RICORDO DI UNA NUVOLA ROSSA – FELICE GIMONDI
Lo scorso 16 agosto è scomparso uno degli ultimi “grandi” del ciclismo italiano, Felice Gimondi. Lo ricordiamo con le parole di un tifoso che visse gli anni del Gimondi corridore e lo vide in azione per la prima volte sulle strade di casa al Giro dell’Appennino di 52 anni fa
Avevo nove anni quando, al Giro dell’Appennino, lo vidi per la prima volta.
Era il primo ottobre del 1967: una giornata piovosa, nebbia sulla Bocchetta.
Ricordo che, nell’attesa del passaggio della corsa (in località Baracche, un breve falsopiano prima degli ultimi tornanti), i miei genitori conversavano con una coppia di Nizza Monferrato: la signora era tifosissima di Gimondi ed era certa che Felice avrebbe trionfato.
Quando i corridori sbucarono dalla nebbia, Gimondi era alla ruota di Dancelli ed è un ricordo ancora vivo a distanza di oltre mezzo secolo.
“Ha visto Gimondi!”, disse la signora, certa del successo del campione bergamasco, alla sua prima partecipazione al Giro dell’Appennino e che godeva dei favori del pronostico.
Quella volta, però, Felice non riuscì a reagire allo scatto di Dancelli che si involò verso il traguardo di Pontedecimo: Michele si duole ancora oggi che il giorno dopo i giornali dedicarono più spazio all’imprevista sconfitta del campione della Salvarani rispetto alla vittoria in solitaria del bresciano.
La cosa non deve stupire perchè Gimondi era in quel periodo il campione italiano più amato. Da giovane neoprofessionista, due anni prima si era imposti a soli 22 anni al Tour de France; nella stagione successiva si era aggiudicato tre grandi classiche (Parigi- Roubaix, Parigi- Bruxelles e Giro di Lombardia) e nella primavera del 1967 si era imposto nel Giro d’Italia.
La sua era una vittoria attesa ed annunciata: nell’edizione del cinquantenario strappò la maglia rosa ad Anquetil grazie ad una fuga nella Trento- Tirano ed alla “copertura” offerta dagli altri italiani, una sorta di “Santa Alleanza” che all’epoca fece discutere parecchio.
Era un campione completo, come si diceva all’epoca: passista -scalatore e grande cronoman, capace, all’occorrenza, di imporsi in volate ristrette. Adatto sia ai grandi Giri, sia alle corse di un giorno ed apprezzato da subito anche all’estero.
Poi piaceva il suo stile misurato e quella serietà che, a sentirlo parlare al microfono di De Zan, lo faceva sembrare un maturo signore più che un ragazzo di venticinque anni .
Nella primavera del 1968, dopo poco più di tre stagioni tra i professionisti, il suo palmarès è già ricco. Non poteva che essere impreziosito da ulteriori successi, in Italia e all’estero.
Ma quell’anno Eddy Merckx, imponendosi al Giro, dimostrò di essere anche uomo da corse a tappe, dopo aver dimostrato di essere uomo da classiche imponendosi nelle Sanremo del 1966 e del 1967 e nel mondiale del 1967: l’antagonismo nacque in quel momento e Felice fu il naturale rivale designato, considerato che solo lui aveva le caratteristiche – umane e non solo tecniche – per interpretare quel ruolo.
Per Gimondi si apre così il secondo capitolo della sua carriera e sa interpretarlo al meglio, nella consapevolezza che il belga e’ si troppo forte, ma che non bisogna mollare mai e che, se non ci fosse Eddy, spetterebbe a Felice il primato del ciclismo mondiale.
Al Giro del 1969 il belga è escluso dalla corsa per doping e Gimondi, già secondo in classifica al momento dell’allontanamento di Merckx ,si aggiudica il successo finale: come scrisse Ormezzano, non era sua colpa se il secondo fu Michelotto.
Attraverserà anche momenti difficili, il bergamasco. Nel 1970 patisce l’arrivo alla Salvarani di Gianni Motta, proprio il rivale che gli era stato contrapposto negli anni precedenti, e lo considera uno sgarbo, una mancanza di fiducia nei suoi confronti da da parte dei suoi “datori di lavoro”. Al Giro del 1971 delude, pur in assenza di Merckx, ma non si abbatte: è medaglia d’argento al mondiale di Mendrisio, proprio alle spalle di Eddy, lottando allo spasimo con il belga in una domenica d’inizio settembre; l’anno successivo è secondo al Tour, ovviamente sempre alle spalle di quello che è ormai definito il “Cannibale”.
Ma è nel 1973 che la sua tenacia viene premiata. Già al Giro d’Italia ha la soddisfazione di battere Eddy nella cronometro di Forte dei Marmi ed al mondiale di Barcellona conquista la maglia iridata, in quella volata a quattro (con Maertens, Merckx e Ocaña), che a rivederla oggi fa venire ancora i brividi. Quella vittoria sembra il coronamento di una carriera: Gimondi ha 31 anni, è un “senatore” ormai, e sul palcoscenico del ciclismo si affacciano giovani intraprendenti quali Moser, Battaglin e Baronchelli.
