LE QUATTRO LIEGI DI VALVERDE – PARTE SECONDA (con il ricordo di Scarponi)
Concludiamo la rassegna sulle quattro Liegi-Bastogne-Liegi vinte da Alejandro Valverde. Oggi vi riproporremo le cronache del 2015 e del 2017, l’ultima delle quale scritta a poche ore dalla drammatica scomparsa di Michele Scarponi
VALVERDE, SONO TRE! (2015)
Se vincere la Liegi-Bastogne-Liegi è in assoluto un’impresa notevole, vincerla da favorito unico, pedalando per 253 km con un bersaglio sulla schiena, è qualcosa di eccezionale; e proprio di questo è stato capace Alejandro Valverde, al termine di una gara in cui ogni avversario era partito con il preciso intento di non portare il murciano allo sprint. Troppo forte l’ex Embatido, e forse troppo poco creativi i rivali, disabituati ormai a correre all’attacco, perlomeno quando il termine “attacco” indica qualcosa di diverso da una girandola di allunghi senza pretese negli ultimi 20 km. Unica eccezione la Astana di scuola Vinokourov, la cui enorme intraprendenza non è stata tuttavia supportata da altrettanta brillantezza degli interpreti.
Sono stati proprio i kazaki, freschi di conferma della licenza, ad infiammare la corsa, peraltro con largo anticipo sulle più ottimistiche tabelle di marcia: già sullo Stockeu, a quasi 80 km dal traguardo, dopo aver contribuito a ridurre ad un pugno di secondi il vantaggio della fuga della prima ora di Ulissi, Montaguti, Vergaerde, Chevrier, Minnaard, Turgis, Benedetti e Quaade, gli uomini di Nibali hanno mandato in avanscoperta Tanel Kangert, scatenando un florilegio di reazioni forse neppure immaginato. Guidati da Izagirre, infatti, non meno di una ventina di corridori si sono riportati sull’estone, con un’altra decina di elementi a poca distanza, dando per un attimo l’impressione che la corsa potesse impazzire.
Il solito, fatale istante di incertezza – sulla falsa riga di quello che a Ponferrada frenò la possibile maxi-fuga promossa dall’Italia a due terzi di corsa – ha però consentito ad un plotone ad un tratto spaesato di riparare il danno, concedendo via libera soltanto al ben più gestibile quintetto lanciato di lì a poco ancora da Kangert, al quale si sono accodati Chaves, Arredondo, Boaro e Scarponi.
I due Astana, chiamati dalla superiorità numerica a svolgere la maggior parte del lavoro, hanno seminato Boaro e Arredondo già sul Rosier, fino a dilatare il margine sul gruppo ad un massimo di 1’05’’. Con l’avvicinarsi della Redoute, Movistar e Katusha hanno provveduto a riportare il distacco intorno ai 20’’, senza rallentare nemmeno quando una maxi-caduta ai 40 dall’arrivo ha spezzato il plotone ed escluso dalla contesa nomi del calibro di Rolland, Roche, Gerrans (già acciaccato) e – soprattutto – Daniel Martin. Nibali ha evitato miracolosamente di restare coinvolto, frenando all’ultimo centimetro utile; un contrattempo costato qualche secondo – recuperato comunque in pochi chilometri – e forse anche un rinvio del successivo assalto Astana.
Com’è ormai consuetudine, il passaggio sulla Redoute è stato svilito da un gruppo transitato a ritmo di transumanza, che soltanto in cima è stato scosso dal tentativo di Siutsou, durato giusto il tempo necessario ad un primo piano in diretta tv. Scarponi e Chaves, sbarazzatisi di un esausto Kangert ai piedi dell’ascesa simbolo della Doyenne, non hanno potuto comunque resistere più di qualche chilometro ancora, permettendo al gruppo di presentarsi compatto ai piedi della Roche-aux-Faucons.
