BATTI UN CINQUE – 1991, IL PRIMO TOUR DI INDURAIN
Anche nelle settimane tradizionalmente impegnate dal Tour Ilciclismo.it vi farà compagnia con i racconti del ciclismo che è stato. In particolare abbiamo scelto di narrarvi delle storiche cinquine alla Grande Boucle di Anquetil, Merckx, Hinault e Indurain, alle quali affiancherano negli ultimi giorni anche i racconti di tre Tour italiani, quelli vinti da Nencini nel 1960, da Gimondi nel 1965 e da Pantani nel 1998. Buona lettura!
Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Miguel Indurain.
Cinque Tour a testa, record ancora imbattuto dopo il colpo di spugna che ha cancellato le sette edizioni conquistate “artificialmente” da Lance Armstrong. Se chiedessimo ai giornalisti d’un tempo chi sia stato il migliore tra questi quattro corridori assisteremmo a una discussione molto accesa, come quella che alcuni anni fa – si disquisiva nell’occasione di Coppi e Merck – fu conclusa con la frase, la cui paternità è ancora oggi dubbia, “Coppi è stato il più grande, Merckx il più forte”. Se, però, ci mettessimo lì ad analizzare nei dettagli i venti Tour vinti da questi quattro corridori, dei risultati ben precisi possiamo ottenerli e in testa a questa speciale classifica dei “corridori più…” (senza aggettivo, così da non scontentare nessuno) si ritroverebbe senza ombra di dubbio Merckx, campione in grado di emergere su qualsiasi terreno si trovasse a gareggiare, dalla pista all’arrivo in volata, dalla tappa di montagna alla cronometro. Un gradino sotto si ferma Hinault, che primeggiava sugli stessi terreni del belga ma era molto meno “ingordo” di lui. Sul terzo gradino del podio si potrebbe, infine, mettere assieme Anquetil e Indurain, entrambi notevolmente attrezzati nell’esercizio della sfida contro il tempo e capaci di tenere in montagna pur non essendo scalatori. Ci sono due particolari, però, che permettono al corridore spagnolo di risaltare sugli altri tre, a cominciare dal fatto che Indurain i suoi cinque Tour li ha vinti consecutivamente, a differenze degli altri che, invece, hanno avuto qua e là delle battute d’arresto, volontarie o involontarie. Inoltre c’è anche il fattore età che permette a “Miguelon” di surclassare gli altri assi, che cominciarono la loro serie di vittorie quando avevano tra i 23 e il 24 anni, mentre lo spagnolo quando vinse il suo primo Tour aveva 27 primavere alle spalle e sette anni di “apprendistato” alla Reynolds, la formazione iberica che poi nel 1990 diventerà Banesto (sarebbe la “nonna” dell’attuale Movistar) e nella quale svolse compiti di gregariato per Pedro Delgado, vincitore del Tour nel 1988.
Quando, passati i trent’anni d’età, Delgado capisce d’aver cominciato a imboccare la strada del declino agonistico decide di lasciare i galloni di capitano al suo delfino per l’edizione 1991 della Grande Boucle. È un’edizione del Tour, la settantottesima della storia, che vede ai nastri di partenza come grande favorito l’americano Greg Lemond, che ha in attivo tre vittorie in classifica, le ultime due delle quali conquistate di fila. È anche il Tour che vede al via italiani in grado di far bene in classifica per la prima volta dopo un lungo periodo nel quale ci eravamo dovuti accontare delle vittorie di tappa, 11 nelle dieci edizioni disputate negli anni ’80, periodo nel quale nessuno dei nostri era arrivato a piazzarsi nemmeno nella top ten. L’edizione dell’anno precedente ci aveva, però, fatto scoprire un Claudio Chiappucci inatteso, in grado di competere per il successo finale fino all’ultimo e anche il Tour del 1991 confermerà il valore dello scalatore varesino, che alla fine sarà terzo in classifica, preceduto dallo spagnolo e da Gianni Bugno, un altro dei nomi che ci fa ben sperare al via da Lione.
Si parte il 6 luglio con un veloce cronoprologo di poco più di 5 Km che fa suo il francese Thierry Marie, specialista delle cronometro brevi che nel curriculum ha già dieci affermazioni nei prologhi, vittorie alle quali affiancherà nel 1992 anche quello nella crono d’apertura del Giro d’Italia. In questa occasione precede di due secondi un altro nome molto atteso al via, quello di Erik Breukink, l’olandese che nel 1988 aveva vinto la famigerata tappa del Gavia al Giro e si era poi piazzato in seconda posizione nella classifica finale. Tra i “big” il migliore è Lemond, 3° a 3”, che riesce a guadagnare sei secondi su Indurain, dodici su Chiappucci e quindici su Bugno.
