ABDICAZIONI AD AVORIAZ: DALLE ALPI I PRIMI GIUDIZI (CON O SENZA APPELLO)
Una sporca dozzina approda pressoché unita ad Avoriaz, ammansita dal caldo e dall’Astana. Schleck, ormai unico e inconfondibile (anche nel senso di meno soggetto a confusioni tattiche tra gli interessi propri e del fratello), è il più lucido e frizzante: si prende la tappa e 10″. Ma la notizia del giorno è lo sprofondo di Armstrong.
Foto copertina: l’urlo di gioia di Andy Schleck sul traguardo di Avoriaz (foto Reuters)
Finisce il Tour di Armstrong, comincia il Tour di Armstrong. Il Col della Ramaz spazza via come una scopa di ruvida saggina le ambizioni di classifica del vecchio sovrano, che in una settimana ha dovuto cominciare a pagare i debiti accumulati durante i lunghi anni di regno; sperando in cuor suo, probabilmente, che questi siano gli unici conti che il suo passato torni ad esigere. In sette anni il Tour, inevitabilmente gara bollente, ha offerto una sola volta il gran caldo che dovrebbe contraddistinguerlo: in quel fatidico 2003 in cui solo tanta fortuna e la galanteria degli avversari salvarono la continuità nella serie di vittorie del texano. In sette anni le sue cadute si sono contate sulle dite di una mano, e sempre addolcite da quella buona sorte o da quella cortesia che abbiamo appena citate. In sette giorni, invece, esplode la canicola, e in mezzo a quell’asfissia che fa sudare le palle degli occhi e snudare il petto, piove una gragnuola di stilettate da parte del Caso: la foratura in un momento critico, le cadute sciocche… la polvere della realtà di gara, insomma. Non addomesticabile, non comprabile, anche se per sette anni era stata quasi sempre in vacanza. Il patto col diavolo era un contratto a termine, ed è ormai scaduto. Buon per Lance, l’aver scoperto l’altra faccia Tour, quella più autentica, solo in questo scampolo di carriera. C’entrano forse le notizie da oltreoceano, le prime conferme alla dichiarazioni di Landis: le bici vendute per comprare il doping, costruite appositamente con una complicità più o meno consapevole della Trek; l’ennesima pessima valutazione indipendente sull’uso dei fondi da parte di Livestrong; le regalie all’UCI. L’altra faccia del miracolo economico e sportivo che si affaccia minacciosamente sul palcoscenico. Sicuramente morale e concentrazione ne escono intaccati, ma il cedimento dell’americano, sulla strada, sembra comunque più legato a fattori tecnici; e ai fattori tecnici vogliamo pensare anche per i giorni a venire. Comincia il Tour di Armstrong, dicevamo: non solo perché in un certo senso per lui è cominciata qui una scoperta della verità del Tour, di quell’essenza che rende tale il Tour e che è parsa così a lungo latitare tra il 1999 e il 2005, ma anche perché può iniziare – e ce lo auguriamo di tutto cuore – un modo diverso per affrontare questo specifico Tour 2010. Senza innaturali ambizioni di classifica può essere il momento, con la forma di cui comunque Lance gode e con la sua innegabile qualità di campione, per cercare quello che alla sua carriera è spesso mancato: il gesto di coraggio, di generosità , l’impresa leggendaria. Per una tappa, ormai (ma chissà che…), ma soprattutto per la leggenda, quella leggenda che i numeri non possono regalare. Il principale portale web specializzato in ciclismo, Cyclingnews, ha recentemente stilato una lista dei “dieci momenti memorabili” al Tour, concentrandosi sulla propria memoria personale e quindi sugli ultimi anni: ciò nonostante, e nonostante una certa partigianeria “anglofona” a favore dell’americano, di Armstrong si ricorda il taglio per i prati dopo la caduta di Beloki. Di Pantani due vittorie. Coraggio Lance, è il momento di lasciare un’impronta sulla Luna, in quel luogo del mito dove non c’è vento a cancellare le tracce che si lasciano.
