri sloveni). Hanno timbrato il cartellino squadre professional, cioè almeno formalmente “di serie B”, come Alpecin-Fenix o Eolo-Kometa, così come altre che nel WT sono appena sbarcate e se lo sentono largo, come la Intermarché-Wanty o, tutto sommato, Israel Start-Up Nation. Ce l’hanno altresì fatta pure team notoriamente poco prolifici come i francesi dell’Ag2R, titolari con Bouchard anche della maglia blu, o quelli della Cofidis, sebbene con Viviani sempre a secco. Altre formazioni sono rimaste senza tappa, pur sondando il terreno di tanto in tanto, ma in quanto hanno puntato forte sulla classifica generale: l’Astana può essere tutto sommato abbastanza soddisfatta del quarto posto di Vlasov, anche se, come dicevamo per Valter, la giovane età non è più un fattore specialmente distintivo. Nel caso di Valter, quei pochi giorni in maglia rosa giustificano il Giro altrimenti scialbo della Groupama, che comunque dopo il forfait amaro di Pinot non aveva molto da chiedere. E, in qualche modo, anche il Giro sostanzialmente deludente del team Jumbo Visma (con Groenewegen indiscutibilmente ancora da recuperare e Bennett che ha mancato i vari bersagli via via riscalati a scendere che si è andato a proporre), trova nondimeno una qualche consolazione nelle belle prestazioni di promesse come Affini o Foss. Giocarsela con Ganna è sempre un titolo di merito importante, così come pescare una top 10 in un Giro non così adatto per il norvegese. Movistar e Trek sono accomunate dalla sensazione di aver pagato uno scotto altissimo alle cadute che hanno liquidato sul più bello quanto stavano mostrando due bei prospetti bisognosi di salto di qualità come, rispettivamente, Soler e Ciccone. Il Giro non è stato caratterizzato da troppe cadute (né si può dire che siano state specialmente poche, alla faccia dei freni a disco): quel che è certo, tuttavia, è che sono grandinate perdite importanti, cominciando da quella clamorosa di un – di nuovo – incolpevole e sfortunatissimo Mikel Landa. Però il Team Bahrain si è dimostrato non solo Victorious ma proprio Invictus, reagendo collettivamente alla grande (e nel mondo dei “se fosse”, come sarebbe andata con un Caruso all’attacco supportato da Mohoric, quando invece lo sloveno ebbe a spettacolarmente cadere e ritirarsi sulla strada di Campo Felice?). Da applausi, di Caruso, anche le sue interviste dopo le ultime montagne. Invece, pur con immensa grinta nei vari Nibali, Ghebreigzabhier o Brambilla, Oliveira o Pedrero, tanto Trek quanto Movistar si sono sfaldate in una sostanziale inconsistenza.
Eclatante la caduta di Evenepoel non per rilevanza di classifica, giacché il pupillo Quickstep era ormai fuori di giochi, bensì in quanto epitome delle difficoltà del belga nel controllo del mezzo, forse peggiorato dopo il trauma del Lombardia, ma fors’anche eredità di una pratica sulla bici tardiva, dopo il calcio, e non maturata nella categoria U23. Di queste ambasce fa le spese Almeida, altro giovane fenomeno, lui sì confermatosi dopo la rivelazione del Giro passato: tuttavia, già notane la partenza verso altri team, dopo una giornata no viene presto posto al servizio di Remco. La sensazione è che poco sarebbe mutato in un Giro all’insegna del quasi per lo squadrone di Lefevre, del vorrei ma non posso, Cavagna incluso: e i pur bei secondi posti di tappa di Almeida non sarebbero divenuti primi, né la sua classifica sarebbe cambiata granché. Chissà se col – pure lui fuori per caduta – Fausto Masnada avremmo visto dell’altro: la sensazione però è che pure il bergamasco sbuffi nel mettersi al servizio altrui, e così non si va lontano in un GT.