Ma Gimondi è capace ancora di stupire: vince la Milano- Sanremo in solitaria nel 1974 e, anche se Merckx è assente, la sua impresa merita solo applausi. Nel Giro dello stesso anno, uno dei più duri e spettacolari del dopoguerra, è ancora terzo alle spalle di Merckx e Baronchelli.
Nel 1975 corre il suo ultimo Tour, concludendo al settimo posto nella generale.
Sembra che sia ormai vicino il momento di appendere le scarpette al chiodo ed invece, nel Giro del 1976, conquista inaspettatamente la maglia rosa e l’Italia del pedale torna ad entusiasmarsi per le gesta del campione di Sedrina.
È vittima di una caduta nella tappa di Longarone, ma il gruppo rallenta e lo attende, un gesto di rispetto e di riguardo. Alle Torri del Vajolet perde la maglia rosa a favore di De Muynck e la bella favola sembra svanire.
Si decide tutto la mattina di sabato 12 giugno, nella cronometro della Brianza ad Arcore. Gimondi è galvanizzato dalla vittoria in volata ottenuta il giorno prima nella sua Bergamo e De Muynck è malconcio per i postumi di una caduta.
Felice è sospinto dall’affetto e dall’entusiasmo di tutti, recupera lo svantaggio ed il Giro è suo.
Anche Merckx è battuto – finalmente! – in un grande Giro, ed il belga, stanco e con problemi al soprasella, conclude la corsa rendendo onore con la sua presenza alla vittoria del rivale di sempre
“Miracolo a Milano” titola la Gazzetta per l’epilogo di una carriera esemplare.
Da lì a poco avrebbe stupito ancora, conquistando la sua seconda vittoria nella Parigi-Bruxelles.
Vera e propria icona dello sport a cavallo tra gli anni 60 e 70, Gimondi ha attraversato tre lustri della Storia d’Italia: la sua è stata una presenza rassicurante, a fronte dei cambiamenti che interessavano il Paese.
Campione di serietà, di costanza e di sacrificio, con uno stile di vita esemplare: l’anedottica sul suo conto ci racconta che mai si era concesso il lusso di una serata in pizzeria durante la sua carriera!
Ed anche il matrimonio con l’amata Tiziana ha costituito un elemento di equilibrio non trascurabile .
Era un diesel, Gimondi, che faceva della regolarità la sua arma vincente: un artigiano della bicicletta, come si era recentemente definito. Non aveva l’inventiva di Motta, né lo spirito corsaro di Dancelli, né, ancora, lo scatto di Bitossi; eppure con la sua tenacia era sempre presente stupendo, talvolta, per vittorie ottenute grazie a spunti che sembravano non appartenergli.
Con l’avanzare degli anni appariva persino meno serioso, regalando battute sui suoi trascorsi ciclistici e ridendo di gusto – lui, il ragazzo dal sorriso gentile – nel rievocare gli episodi più significativi della sua carriera.
È stato scritto che Gimondi era una sorta di cartolina, di un monumento celebre, famoso in tutto il mondo: ed infatti era proprio cosi, perché anche chi non si interessava di ciclismo ben sapeva chi fosse.
Anche a distanza di quarant’anni dal suo ritiro dalle corse non era infrequente sentirlo citare in occasione di conversazioni aventi ad oggetto le corse odierne: “ Eh, se ci fosse stato Gimondi!”….
Noi, della generazione degli anni 50, abbiamo appreso increduli la notizia della sua scomparsa perché svanisce con essa un pezzo della nostra infanzia e della nostra adolescenza, quando non esistevano i “social” e ci si doveva accontentare della lettura dei giornali e della dirette televisive in bianco e nero. E se i campioni li vedevi dal vivo sembrava un sogno
Come quando, al Giro del 1976, ero sul traguardo di Varazze, il giorno che vinse Moser. Ricordo Felice che, sceso dal palco, si faceva largo con la sua “Bianchi” tra la folla in delirio. La fiammante maglia rosa rendeva ancora più intenso il colorito della sua pelle e pensai che Gianni Brera ci aveva proprio azzeccato coniando l’appellativo di Nuvola Rossa.
O, ancora, al Giro dell’Appennino del 1969 in cima al Passo della Bocchetta, in un’assolata domenica d’agosto. Gimondi scollinò al secondo posto, alle spalle di De Prà, tra un entusiasmo indescrivibile, e poi andò a conquistare il suo primo successo a Pontedecimo, vittoria che poi bisserà anche nel 1972, quando l’Appennino era valido quale prova del campionato nazionale.
Passò accanto alla stele di Coppi e quella volta il sorriso di Fausto, scolpito nel bronzo, sembrò che fosse dedicato al campione di Sedrina, quasi a dirgli: ” Bravo, Felice, continua cosi!” .
Mario Silvano