La cronaca odierna racconta poco altro, di succoso; la tappa è dura, tre colli in rapida successione nel finale – di cui due “veri” – e un caldo che stritola. Nonostante l’assenza degli abbuoni (mai abbastanza deprecata! Un errore puramente sciovinistico dell’organizzazione) che facilita la riuscita delle fughe, non c’è scampo per i coraggiosi di giornata (i più resistenti che citiamo per onorare tutti saranno Morenhout, Aerts e Moinard, ripresi sull’ultimo colle) come non c’è scampo per la maglia gialla di Chavanel. Verdetti inevitabili quando c’è montagna vera, anche se non estrema, e vagliando i valori in campo la scrematura non mancherà , almeno “da dietro” come è tradizione oltralpe. Sulla Ramaz tirano Sky e Saxo, poi l’Astana prende le redini con Navarro e Tiralongo monumentali, aiutati nell’interludio tra i Gpm principali da un Vinokourov che dimostra la propria dedizione stringendo i denti, staccandosi inizialmente, rientrando e quindi profondendo uno sforzo ultimo. Quando però Contador fa lavorare la squadra non sempre è un buon segno, in passato abbiamo visto che la richiesta di un ritmo elevato ai propri uomini è stata mirata più a evitare scatti che a lanciarsi in prima persona. Trascorrono così i km verso la vetta nella vana attesa di qualche spunto; ci prova solo Joaquin Rodriguez al culmine del tratto più duro, ai meno 8, ma gli encomiabilissimi uomini gialloceleste lo riconducono alla ragione (e lo sforzo verrà accusato dal coraggioso scattista con una trentina di secondi ceduti all’ultimo km). Il gruppetto resta peraltro numeroso, sulle quindici o venti unità , a dire di un ritmo sostenuto ma senza fiammate. Sull’andamento di gara tanto monotono tuttavia potrebbe aver pesato un altro fattore, oltre al controllo Astana: l’altimetria ufficiale proposta da ASO è errata, e riduce a 400m i due km di falsopiano finale. Quando si scatenano gli “scatti”, ai meno due, la pendenza resta stabilmente sotto al 4%. Un particolare dilettantistico da parte degli organizzatori, da sempre carenti sotto questo profilo, e la cui incidenza non sarà certo stata abnorme, che però non rende onore ai francesi.
Alla fine saranno dodici gli uomini che arriveranno pressoché uniti: la coppia Liquigas con Basso e Kreuziger, quella Rabobank con Menchov e Gesink, Samuel Sanchez e Van den Broeck come outsider, Schleck, Evans e Contador apparsi come i più robusti e autorevoli, Leipheimer coperto, Sastre e Rogers a lungo in difficoltà ma capaci di tenere fino in fondo (l’australiano HTC in verità perde le ruote proprio agli ultimi 100 metri, ma è poca roba). Al contrario si erano a lungo difesi ma scompaiono quando il ritmo cresce Vinokourov, Kloeden, la bella coppia di giovani Footon Servetto formata da Capecchi e Valls, Hesjedal coi galloni di capitano cascatigli in testa sul campo, Luis Leon Sanchez (tra i primi a patire un fuori giri).
Come dicevamo la bagarre, o per meglio dire una parvenza di essa, inizia ai meno due: tenta Van den Broeck, tenta Kreuziger, tenta Gesink, Contador risponde sempre ma non sempre per primo, sembra patire qualche affanno. Schleck forse si mangia le mani per non avere avuto il carattere di agire prima, o forse è ancora timoroso e incerto, ha paura che come a Verbier una mossa propria si trasformi in una musata controproducente. Infine va via veemente, e Contador – come si poteva già leggere tra le righe – tira i remi in barca. Risponde solo Samuel Sanchez che si riporta sul lussemburghese con una di quelle accelerazioni nel finale che lo caratterizzano. Sembrerebbe scontato l’esito della volata, non solo il corridore Euskaltel è più rapido e cattivo, ma dovrebbe anche essere meno interessato a tirare fino alla linea per guadagnare tempo. Invece l’ansia o la stanchezza giocano brutti scherzi, Samuel è in trance agonistica e si fa tutto il km finale in testa come un’anatra in testa allo stormo… e in quanto tale viene impallinato da Andy che si porta a casa la tappa e quei dieci secondi che fanno poca classifica e tantissimo morale.
Oltre ad Armstrong abdica dunque, ma in modo meno irreparabile, l’inattaccabilità di Contador. Vedremo se è una tendenza destinata a trovare conferme, e se così sarà Andy non dovrà patire troppi rimpianti, con tutte le salite disponibili, oppure se è stato un accidente di giornata, e in quel caso l’attendismo rischia di costare caro a chi non ha approfittato delle sofferenze dello spagnolo. Vada come vada, avrà ad ogni modo di che pentirsi chi in Belgio ha ritenuto di assoggetarsi ai diktat di Spartacus. Resta molto aperto lo scacchiere tattico, con svariati pretendenti apparsi all’altezza, sebbene non al vertice, e con un’Astana propostasi come la squadra più valida (a parte forse Radioshack che però ha perso la testa coronata). Con il bel tracciato di questo Tour c’è spazio per divertirsi come invece non ci siamo divertiti oggi, sempre che tra quei magnifici dodici si metta assieme almeno un cuore o un fegato, il necessario insomma per sparigliare gerarchie che cominciano a delinearsi sempre più chiaramente.
Gabriele Bugada