La prima tappa pure si snoda in circuito attorno a Lione, su di un percorso moderatamente nervoso al termine del quale si attende l’arrivo allo sprint e non certo un’azione a sorpresa da parte di uno dei favoriti. È, invece, quel che accade a 55 Km dal traguardo quando, lasciatesi alle spalle la parte altimetricamente più movimentata della tappa, va all’attacco “nientepopodimenoché” Lemond assieme ad un risicato gruppetto nel quale ci sono, tra gli altri, Breukink, il danese Rolf Sørensen e il russo Djamolidine Abdoujaparov. Quest’ultimo sfrutterà poi le sue doti di velocista per imporsi allo sprint su questo drappello, che riesce nell’intento prefissatosi e precede di quasi due minuti il gruppo con tutti gli altri favoriti, mentre Sørensen balza al comando della classifica generale con 11” su Breukink.
Lo stesso giorno, il pomeriggio, si disputa tra Bron e Chassieu la cronometro a squadre, 36.5 Km che si concludono con la prima delle sei affermazioni che rappresenteranno il bottino dell’Italia in questa edizione del Tour. A firmarla è l’Ariostea, la squadra della maglia gialla Sørensen, che riesce a imporsi a quasi 53 Km/h, pur con il contrattempo della caduta di tre suoi corridori all’ultimo chilometro, e distanzia di 8” la Castorama e di 35” la Panasonic. Per quanto riguarda le formazioni dei favoriti la migliore è la PDM di Breukink, che stacca di 10” la Z di Lemond e di 25” la Gatorade di Bugno e la Banesto di Indurain. La notizia clamorosa del giorno è quella dell’estromissione dalla corsa dell’irlandese Stephen Roche, vincitore dell’edizione 1987, giunto fuori tempo massimo – a quasi 14 minuti dall’Ariostea – dopo essersi presentato al via con sette minuti di ritardo rispetto all’orario prestabilito a causa di una lunga sosta alla toilette. Il regolamento delle cronometro, infatti, prevede che il tempo sia fatto partire all’orario fissato dai giudici, indipendentemente dalla presenza o meno del corridore sulla rampa di lancio (anche nel prologo del Tour del 1989 si era verificato un episodio simile, con protagonista Delgado).
Partendo da Villeurbanne si lascia velocemente la zona di Lione per una tappa di oltre 200 Km diretta a Digione, dove l’atteso sprint avviene ma a vincere non è un velocista perché il belga Étienne De Wilde, scappato a un chilometro e mezzo dal traguardo, viene praticamente ripreso solo sulla linea d’arrivo, riuscendo lo stesso a tagliarla vittorioso davanti a tutti i velocisti in gara.
Va tutto come previsto, invece, l’indomani a Reims dove Abdoujaparov allo sprint s’impone nella tappa più lunga di questa edizione (286 Km), nel corso della quale Chiappucci tenta due volte di soprendere il gruppo, senza tuttavia farcela anche perché non è più il corridore poco conosciuto che l’anno prima era riuscito a guadagnare a sorpresa 10 minuti sul gruppo andando in fuga nella prima tappa.
Intanto continua indisturbata la marcia in giallo di Sørensen, che mantiene le insegne del primato anche al termine della successiva frazione di Valenciennes, nonostante una brutta caduta che lo coglie a 4 Km dall’arrivo e che lo porta a tagliare il traguardo con 13” di ritardo dal belga Jelle Nijdam, scattato dopo che a 1500 metri dall’arrivo era stato ripreso un ennesimo tentativo promosso da Chiappucci. La corsa in ospedale del corridore danese, subito dopo la conclusione della tappa, sarà però una doccia fredda: il responso delle lastre è quello di una frattura alla clavicola che costringe il corridore danese a lasciare il Tour con la maglia gialla sulle spalle.
L’indomani mattina dovrebbe indossarla Lemond, che la sera prima era ancora secondo in classifica a 9” da Sørensen, ma si rifiuta di farlo per solidarietà verso il corridore dell’Ariostea. E non la vestirà nemmeno a sera perché, al termine della Arras – Le Havre, tornerà sulle spalle di Marie che corona con un doppio successo una lunga fuga solitaria di 234 Km, la seconda per durata della storia del Tour dopo quella messa in scena da Albert Boulon per 253 Km nella Carcassonne – Luchon del 1947.
