L’EMILIA DEI 100 ANNI SI REGALA TRE GIOVANI PROMESSE
Il Giro dell’Emilia festeggia il centesimo compleanno “invitando” sul podio tre giovani promesse del ciclismo: Gesink, Fuglsang, Lovkvist, “carnedi” per chi non frequenta il mondo delle due ruote, sono i grandi protagonisti dell’edizione 2009 e lanciano l’Emilia nel suo secondo secolo di vita. I loro nomi si affiancano a quelli delle “stelle” che dal 1909 brillano sul cielo felsineo, da Pavesi a Di Luca, passando per gli astri di Girardengo, Coppi e Moser. Stavolta, invece, le “stelle” sono rimaste a guardare….
Buon compleanno, Giro dell’Emilia. La multiforme creatura a pedali bolognese compie cent’anni e soffia sulle candeline nel migliore dei modi, per un’arzilla corsa centenaria: con uno sguardo al futuro. A chi non possiede una mascella allenata a masticare ciclismo, il podio odierno potrebbe persino sembrare pullulante di Carneadi. State sicuri, l’organizzatore Adriano Amici s’è stropicciato gli occhi. Sul gradino più basso, Thomas Lovkvist, 25 anni, svedese della Columbia. Al secondo posto, Jakob Fuglsang, 24enne danese alla corte di Bjarne Riis. Svetta su tutti, anche in centimetri, Robert Gesink, classe ’86, tulipano della Rabobank. Minimo comun denominatore? Oltre ai geni nordici e alla statura (dato non secondario su cui torneremo dopo), la giovane età.
Si allungano le ombre, in cima al Santuario della Madonna di San Luca, vetta d’una salita belga nella durezza. Il tramonto favorisce interrogativi che vanno oltre l’orizzonte. Che questo podio simboleggi l’inizio d’una nuova epoca per il ciclismo? Che il caloroso pubblico bolognese (trepidante per ore nel punto più duro dell’ascesa, le Orfanelle) non abbia assistito ad una giornata, a suo modo, storica? Andiamo con ordine.
Storica, nel suo piccolo, lo è certamente perché si festeggiava il Centenario. Quanta acqua è passata negli argini del Reno da quel 5 settembre 1909 quando nello stesso battistero (Ippodromo Zappoli) del Giro d’Italia nasceva quello dell’Emilia, confermando che Bologna sarebbe stata maledetta per Luison Ganna. Se al Giro, infatti, il primo vincitore della corsa della Gazzetta, causa acquazzone, era scivolato prima d’entrare nel catino finale, a settembre lo infilza Eberardo Pavesi, come lui lumbard, detto l’Avvocato e parte della cerchia di corridori, con Galletti, detta “i Tre Moschettieri”.
L’albo d’oro del Giro dell’Emilia s’arricchisce poi di nomi illustri, pure alternando periodi bui in cui corrono i dilettanti. L’inserimento, però, nel calendario del Campionato Italiano le garantisce partenti di lusso e battaglie all’arma bianca. Si scalano vette allora impervie come la Masera (sopra Porretta) o l’Abetone. Girardengo compie imprese, Binda mai vi riesce. Coppi trionfa in un’edizione monstre come quella del ’48, 304km con l’Abetone e 8 ore di pugnalate nei garretti, Bartali fima una doppietta a 37 e 38 anni. Poi si va avanti con Baldini, Dancelli, Zilioli, Motta, Moser quindi arrivano gli stranieri con nomi da capogiro (Merckx nel ’72 e De Vlaeminck nel ’76), sino alla tripletta di Davide Cassani, al double di Bartoli e al fiore del ciclismo (e, ahimè, della farmacia) contemporaneo: Boogerd, Ullrich, Simoni, Basso, Rebellin, Schleck e Di Luca.
Tutto questo per dire una cosa: a Bologna hanno sempre vinto i campioni. Alfredo Martini ha individuato un’interessante chiave di lettura. “Il Giro dell’Emilia ha mantenuto il suo fascino perché ha saputo tenere il passo dei tempi”, ha detto il decano del ciclismo nostrano. E infatti le sedi d’arrivo sono cambiate al ritmo del meteo britannico: dal 1909, ben dodici vie diverse, rimanendo a Bologna, andando a scegliere percorsi mai banali, con irti colli e discese a capofitto. Continua Martini: “La gente ama la salita, si va a mettere anche sui cavalcavia, quando passano i corridori. Arrivare a San Luca ha permesso di mantenere intatto l’amore per questa corsa”. In questo, il Giro dell’Emilia è una corsa moderna, quasi all’avanguardia, sebbene, volesse diventare davvero dura, dovrebbe proporre qualche metro di dislivello in più (ieri meno di 3000m), oltre al pur mortifero circuito del San Luca (da scalare cinque volte).
