ADDIO, ALFREDO
Si è spento a Sesto Fiorentino, a 93 anni, Alfredo Martini. Professionista tra il 1941 e il 1957, fu commissario tecnico della nazionale italiana dal 1975 al 1997, guidando Moser, Saronni, Argentin, Fondriest e Bugno al titolo mondiale, e soprattutto figura di riferimento del ciclismo italiano fino alla sua morte. Unanimemente commosso il ricordo del mondo del ciclismo.
È noto come la morte di una persona porti a rivedere e talvolta ribaltare giudizi e opinioni, provocando quasi sempre alluvioni di superlativi ed elogi di circostanza. Un’abitudine malsana; non soltanto per la sua profonda disonestà intellettuale, ma soprattutto perché rischia di far suonare ripetitivi e retorici anche i ricordi più sentiti e affettuosi. Eppure, sebbene le parole che hanno commentato in queste ore la morte di Alfredo Martini siano le stesse di altre circostanze, per una volta non ci sfiora nemmeno l’idea di dubitare della loro sincerità .
Nessuna figura, per quanto a chi scrive sia dato di ricordare, è stata oggetto negli anni di ammirazione, affetto e addirittura riverenza quanto la sua. Anche dopo essere sceso dall’ammiraglia della nazionale italiana, nel 1997, Martini ha rappresentato un’autorità ben al di là dei suoi ruoli istituzionali (supervisore delle squadre nazionali e Presidente Onorario della Federazione Ciclistica Italiana). Commentare la sua morte risulta quasi surreale proprio perché la sensazione è che sia venuta meno una di quelle presenze su cui poter sempre contare, benché le notizie sulle sue condizioni di salute non fossero incoraggianti, e obbligassero ad immaginare che stessero per terminare i giorni in cui avremmo ascoltato la sua voce pacata ma lucida e acuta, così attuale pur essendo figlia di un ciclismo antico.
Un ciclismo del quale Martini fu protagonista in sella, molto prima di diventare, per tutti, il c.t. per eccellenza. Professionista dal 1941 al 1957, fu lui il meno lontano da Coppi e Bartali nella Cuneo – Pinerolo del ’49, a 19’ da Fausto e poco più di 7’ da Gino, dodici mesi prima di salire sul podio finale del Giro 1950, dietro Koblet e Bartali, conquistando la tappa di casa, a Firenze, e vestendosi di rosa per un giorno. Non un fuoriclasse, insomma, ma ben più di comprimario, come attestato anche dalle vittorie al Giro dell’Appennino 1947, al Giro del Piemonte 1950 e di una tappa del Tour de Suisse 1951.
Di certo, però, il Martini che tutti ricorderanno sarà quello alla guida della Nazionale, dove approdò nel 1975, dopo due parentesi di successo sulle ammiraglie della Ferretti, sulla quale vinse il Giro 1971 con Pettersson, e della Sammontana. Sotto la sua gestione arrivarono 6 dei 19 titoli mondiali della storia azzurra (Moser a San Cristobal nel 1977, Saronni a Goodwood nel 1982, Argentin a Colorado Springs nel 1986, Fondriest a Renaix nel 1988, Bugno a Stoccarda e Benidorm nel 1991 e nel 1992), oltre a sette secondi posti e sette terzi, spesso conditi da amare delusioni (vengono in mente Moser al Nürburgring, Saronni a Praga, Bugno a Utsunomiya), ma sintomo di una competitività costante e di una straordinaria capacità di far coesistere corridori ugualmente ambiziosi e non sempre animati da amore reciproco.
L’epilogo dell’era Martini in Nazionale fu più amaro del giusto, a seguito di due Mondiali sfortunati e avvelenati dalle polemiche come quelli di Lugano – perso malgrado un Bartoli in giornata di grazia – e di San Sebastian, quando proprio il pisano lamentò la scarsa collaborazione ricevuta dai compagni al termine di una gara nella quale lui e Tafi, l’altra punta azzurra, pensarono più alla marcatura reciproca che a quella degli avversari.
Quello del 1997 fu però, di fatto, un addio solo ufficiale alla maglia azzurra, giacché Martini rimase consigliere di fiducia dei suoi successori, primo fra tutti Franco Ballerini. Lo stesso Davide Cassani, che Martini non è riuscito a vedere all’opera, fu suo prolungamento in corsa in nove campionati del mondo.
Anche negli ultimi anni, Martini non ha mai lasciato il ciclismo, continuando a seguirlo in prima persona, anche in virtù di quell’amore per il viaggio che si traduceva in una passione per la letteratura in contraddizione con tanti luoghi comuni sui corridori del suo tempo. Ha fatto appena in tempo a seguire da casa il successo al Tour de France di Nibali, corridore da lui particolarmente apprezzato, forse anche per quello stile di corsa all’antica che rimandava proprio ai tempi del ciclismo a lui più caro
Il pensiero che Alfredo Martini abbia potuto dedicare una vita lunga e piena alla bicicletta che tanto amava basta a farci ripensare a lui con un sorriso, ma non ad allontanare la malinconia per non poter più attingere alla sua saggezza.
Matteo Novarini