Con Marie in giallo con 1’04” sull’irlandese Sean Kelly si corre una tappa per velocisti di 167 Km – l’arrivo è ad Argentan, dove s’impone l’olandese Jean-Paul van Poppel – alla vigilia di una delle frazioni più temute, la lunga cronometro di Alençon. A dominarla sembra essere Breukink, che fa registrare il miglior tempo a tutti i punti intermedi, l’ultimo dei quali – a 10 Km dal traguardo – lo vede viaggiare con 20” di vantaggio su Indurain e 26” su Lemond. Improvvisamente il corridore olandese rallenta e la sua azione si appesantisce inspiegabilmente nell’affrontare il traguardo conclusivo, che lo vede tracollare fino ad arrivare ad accusare al traguardo un ritardo di 1’14” da Indurain e Lemond, con i due distanziati nell’ordine d’arrivo da otto secondi, mentre Bugno termina a 1’31” dallo spagnolo e Chiappucci soffre lasciando per strada oltre 4 minuti. Mentre Lemond torna a vestire la maglia gialla con 1’13” su Breukink, gli appassionati cominciano a fare mille congetture sulla débâcle dell’olandese, tirando per prima cosa in ballo le crisi ipoglicemiche che in passato lo avevano condizionato nelle crono la cui lunghezza superava i 70 Km. Nei giorni successivi, però, anche i suoi compagni di squadra cominceranno ad accusare i medesimi sintomi, che nel giro di tre giorni porteranno al totale ritiro della sua formazione dal Tour, dove le voci si rincorrono e parlano ora di un’intossicazione alimentare, di un virus ma anche della somministrazione di prodotti dopanti mal conservati, un’indiscrezione avvalorata dal fatto che solamente i corridori si erano sentiti male e non il restante personale della squadra.
Nell’attesa dei Pirenei si disputano tre frazioni che, cartine alla mano, dovrebbero tutte terminare allo sprint. Invece, in tutte e tre riesce ad andare in porto la fuga o il tentativo nato nel finale e così a Rennes Mauro Ribeiro è il primo (e finora unico) corridore brasiliano a imporsi in una tappa del Tour, a Quimper l’australiano Phil Anderson e i suoi compagni d’avventura riescono a resistere per 6” al recupero del gruppo e a Saint-Herblain è uno scalatore – quel Charly Mottet che l’anno prima era arrivato secondo nel Giro vinto da Bugno – a sorprendere il gruppo con una sparata all’ultimo chilometro di una tappa di quasi 250 Km percorsa a una media di oltre 47 Km/h.
Dopo un giorno di riposo si riparte con la prima tappa pirenaica, che debutta con una grossa protesta in seno al gruppo, un vero e proprio “sit in” per lamentarsi dell’esclusione dell’elvetico Urs Zimmermann, espulso per aver effettuato in auto – a causa della paura per i viaggi aerei – il lungo trasferimento dalla Bretagna a Pau, mentre il regolamento prevedeva che tutti i corridori lo compissero nella medesima modalità. La protesta è talmente decisa che convince i commissari di gara a riammettere in corsa l’elvetico, che tenta anche la fuga nella tappa diretta nella cittadina spagnola di Jaca, dove si giunge dopo esser saliti sui colli di Soudet e di Somport. La conclusione è a sorpresa perché, oltre a registrare il bis di Mottet, cambia il padrone della maglia gialla grazie al tentativo di cinque corridori che la caratterizza e tra i quali c’è il vincitore del Giro del 1988, Andrew Hampsten: la sorpresa ha il volto raggiante del francese Luc Leblanc che, grazie ai quasi sette minuti guadagnati sul gruppo Lemond, si porta al vertice della classifica con 2’35” sull’americano.
L’era Lemond ha, però, i minuti contati, per la precisione i sette minuti e diciotto secondi che perderà l’indomani nel tappone di Val Louron: è da questo giorno che prende a eclissarsi l’astro di Greg, nel cui corpo cominciano in questo momento a farsi sentire i venefici effetti dei trenta pallini di piombo che i medici non erano riusciti a estrargli e che sono il “souvenir” di un incidente di caccia avvenuto nell’aprile del 1987, quando era stato scambiato dal cognato per un esponente del mondo della selvaggina. Per una stella che si spegne, ce n’è una pronta a splendere, quella di Indurain che al termine del tappone si trova a vestire la prima maglia gialla della sua vita dopo esser andato all’attacco nella discesa dal Tourmalet. Gli fa compagnia il solo Chiappucci, che poi lo precede allo sprint a un traguardo dove terzo si piazza Bugno, quasi un minuto e mezzo dopo l’arrivo dei primi due. Ora è “Miguelon” in testa al Tour, con tre minuti netti su Mottet e qualcosa di più su Bugno, mentre Chiappucci si piazza al quarto posto a 4’06”.