La salita cara ad Andy Schleck, solito infiammare qui la corsa nei suoi giorni di gloria, si è questa volta dovuta accontentare di assistere all’attacco di due outsider – sia pur di lusso – quali Kreuziger e Caruso, osservati da un gruppo ancora pressoché inerte. Soltanto nel successivo tratto di falsopiano la Astana, dopo aver inutilmente tentato di riportare tutti sotto con uno stracotto Taaramae, ha ridato fiato al suo piano tattico, spedendo Fuglsang in caccia del duo di testa. Con una notevole progressione, il danese è riuscito a trasformare la coppia in un trio, e chissà quale fisionomia avrebbe potuto assumere la corsa se un quintetto di contrattaccanti composto da Rui Costa, Bardet, Visconti, Moreno e Alaphilippe, non avesse mancato l’aggancio per un pugno di metri, prima che il marcamento reciproco portasse al naufragio l’azione.
Grazie ad un superlativo Stybar, i favoriti hanno potuto approcciare il Saint-Nicolas con un distacco di appena una decina di secondi dal terzetto di testa, prontamente azzerati da una progressione dimostrativa di Valverde e da un’ugualmente inefficace azione di Nibali, che in quel frangente produceva tuttavia il massimo sforzo. Henao e Caruso hanno a loro volta provato a scremare i resti del gruppo, riuscendo a far fuori un paio di grossi calibri (Gilbert e Kwiatkowski, oltre a Nibali, successivamente rientrato in vista dell’ultimo chilometro), ma non a promuovere un attacco degno di tale nome.
Caruso (nessuna omonimia: sempre Giampaolo, oggi inossidabile) si è incaricato di portare tutti assieme sotto lo strappo finale di Ans, dove Dani Moreno ha provato a giocare d’anticipo, con Joaquim Rodriguez ad incollarsi alla ruota di Valverde per chiudere il murciano in una tenaglia. Qui, però, Valverde – tante volte deriso con pieno merito per la sua insipienza tattica – ha messo in piedi un capolavoro strategico: anziché chiudere subito su Moreno, esponendosi a probabilissimi scatti in contropiede, ha atteso qualche centinaio di metri, inducendo addirittura a credere che le gambe lo avessero abbandonato sul più bello; soltanto in un secondo momento è arrivata la reazione, e quando Moreno è stato finalmente riassorbito, in vista della curva a sinistra che l’anno scorso costò la gara ad un altro Daniel (Martin), lo spazio per anticipare la volata era ormai esaurito.
Nello scenario per lui ideale, Valverde non ha tradito, mangiandosi facilmente i rivali di Firenze, Rodriguez e Rui Costa – 3° e 4° rispettivamente -, e trovando ancora in Alaphilippe, già secondo mercoledì alla Freccia e settimo all’Amstel, l’avversario più credibile, capace di una piazza d’onore alla Liegi prima dei 23 anni. Kreuziger ha trovato ancora la forza di guadagnarsi un ottimo 5° posto, mentre Pozzovivo provvedeva a piazzare il tricolore italiano in top 10, sia pur con un’ottava piazza che non può soddisfare fino in fondo.
Con il senno di poi, è fin troppo facile immaginare quali accorgimenti tattici da parte degli avversari avrebbero potuto complicare la vita a Valverde, messo davvero sotto pressione soltanto negli ultimi 20 km, e secondo piani strategici di facile lettura. La sensazione di generale mancanza di forze che ha destato la scalata al Saint-Nicolas e la disarmante progressione finale dello spagnolo, tuttavia, autorizzano a credere che i rivali, quest’oggi, potessero soltanto scegliere come farsi battere.
Matteo Novarini
MESTA LIEGI: ADDIO MICHELE (2017)
È uno strazio pensarci ora, ma Michele Scarponi è stato – anche – il miglior corridore italiano per la Liegi fra tutte le generazioni successive all’epoca dorata dei Bettini, Rebellin e Di Luca. Con la solita umiltà sorniona, non ha mai strombazzato la propria solidità nella decana delle Classiche, quella che sa sorridere anche agli scalatori ma solo se se dotati di guizzo, intuito e classe: ha sempre coltivato in modo quasi intimo una storia d’amore personale con la severa signora belga, sfiorando il podio all’esordio, un neoprofessionista di appena ventitré anni col completo zebrato della Domina, e di nuovo quando fu quinto dieci anni dopo, all’ultima stagione in Lampre, non mancando di intascare nel frattempo un altro paio di top ten. I Gasparotto o Nibali, invece, pur avendo dato una più netta impressione di poter agguantare la vittoria, non han brillato che per un paio di stagioni su queste strade. Il ricordo più recente e indelebile è quello di Scarponi che nel 2015 scala la leggendaria Redoute in testa alla corsa, mezzo minuto davanti al gruppo, con il giovanissimo e talentuoso Chaves in scia. Stava lavorando in funzione del capitano Fuglsang, oggi in lacrime alla partenza, ma quell’istantanea di Michele che scollina davanti a tutti sulle rampe del mito è un piccolo regalo che si fece e ci fece: proprio oggi acquista una rilevanza speciale.