Fra i “bravi ma” c’è Sagan, che l’anno scorso ci fece lustrare gli occhi per un giorno solo, ma splendido, e qui invece (pur con la sua brava e bella vittoria “di guida” in volata) punta sul globale e porta la maglia ciclamino alla sua Bora, privata – ancora! – per caduta di un Buchmann che sembrava ben pimpante nella generale. Lo stile catenacciaro e sparagnino che il team ormai focalizzato sulla sola maglia a punti adotta per conseguire l’obiettivo mal si accorda con l’immagine dello slovacco, ma se s’ha da portare a casa il risultato con gambe così così, l’immagine passa pure in secondo piano. Insomma, a casa Sagan pare che siamo già in fase di lucidatura e rifinitura delle statistiche da palmarés più che nell’era allegra del divertimento vincente su due ruote.
E “bravo ma” è pure Simon Yates, che ribalta l’approccio 2018, volente o involontariamente: parte opaco, finisce scoppiettante, pigliandosi così una meritata tappa che lo suggerisce dominante ove la strada s’impenna, specie se a quote basse, col caldo e senza troppi salitoni uno via l’altro. Tuttavia il terzo posto per un gran favorito non compensa, anche se la vittoria di giornata ci mette una bella stampella. Delude soprattutto, come per Sagan, in altro modo, la sensazione di non voler rischiare troppo quel che si ha già in tasca per puntare a più o ad altro.
Chiudiamo questa carrellata con ottica di squadra sullo squadrone per antonomasia: come dicevamo, INEOS sono i plurivincitori principali di quest’edizione – maggior numero di tappe vinte, maglia rosa e quella bianca che viene da sé, classifica a squadre che non guasta (e che spesso non vincevano), nonché un altro uomo in top 5, lo strepitoso Dani Felipe Martínez che sostiene Bernal nel momento più duro e poi, nell’ultimo e unico “tappone”, quello svizzero-lombardo, serve al connazionale colombiano il Giro su un piatto d’argento, stroncando uno dopo l’altro ogni avversario, salvo Caruso, e cedendo solo all’altezza della flamme rouge. Bernal è, e non per caso, ora il numero tre fra i più precoci vincitori di Tour e Giro, preceduto (questione di mesi) da Bartali e Merckx, seguito da Gimondi e Contador. Si tratta di un assoluto fenomeno, scalatore di razza ma efficiente a cronometro, abilissimo nel controllo della bici, intelligente nella scelta di tempo, aggressivo senza strafare in rodomontate. La necessità di convivere con un problema fisico cronico ne accresce lo spessore, per l’obbligata misura dell’azione o per la gestione mentale del timore quando si affaccia il dolore. La sensazione è però che, a differenza del Tour, stavolta gli sia stato prezioso se non essenziale il supporto di una formazione che usa il buon Ganna per controllare in pianura (e sfasciare tutto sullo sterro). Anche senza Sivakov – figurati tu! – avere come luogotenente un atleta all’altezza dei migliori rivali quale è stato Dani Martínez si traduce in un vantaggio impagabile, così come godere dell’appoggio di jolly quali Castroviejo o Moscon, capaci di controllare su qualunque terreno così come di scremare il gruppo e isolare gli avversari in qualsiasi momento. È vero, questa INEOS si fa apprezzare perché invece che blindare la gara, almeno nella sua prima metà, ha corso con creatività e sempre per aprire la corsa più che per chiuderla. Anche al momento di difendere ha optato per la selezione e non per la sonnolenza. Permangono però tutti i dubbi sulla struttura soggiacente, sulla diseguaglianza per cui c’è chi ha un budget doppio rispetto agli altri e fa razzia di campioni. A Bernal (e a noi) si leva così il gusto di una sfida che sia davvero tale fino in fondo, se non fra pari, almeno non condita da una sproporzione così esagerata. Diciamo che per adesso, in attesa di riequilibri casuali o naturali, starà agli altri, come da storia del ciclismo, provare a coalizzarsi contro la corazzata che, stavolta, è al servizio del più forte. E senz’altro sarebbe più facile scompaginare le carte se le tappe fuori dagli schemi si potessero correre senza mutilazioni dell’ultima ora.
Gabriele Bugada

Bernal festeggiato dai compagni di squadra (Getty Images)