QUELLE SANREMO DI SARONNI
Nella settimana successiva alla data della Milano-Sanremo vi proproniano un altro ricordo della classicissima, quello delle edizioni che, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, ebbero tra i protagonisti Giuseppe Saronni, che riuscirà ad imporsi nel 1983 con la maglia iridata sulle spalle
Enzo Tortora fu un grande protagonista della televisione.
Ex baistrocchino (la Baistrocchi, per chi non lo sapesse, è la compagnia goliardica genovese che da quasi un secolo allieta le festività di fine anno), animò la scena televisiva dagli albori e per oltre un decennio fintantoché, esiliato dalla Rai, cercò fortuna dapprima nella Tv Svizzera e, poi, nelle prime reti private.
Nel 1977 ritornò alla grande, proponendo un programma – Portobello – che riscosse un successo incredibile.
La trasmissione andava in onda al venerdì in prima serata. E fu proprio venerdì 17 marzo 1978 che Enzo Tortora presentò alla platea televisiva italiana un ragazzino che l’indomani avrebbe potuto vincere la Classicissima di primavera. Quando Tortora annunciò che si sarebbe passati al ciclismo, chiusi la dispensa sulla “riserva di legge” e mi piazzai davanti alla televisione.
Giuseppe Saronni era un po’ emozionato davanti alle telecamere: un ragazzo di vent’anni che l’indomani avrebbe difeso i colori azzurri alla Milano- Sanremo.
Era pur vero che Michele Dancelli aveva interrotto, nel 1970, il digiuno che durava dal ‘53 e che Felice Gimondi, in maglia iridata, aveva trionfato in Via Roma quattro anni dopo.
Però erano seguite altre vittorie straniere e la Sanremo sembrava destinata ad essere comunque una corsa difficile per i nostri colori. Due successi azzurri in un quarto di secolo non costituivano di certo un gran risultato.
Saronni (forse Tortora l’aveva intuito, da uomo di spettacolo e sport qual era) poteva essere l’uomo nuovo del ciclismo italiano, quello a cui affidare il rilancio del ciclismo dopo la stagione gloriosa degli anni 60/70.
C’era Moser in maglia arcobaleno, è vero, fortissimo nella corse di un giorno, e c’erano Baronchelli e Battaglin, ma a ciascuno sembrava mancare qualcosa per essere protagonista su tutti i terreni.
Quel ragazzino, sul cui valore aveva giurato Colnago, poteva rappresentare la sintesi delle doti necessarie per essere un grande?
Era difficile rispondere. Certamente era prematuro azzardare previsioni, ma il primo anno di professionismo aveva lasciato intravedere ottime cose. Un ragazzo diciannovenne che si aggiudica diverse classiche nazionali e arriva secondo alla Freccia Vallone: un bel biglietto da visita! E se non si fosse procurato una frattura alla clavicola avrebbe potuto essere protagonista anche al Giro d’Italia.
Il ‘78, poi, era iniziato alla grande, con un bel successo alla Tirreno-Adriatico.
Era teso, teso ed emozionato davanti alle telecamere.
Me lo sono sempre chiesto: ma la trasmissione era in diretta o la partecipazione del giovane campione era stata registrata?. Più probabile la seconda ipotesi perché era difficile pensare che un candidato alla vittoria nella classica di San Giuseppe potesse andare a dormire troppo tardi, la sera della vigilia.
Bartali l’aveva fatto, accettando la sfida di Serse Coppi, ma erano altri tempi.
Non era la prima Sanremo, per Saronni. L’anno prima, quando vinse Raas, si classificò al 19° posto.
Ma adesso era diverso, aveva capito che quella corsa si adattava alle sue caratteristiche.
C’era il Poggio, che sembrava fatto apposta per esaltare le sue qualità di scattista. E quand’anche si fosse arrivati in volata (di gruppo o ristretta), avrebbe potuto far valere le sue qualità di velocista.
Non era stato pluricampione della velocità su pista? Dunque, almeno sulla carta, non poteva lasciarsi impressionare dal rettilineo di Via Roma, semprechè lo spunto finale non fosse stato appannato dalla distanza della gara.