È bello allora che arrivi qui il primo di una serie di omaggi a Michele Scarponi da parte dei suoi amici nel mondo del ciclismo, e la parola “amici” per una volta non sembra abusata come troppo spesso accade: Valverde, vincitore con gli indici e lo sguardo puntati al cielo, stenta a parlare nell’intervista, rifiuta come prima domanda di commentare il finale di gara e impone, anzitutto, il ricordo commosso, con la voce rotta e gli occhi rossi di pianto, del collega italiano e della famiglia di questi, a cui devolverà il premio.
Lo sprint folgorante di Valverde, a conclusione di una progressione che sgretola e spazza via la concorrenza, è uno dei pochi gesti tecnici che danno lustro a una giornata a cui, oggi, non ci sentiamo di rimproverare il solito, oppressivo grigiore e l’andamento mesto, contratto, come di chi corra con il cuore in un pugno. Sembra ormai questo il destino costante della Liegi, in attesa di novità che la ravvivino, però, solo per quest’anno, è davvero già molto riuscire a trovare la voglia di correre, spingere, scattare, soffrire.
Poche note di cronaca. La fuga del mattino dilaga, ma si sfalda sulla Rocca dei Falchi nonostante i sussulti finali dell’indefessa coppia Cofidis con Rossetto e Perez. Dietro bisogna aspettare il Maquisard affinché prenda corpo una mossa robusta, con in luce gli ottimi De Marchi, Brambilla e Benedetti rodando i motori per il Giro, assieme a nomi noti come Latour o Betancur, che fa respirare i suoi compagni Movistar fino ad allora in testa al gruppo, o la coppia Dimension Data di Fraile e Haas. La Redoute però, invece che spaccare la corsa, la rimpasta, con le trenate di Sebastian Henao e Kreuziger che ricuciono i distacchi. Eccoci alla Rocca dei Falchi dove ci prova l’altro Henao, il più forte Sergio Luis, con Kreuziger stavolta più aggressivo che difensivo. La testa del gruppo si rimescola con gli abituali giri di mano che vedono gruppetti diversi provare a sganciarsi tra scatti e controscatti – tutti piuttosto timidi, invero – finché non se ne va un’altra buona azione con il sempre coraggioso Tim Wellens a fare la parte del leone, più di nuovo un paio di italiani, Villella che scorta il suo capitano Woods, e Damiano Caruso che sembra pensare soprattutto ai suoi capitani belgi rimasti in gruppo, Van Avermaet e Teuns. Ci sono anche l’assatanato Kreuziger e la promessa Sam Oomen (oltre a Vuillermoz e Konrad).
La Sky è rimasta fuori dal mazzo e si incarica dunque di menare le danze dietro, levando le castagne dal fuoco a un Valverde provvisoriamente a corto di compagni. Moscon, il trentino 23enne che già fu splendido alla Roubaix, viene speso in un’infinita menata da mulo che smonta le velleità degli attaccanti, dei quali si rilancia in avanti solo l’indomito Wellens, senza che però il suo vantaggio faccia mai sperare che possa superare il Saint-Nicolas, la salita degli italiani che ci introduce al gran finale. Fedele al suo nome, la côte tra le case di mattoni imbruniti si apre e si chiude con begli spunti italici: il primo è ancora Villella, che allunga fluido, e viene agguantato solo dalla duplice fucilata di Sergio Henao e Albasini, ansiosi di anticipare. Il gruppo si ricompatta grazie all’intensità di Ion Izagirre altro gregario più o meno involontario di Valverde (in Movistar l’anno scorso, ma ora sarebbe pure capitano in casa Bahrein-Merida!): tuttavia prima che spiani l’ultimo metro del Saint-Nicolas squilla di nuovo un acuto italiano, con Formolo che allunga decisissimo e prende il largo, mentre dietro si tentenna.
