BOCCOLA, LA SALITA CHE SMOCCOLA
agosto 5, 2010
Categoria: Approfondimenti
Chissà quanti “moccoli” avranno tirato gli ignari cicloamatori che, nel tentativo di emulare i professionisti, avranno voluto cimentare sulla breve ma secca erta verso Bergamo Alta. È la Boccola, l’asperità che il mondo del ciclismo ha conosciuto grazie al Giro di Lombardia e che, dopo due passaggi del Giro d’Italia, adesso si candida a diventare momento chiave del mondiale 2015. Ce la illustra Gabriele Bugada, giornalista de ilciclismo.it e, prima ancora, infaticabile pedalatore appassionato di salite.
Foto copertina: Porta Garibaldi rappresenta l’inizio della vera Boccola, ascesa dal “cuore di pietra” (fotoalbum.virgilio.it)
Il profilo inconfondibilmente austero – aereo e assieme severo di nuda pietra – della città antica ci squadra dall’alto, tra le quinte dei tetti: siamo in via Maironi da Ponte, strada serpeggiante e prettamente urbana, quando una curva opportuna ci schiude il miraggio dell’altra città, la Città alta. Siamo in piano, ancora, ma una serie di intralci (un ponticello, una rotonda, dei dossi, una strettoia) ci insegna il confine interno tra l’abitato e quella terra misteriosa di giardini e prati incolti che occupa i declivi ascendenti alle Mura.
Sorpassiamo una chiesa, ed ecco che lo scenario cambia, come la strada sotto le nostre ruote: sale, nervosa, circondata non più da case ma da alti muri a secco contraddistinti dai tipici archi ciechi; siamo in una conca, quasi una valletta appartata, segnata da vitigni curati o bruschi roveti, cespugli prepotenti e prati ameni. Incombe qualche cipresso; isolato e cupo un vecchio palazzo lasciato a se stesso e alla malinconia della sua pietra nera.
Sale la strada, ma non ci si pensa, tra il pimpante 9% e un modesto 6%: si lascia scorrere per queste prime centinaia di metri un 39×21 agile, rimandando il fiatone alle rampe che ci aspettano, e che ora – dopo aver curvato verso destra – vediamo lassù, alla nostra sinistra.
Le facciate antiche ricompaiono, allineate, quasi spettatrici con ognuna delle proprie cento finestre come occhi scuri. Ci aspettano.
Ma prima si tratta di varcare la porta Garibaldi, dritta davanti a noi e preannunciata dal ciottolato fitto e violento che caratterizza i prossimi duecento metri. Sì, perché dopo la porta un secco scarto di novanta gradi a sinistra dice che la strada si è accorta di essere ancora in basso, troppo in basso, rispetto a quel sogno di pietra antica, e cambia strategia: balza, e morde le balze. Punta dritto per dritto verso Città alta.
La gamba si indurisce e i battiti salgono, anche per la tensione imposta dalla guida equilibristica che è necessaria a tenersi sullo stretto marciapiede di arenaria liscia, evitando i sassetti tondi, piccoli e cattivi come pugni, che tempestano la carreggiata vera e propria.
Ancora, una curva, un controtornante in cui tirare il fiato, e.
E: gustiamoci – piano, se possibile, sciogliendo la gamba – gli ultimi cento metri pedalabili.
Poi, un fulmine, un guizzo, un’impennata violenta.
La Boccola: è questa la Boccola vera e propria, questi ultimi due-trecento metri che vanno su, su, su, dritti dritti, con in mezzo giusto una “chicane” a spezzare il ritmo e costringere i polpacci già gonfi a riesplodere un raddoppio di scatto. 13% costante, con punte del 16%: per poco, epperò già per troppo.
Non si vede quel che c’è al nostro fianco – le case di qua, il paesaggio di là – mentre scattiamo a tutta: ma sì, anche col 39×21 o col 39×23, senza pensare, senza respirare, o senza pensare al respiro impazzito. Senza niente di niente, se non un urlo di fatica bianco e protratto fino allo stremo.
Se siamo fortunati, con questo grido muto di tutto il corpo scagliato, abbiamo raggiunto la brevissima spianata caratterizzata dall’aprirsi di Piazza Mascheroni alla nostra sinistra, e dal nostro infilarci in un buio voltone, ultima soglia per il Colle Aperto.
Se non ce l’abbiamo fatta, ogni singolo metro che ci separa da quel respiro costerà dolore e frustrazione. Pressoché fermi, inchiodati ai pedali.
Ma comunque sia, si arriva: si passa in quel buio, poi la strada risale appena, ma quasi non si sente; davanti a noi la luce verde filtrata dagli ippocastani, l’aria larga del Colle Aperto. Gireremo a sinistra, con un’ultima gobba che ci scaraventa giù dalle Mura. O a destra, verso le ulteriori ambizioni della Panoramica.
Ma adesso non ci pensiamo, perché noi no, non siamo in gara: noi respiriamo, con il cuore a tutta, e i quadricipiti in acido. Noi respiriamo, ci godiamo la fontanella, la gente che sfila, e proprio là davanti c’è la gelateria Marianna.
Gabriele Bugada