Si corse sabato 18 marzo. La televisione (al singolare, allora) e i giornali erano occupati dagli interrogativi sul rapimento di Aldo Moro e sulla strage della sua scorta. Erano passati appena due giorni da Via Fani e anche la carovana osservò un minuto di raccoglimento, prima della partenza.
Un mese prima era scomparso Girardengo: a Novi, quella volta, il Campionissimo non ci sarebbe stato ad assistere al passaggio della sua corsa.
Beppe fu protagonista, quel giorno, quasi volesse dimostrare che Tortora, la sera prima, aveva visto giusto.
Fu una Sanremo caratterizzata da una lunga fuga. Poi, ad una ventina di chilometri dal traguardo, accadde che un comprimario, Alessio Antonini, scattasse dal gruppo.
Fu Saronni, insieme al francese Hézard, a raggiungerlo. Ai tre si aggiunse ben presto un cliente scomodo, Roger De Vlaeminck, quell’anno compagno di squadra di Moser, che già nel 73 si era imposto nella città del Festival.
In quattro affrontarono il Poggio, sul quale Saronni tentò, invano, di liberarsi del belga.
Arrivarono in tre a giocarsi la corsa del sole, perchè nel frattempo Hézard aveva forato.
Ai duecentocinquanta metri finali Beppe, in testa al terzetto e vicino alle transenne, venne affiancato dal fiammingo che lo superò. Antonini, a sua volta, cercò invano di recuperare all’esterno.
Beppe cercò di prendere la ruota dello zingaro, ma smise di pedalare ai 25 metri, quando si accorse che la rimonta non sarebbe stata premiata.
Troppo forte il belga o in quella occasione Saronni peccò di inesperienza?
Fu grande il disappunto del motociclista della telecamera mobile che, forse tifoso del “bimbo”, non riuscì a trattenere un gesto di stizza. Un secondo posto dietro ad un grandissimo, per un ventenne, ci poteva anche stare. Ma quel secondo posto dimostrava, soprattutto, che la Sanremo era adattissima ai mezzi di Saronni. Il giudizio del fiammingo (“Non sempre vince il più forte”) costituiva – se non un passaggio di consegne – quantomeno un buon viatico per il futuro.
L’anno successivo le aspettative erano cresciute. Beppe ne aveva nel frattempo vinte di corse e ormai non era più una promessa. E alla Sanremo (caratterizzata, come al solito, da una lunga fuga), dimostrò di tenerci: appiedato da una foratura, recuperò il distacco riagganciando il gruppo dei migliori.
In fondo alla discesa del Poggio, arrivò un gruppo neppure troppo numeroso. C’era Saronni, ma c’era ancora De Vlaeminck. Forse Beppe preferiva evitare il confronto con il belga – la sconfitta dell’anno precedente bruciava ancora – o forse preferiva la soluzione isolata.
Cercò di allungare, ma Moser si preoccupò di andarlo a riprendere: la rivalità tra i due era già un dato di fatto.
Poi, inaspettatamente, ci provò Beccia. Lo scalatore pugliese – che spesso si lamentava con gli organizzatori del Giro d’Italia per i percorsi troppo morbidi – giocò la carta della sorpresa. Si presentò in Via Roma solo al comando ma, in breve, fu risucchiato dagli inseguitori. Saronni stavolta prese la ruota di De Vlaeminck, uscì alla sua sinistra ma non riusci a rimontarlo. Il belga vinse così, senza discussioni, la sua terza Sanremo. Per Beppe si trattò della replica di un finale già visto, in una corsa nella quale era stato anche sfortunato. Si sarebbe consolato nella tarda primavera, aggiudicandosi il suo primo Giro d’Italia. In fondo era molto giovane e chissà quante Sanremo avrebbe corso da protagonista!
Nel 1980 è Francesco Moser ad essere indicato da più parti come il favorito: è in forma, ha vinto la Tirreno-Adriatico ed una vittoria nella Milano Sanremo avrebbe impreziosito un ricco palmarès che, negli ultimi due anni, si era arricchito con le vittorie nella Parigi-Roubaix (ne aveva già conquistate due consecutivamente e in quella stagione arriverà la terza affermazione)
La corsa fu caratterizzata da una lunga fuga di tre coraggiosi (Tosoni, Bertacco e De Beule, gli ultimi due raggiunti in vista del Poggio, dopo 251 chilometri di fuga).