Formolo regge bene sui saliscendi infarciti di sanpietrini, ma lo strappo finale di Ans incombe: il primo allungo è di Fraile, ma le polveri sono bagnate da quella fuga di tanti km fa.
Al fulmicotone la sparata di Daniel Martin ai -800 metri dal traguardo, lui sì prende il largo e dribbla Formolo in scioltezza: dietro però è l’Orica che s’incarica di tirare il guinzaglio, peraltro con un’azione confusa in cui non è chiaro se Adam Yates e Albasini collaborino o pensino ciascuno a sé – l’impressione è che entrambi pensino a Valverde, finiranno infatti settimo e ottavo. Quando Valverde innesca la sua progressione, lo sparpaglìo è graduale ma inesorabile, la lunga fila indiana di una ventina di uomini che serpeggiava per le vie delle periferie belghe si sbriciola, perdono le ruote i Bardet, i Majka, i Van Avermaet, mentre Valverde piomba su Daniel Martin come il falco su un coniglio, rifiata in curva, riapre il gas in piena spinta ma in appena pochi metri già capisce di aver schiantato tutti e con ampio anticipo si rialza, leva gli indici, guarda lassù, oltre il cielo di polvere e limatura, lasciandosi alle spalle gli affanni di Martin ancora secondo, di Kwiatkowski in rimonta affannosa, di Matthews che sprinta forte in salita dopo aver sgomitato sorprendentemente sulla Redoute, di Izagirre indomito, e poi tutti gli altri. Pozzovivo dodicesimo, primo degli italiani nell’ordine d’arrivo, ma il primo italiano, oggi, passava il traguardo con Valverde.
Comunque Scarponi oggi sarebbe stato contento dell’azzardo e della smorfia sofferta di Formolo, delle sortite di Villella, delle puntate offensive in funzione dei capitani fatte da De Marchi, Brambilla o Caruso, di Moscon duro, umile e fedele, del proprio capitano di anni anteriori Fuglsang, che arriva a dieci secondi dopo una gara cominciata con un pianto a dirotto ma altresì del compagno e collega Cataldo che, già distrutto emotivamente al via, non ce l’ha fatta a finire.
Eppure, va detto, questa corsa da italiani vede gli italiani anche se degnissimi sempre più outsider e gregari. Forse c’è un qualche rapporto con il calo di oltre il 40% dei km in bici percorsi all’anno per abitante, in Italia rispetto al 1997, vent’anni fa, quando Michele era juniores?
Michele Scarponi fu tra i primi e più entusiasti professionisti a sostenere, l’iniziativa #salvaiciclisti, innescata ormai cinque anni fa. Da allora i ciclisti morti in Italia hanno superato i milleduecento. Michele è uno fra le centinaia di ciclisti che ogni anno vengono ammazzati sulle strade italiane, chi per lavoro – come nel suo caso, o di chi in bici ci va in fabbrica o in ufficio – chi per il puro piacere di spostarsi senza rumore e inquinamento. Non credete a chi dice che è perché la bici è intrinsecamente pericolosa: la straripante maggioranza delle morti è causata da un veicolo a motore. Non credete a chi dice che non potrebbe essere diversamente, perché le strade sono fatte per le automobili: negli altri Paesi europei la situazione è ben diversa rispetto all’Italia. In Francia, dove il ciclismo, numeri alla mano, si pratica quanto in Italia, i morti si attestano intorno ai 150 all’anno. La media italiana dal 2001 al 2015 è di 300.
L’Italia è di gran lunga il Paese con la peggior combinazione di pratica ciclistica relativamente moderata e gran numero di morti: la Polonia, con cui ci disputavamo il poco ambito trofeo, ha rivoluzionato la propria sicurezza stradale nell’ultimo quinquennio. La Spagna, vent’anni fa uno dei Paesi meno pedalatori del continente nonostante il mito Indurain, ha cambiato in modo sempre più radicale il proprio codice della strada dal 2001 al 2014, con governi di ogni colore, e nell’ultimo biennio il ciclismo amatoriale ha scavalcato calcio, nuoto e atletica diventato lo sport più praticato nel tempo libero.