Quella del “Diablo” è la prima di cinque vittorie consecutive italiane, con i nostri che monopolizzano la più alta piazza degli ordini d’arrivo tra Pirenei e Alpi. Ventiquattrore dopo l’affermazione dello scalatore varesino arriva il successo in fuga del vicentino Bruno Cenghialta, che per l’emozione perde per qualche istante i sensi subito dopo aver tagliato il traguardo della Saint-Gaudens – Castres. Tocca poi a Moreno Argentin al termine della Albi – Alès e quindi a Gap arriva una tripletta da incorniciare per l’Ariostea con Marco Lietti, che si prende il lusso di battere allo sprint un corridore del calibro di Lemond.
Dalla gioia al dolore trascorrono solo poche ore per il corridore comasco, che il mattino successivo si frattura clavicola e femore, a causa dello scontro con un mezzo della carovana pubblicitaria, mentre si sta recando in bici al raduno di partenza della tappa diretta all’Alpe d’Huez. E poi è ancora festa in casa Italia con il bis di Bugno in cima all’Alpe, dove il monzese si era già imposto dodici mesi prima e dove stavolta precede allo sprint Indurain, mentre Chiappucci perde 43” ma sale al terzo posto della classifica (con Bugno secondo) a causa del cedimento di Mottet.
C’è ancora un duro tappone da scavalcare, ma tra Bourg-d’Oisans e Morzine oltre alle salite il gruppo incontra anche il maltempo a complicare una giornata nella quale i big non si danno battaglia, giungendo al traguardo trenta secondi dopo l’arrivo di Thierry Claveyrolat, scalatore francese che morirà suicida otto anni più tardi per il rimorso di un incidente stradale nel quale aveva causato quattro feriti.
Anche l’ultima salita del Tour, il Mont Revard di gimondiana memoria, scivola via senza troppi patemi per la Banesto di Indurain, che controlla la corsa lasciando andar via solo i corridori che meno teme. Così è ancora la fuga ad andare in porto e sul traguardo di Aix-les-Bains a giungere per primo è Dimitri Konychev, seconda vittoria russa al Tour dopo di quella conseguita l’anno prima a Pau dallo stesso corridore. E la festa per i sovietici non finisce qua perché l’indomani faranno poker con l’affermazione di Vjačeslav Ekimov sul traguardo di Mâcon, dove riesce a precedere di sette secondi la volata del gruppo, vinta dal suo connazionale Abdoujaparov.
Si rimane per un altro giorno a Mâcon dove, alla vigilia della conclusione del Tour, è prevista un’altra tappa favorevole allo spagnolo che da una settimana staziona indisturbato al vertice della classifica. Infatti, è ancora Indurain a imporsi nella lunga crono che parte da Lugny e che vede lo spagnolo percorrere i 57 Km in programma alla media di 47.665 Km/h, mentre riescono a contenere lo svantaggio entro il minuto solo Bugno e Lemond, rispettivamente staccati di 27 e 48 secondi.
L’ultima tappa è una pura formalità, 178 Km per andare da Melun al tradizionale approdo degli Champs-Élysées, sui quali sono ancora i corridori russi a farsi notare, tra il bis di Konychev e la tremenda caduta di Abdoujaparov, che tocca il piede di una transenna a poche centinaia di metri dal traguardo. “Abdou” salta letteralmente per aria, per poi ripiombare pesantemente sull’asfalto riportando un trauma cranico e la frattura alla clavicola. Ma ha il coraggio e la forza di volontà di rimettersi in sella e, con il volto grondante di sangue, percorrere l’ultimo tratto fino al traguardo, che deve completare affinchè la giuria possa assegnargli definitivamente quella maglia verde che indossa ininterrottamente dalla terza tappa. È l’ultimo brivido del primo dei cinque Tour vinti da Indurain, che lo spagnolo conquista con 3’36” su Bugno e 5’56” su Chiappucci.
Mauro Facoltosi
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