Sull’ultima salita tentarono di involarsi Vandenbroucke e Bortolotto, ma senza risultati.
In discesa cercò la soluzione a sorpresa Pollentier, ma lo sgraziato vincitore del Giro del 1977 venne ripreso all’ultimo chilometro. Beppe, che non tentò di involarsi sul Poggio, accettò nuovamente la sfida con De Vlaeminck e non solo con lui.
C’erano anche Raas, che cercava il bis, c’era Kelly e anche Moser era della partita.
E c’era anche “Pierino” Gavazzi, il velocista bresciano che pareva destinato, con i suoi 98 secondi piazzamenti, a raccogliere tutt’al più un’altra piazza d’onore. In quel consesso non sarebbe stato un risultato disprezzabile.
Fu un arrivo al cardiopalmo che ricordava quello di un’altra Sanremo, quello dell’edizione del 1966, la prima di Merckx, quando si avventarono sul traguardo in quattro (oltre al giovane fiammingo c’erano Durante, Van Springel e Dancelli).
Raas scelse una volata solitaria sul lato destro della sede stradale. Al centro c’era Gavazzi, sulla sua sinistra Saronni e verso le transenne Kelly. Moser e De Vlaeminck erano appena dietro.
Stavolta per Beppe sembrava fatta. Pur in rimonta, non riuscì tuttavia a piegare la resistenza di Gavazzi che, con un ultimo disperato colpo di reni, mise – seppur di pochissimo- la sua ruota davanti a quella del “bimbo”.
Solo allora Saronni si ricordò che Pierino l’anno prima, al Giro della Campania, gli aveva soffiato la vittoria per un niente.
Un’altra beffa, per Beppe, la terza in tre anni. Questa volta per De Vlaeminck, preceduto anche da Raas, non ci fu posto nemmeno sul podio, ma non fu sufficiente battere gli stranieri.
La Sanremo, la corsa che aveva sempre sognato di vincere, non riusciva ad essere sua, quasi che gli si volesse negare un regalo per il giorno del suo onomastico. Fu rimproverato, quella volta, d’essere stato troppo coperto, di non avere provato ad andarsene sul Poggio. Tre secondi posti in tre anni consecutivi. Neppure le sette vittorie al Giro, neppure la maglia tricolore che indosserà ad Arezzo riusciranno ad attenuare la delusione.
Nei due anni successivi Saronni sembra rinunciare alla Sanremo.
Nell’81 pare più preoccupato a controllare Moser sul Poggio (e Moser controlla sua volta Saronni): i due si rendono protagonisti (in negativo) di una manfrina che irrita gli appassionati, mentre la Classicissima stavolta va ad arricchire il curriculum del tedesco Alfons De Wolf, che l’anno prima si era imposto anche al Giro di Lombardia.
Nell’82, in una giornata autunnale, Beppe si ritira sul Turchino nella prima Sanremo che prevede la salita della Cipressa e che andrà a terminare con l’approdo della fuga da lontano e la vittoria dell’occhialuto francese Marc Gomez. Discorso chiuso con la Classicissima? No, soltanto rimandato all’anno succesivo.
Quel sabato 19 marzo del 1983 era una giornata calda. C’erano anche allora, mica solo oggi!
Era bello pedalare sulle strade che, di lì a poco, sarebbero state percorse dai corridori.
Al ritorno decisi di andare a vedere il passaggio della Sanremo in fondo alla discesa del Turchino, nei pressi di Mele, là dove la strada disegna una serpentina di tornanti prima di affiancare il torrente Cerusa, dirigersi verso Voltri e imboccare l’Aurelia, tra il profumo del mare e quello della focaccia.
Lo vidi bene Beppe, con la maglia iridata. La speranza di vederlo primo in via Roma c’era, eccome. Ma era in qualche modo affievolita dai risultati degli anni precedenti.
Poi, come un rito che si rinnovava da anni, a casa per la telecronaca.