L’isteria dei guidatori italiani, sulle strade o in rete, ignora che vent’anni fa la presenza ciclistica sulle strade del Belpaese era quasi doppia e l’auge recente ha recuperato solo parte di quel prezioso patrimonio. Come si circolava allora? E come faranno mai in Germania, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Corea del Sud con tre, quattro, dieci volte i ciclisti che ha l’Italia? Saranno tutti in coda, o viceversa la mobilità è molto più fluida ed efficiente per tutti?
Mentre in altri Paesi, come appunto la Spagna, le leggi obbligano i guidatori di veicoli motorizzati a contemplare perennemente la possibilità della presenza di un ciclista per reagire di conseguenza (dal metro e mezzo di distanza obbligatoria per sorpassare, fino ai limiti di velocità ridotti in orari di forti flussi ciclistici, o all’obbligo di considerare il gruppo come un tutt’uno e quindi attendere il passaggio fino all’ultimo ciclista nelle rotonde, e molto altro), in Italia invece non si stimola questa cura costante, per cui il ciclista italico o è invisibile o disturba. Se l’occhio non si abitua a guardare sempre con la massima attenzione per individuare ciclisti, pedoni, motociclisti, insomma, la cosiddetta utenza debole, ebbene la probabilità del “non l’ho visto” incrementa esponenzialmente. Non è un caso: è un evento reso possibile o probabile da un contesto. Magari sei controluce, hai fretta, non vedi bene, e se non c’è niente “di grosso” in arrivo, ti butti. Con l’incuranza di chi non sa o finge di non sapere che sta conducendo, a tutti gli effetti, una potenziale arma omicida.
Il Presidente della Federciclismo dichiara che per Scarponi si è trattato di un “destino scritto male”: ad essere scritto male è il codice della strada italiano. “Si sta lavorando”, dice Di Rocco: ma è in carica da dodici anni e mentre in questo stesso periodo altre nazioni hanno fatto passi da gigante sia nella pratica ciclistica, sia nella sicurezza, noi arranchiamo nella prima e sprofondiamo nella seconda. Se davvero ci si tiene, sarebbe il caso di fare un gesto di rottura e dare le dimissioni, di fronte a un caso così eclatante. Che cosa ha fatto la FCI, ad esempio, dall’incidente gravissimo di Marina Romoli a oggi? Quali azioni concrete, quali proposte, quali pressioni sulla politica? Incrociare le dita, sperando che non accadesse qualcosa di ancora più grave? Con centinaia di morti all’anno non è questione di auspici, è solo una questione di tempo. Il tempo corre, i ciclisti vengono uccisi. E fare ciclismo diventa sempre più duro perché ancor più dei morti è il non sentirsi rispettati che fa crescere, giustamente, la paura. Michele – lo dichiarò – percepiva un aumento dei rischi e dell’aggressività del traffico, ma rimaneva ad allenarsi in Italia perché amava la propria famiglia e perché amava questo Paese: sarebbe ora che il Paese ricambiasse l’amore che Scarponi e i ciclisti e cicliste italiani di ogni età, passione, velocità riversano sulle strade dell’Italia.
Scarponi non era in doppia fila. Non era passato col rosso. Non parlava con un amico. Non era in gruppo. Non era uno “che crede di essere al Giro”, perché il Giro lui sapeva benissimo che cosa fosse. Non era uno “che si compra la bici da corsa poi non la sa guidare”. Non si prendeva rischi. Non faceva il prepotente. Aveva il casco.
E noi non dovremmo più tollerare queste sciocchezze sulle centinaia di ciclisti che come Michele vengono uccisi da mezzi a motore, per poi subire l’insulto di vedersi colpevolizzati senza alcun fondamento logico.
Se l’Italia fosse un Paese al passo con gli altri, almeno cento, centocinquanta, duecento vite di ciclisti all’anno non andrebbero perse. È pura matematica. E magari, tra esse, anche quella di un grande uomo e grande campione come Michele Scarponi. O magari no, magari sarebbero stati altri “i morti in meno”: il rischio è e sarà sempre parte del ciclismo come della vita, ogni ciclista lo accetta. Ma vogliamo davvero tollerare di rimanere con il dubbio che, se solo avessimo costruito una cultura stradale migliore, lui, Michele, come tanti altri, sarebbe tornato a casa leggero sui pedali?
Gabriele Bugada