C’era già il colore, ma quello scatto vissuto in bianco e nero aveva un sapore antico. Scattò alla maniera dei grandi, come Merckx, si disse. Non deve apparire troppo azzardato il paragone con il campione belga il quale disse che Saronni, diventato veramente un campione, era partito sullo stesso tornante dove lui, il Cannibale, nel 72 aveva piantato Motta e Pettersson.
Sul Poggio Beppe parve proseguire la volata di Goodwood, e quella del Lombardia e, ancora, quelle di tante corse che lo avevano visto primeggiare
Si presentò a Sanremo da solo e in Via Roma, per la prima volta, alzò le braccia al cielo, scrollandosi di dosso i fantasmi di De Vlaeminck, di Gavazzi e di tutti gli altri avversari.
Una vittoria maiuscola, che non mancò di suscitare commenti lusinghieri, alcuni addirittura trionfalistici.
Doveva essere la sua quarta vittoria. Fu invece la prima che arrivò, come scrisse il vicedirettore della Gazzetta Bruno Raschi, “in una maniera che chiude la bocca, che toglie il respiro, direi, a coloro che lo avevano battuto.”
Francesco Moser, che era passato per primo sul Turchino e che aveva infiammato la corsa sulla Cipressa transitando in vetta al comando, riconobbe l’efficacia dello scatto perentorio dell’avversario, pur non nascondendo la convinzione di essere stato, in quella giornata, più forte del rivale. Sarebbe stato bello vederli duellare in volata ma Saronni, con uno scatto irresistibile, da purosangue, ci negò quella soddisfazione.
Fu un trionfo, in una giornata caratterizzata da una cornice di pubblico che non si era mai vista sulle strade della Sanremo: da Milano a Pavia, da Novi a Ovada, sul Turchino e sulle strade della Riviera un milione e mezzo di persone – si disse – applaudirono i corridori.
Ed io ero euforico quella sera. Se ne accorsero anche i miei amici quando, dopo una serata al cinema (Sapore di Mare, era il film, quello con il riferimento al successo di Gimondi al Tour de France) andammo in birreria.
“Ma che ti è successo, Mario?” mi chiedevano. “Ma non l’avete visto Saronni?” rispondevo eccitato.
L’indomani mattina, con Corrado e Paolo, feci un‘uscita in bici. La salita di Sant’Apollinare, sopra Sori, pur impegnativa ,l’affrontai con grinta, con un entusiasmo che non era stato fiaccato dalle poche ore di sonno. Scendemmo poi a piedi a Pegli passando attraverso una “creuza” (una di quelle che De Andrè, l’anno successivo, avrebbe reso celebri) in mezzo agli ulivi.
“Ma non l’avete visto Saronni?” continuavo a domandare ai miei compagni di pedalata.
Sembrava l’inizio di una lunga teoria di vittorie, per Beppe. Fu ,invece, l’ultimo acuto in una classica monumento prima della vittoria al Giro d’Italia che chiuse un ciclo irripetibile.
Per ironia della sorte, in quella tarda primavera dell’83 si chiuse anche la parabola di Enzo Tortora, coinvolto in una vicenda giudiziaria dalla quale, dopo mille traversie, uscì innocente ma distrutto.
Quando, alcuni anni dopo, si ripresentò sul palcoscenico televisivo, formulò una domanda al suo pubblico. ”Dove eravamo rimasti?” fu il suo esordio.
La stessa domanda avrebbe potuto rivolgere ai suoi tifosi anche Saronni allorchè, nell’86, si riaffacciò alla ribalta del grande ciclismo dopo due anni bui.
Non la fece, ma io sapevo comunque la risposta: eravamo rimasti a quelle “Classicissime”, caro Beppe, quelle perse per un soffio e quella del trionfo.
Eravamo rimasti in quegli anni e ancora oggi, in verità, un pezzo del nostro cuore lo abbiamo lasciato sulle strade di “quelle” Sanremo.
Ne avremmo viste anche di più entusiasmanti, ,ma non sarebbero state quelle dei vent’anni.
Anche per questo, almeno per noi, hanno un sapore speciale.
Mario Silvano