Ancora non siamo arrivati al nocciolo della questione. Perché proprio il Giro di ieri sembra essere stato storico? Innanzitutto, per il tipo di atleti che hanno vinto. Il ricambio non è soltanto generazionale. Il ricambio è, vien da dire, fisiologico. Non nel senso dell’inevitabilità ma per sottolineare il fisico dei tre fusti sul podio. Alti, slanciati, potenti. Gambe da modelle, rapporti da capogiro. Gesink sfiora i 190cm, Fuglsang è alto 184cm, Lovkvist poco di più. Hanno le loro differenze, come le cosce toniche dello svedese e le sorprendenti gambe da fenicottero di Gesink, quasi privo di rotondità della coscia ma il salto rispetto al passato è netto e sorprendente. Ieri vincevano Di Luca, Rebellin, Basso, arrivava secondo Kolobnev, Cunego rischiava il piazzamento. Son pur sempre corridori moderni (Basso a parte) ma la nouvelle vague li ha già resi pezzi d’antiquariato. Registriamo: il ciclismo sta cambiando pelle. Riflettiamoci.
Anche dall’età che hanno, s’intuisce come di essi sia il regno del ciclismo. Gesink, alla prima vittoria stagionale, è in costante ascesa, sin dal settembre 2007, quando stupì tutti al Giro di Polonia con uno scatto illuminante sui Carpazi. “Ho sempre avuto tanta sfortuna”, dice il giunco olandese. “Quest’anno, dopo il terzo all’Amstel, ho patito un fastidio muscolare che mi ha pregiudicato il resto delle Ardenne. Al Tour sono caduto nella prima settimana, mentre alla Vuelta ero ben piazzato in classifica ma sono saltato nella tappa del Navacerrada”. Il suo ingresso nel parterre de roi non sarà un’irruzione ma un assedio graduale.
Chi invece brucia le tappe è il danese Fuglsang. 24 anni ma debuttante, viene dal mondo della MTB, dove ha vinto l’iride under 23 due anni fa, mentre quest’anno ha fatto suo il Giro di Danimarca. Il pollaio è quello di Bjarne Riis, che ogni anno tira fuori dal cilindro l’immancabile coniglio (pulcino, pardon). Almeno il ragazzo è simpatico, fantasioso. “Mi piace inventare: qui in Emilia, i gradi di capitano erano equamente divisi con Sorensen e Kolobnev, per questo ho deciso di attaccare da lontano. Nel ciclismo, devi andare alla montagna, non aspettarla”. Parole sante, in tempi di gretto conformismo a pedali. E difatti, il danese dalle spalle a pagoda è stato il più forte in salita, lanciando l’attacco a 20km dall’arrivo, terzo passaggio sul San Luca, fatto rarissimo in una corsa al bilancino come questa. Ha ancora da imparare: nel finale, è scattato troppo presto. “Sono in Italia per questo”, dice in un italiano dantesco. “Il vostro paese me l’ha fatto scoprire la Cannondale, con la quale correvo nella MTB. Ora vivo ad Assisi e con altri corridori ho fatto una piccola comunità: mi alleno con Kreuziger, Pietropolli, Belloni, Rasmussen”
Pure Thomas Lovkvist scala rapido il colle della notorietà. Con l’Italia pare avere un conto aperto: vinta l’Eroica, s’è piazzato in due edizioni della Tirreno, ha indossato la maglia rosa nella prima settimana del Giro, ora promette un grande Lombardia, come tutto il podio, d’altronde. Sulla probità dello svedese, zazzera da indie rocker e bocca alla Cameron Diaz (è un complimento), giura Marco Pinotti: annotiamo. Dietro a lui, sul San Luca, il vuoto. a 20” è arrivato Evans, tornato dopo i miracoli a rassicuranti errori di tempistica. Ne aveva a damigiane ma s’è mosso solo nell’ultimo giro, quando ormai aveva 30” di ritardo. L’accelerazione, però, ha fatto sgranare gli occhi. Un po’ a tutti: al redivivo Vinokourov, coi tre pargoli in fuga ma schiantato nel finale (meno male) come allo sfiatato (da una corsa tiratissima) Kolobnev ma, soprattutto, ai disarcionati Basso e Cunego, fuori dai dieci facendo spallucce: “Ero qua per allenarmi in vista del Lombardia”. Petronio (il romano, non il santo), che di eleganza se ne intendeva, avrebbe da ridire. Non era meglio puntare, sin dal mattino, sulla sorpresa, ovvero con l’ottimo Tiralongo (10°)?
Federico Petroni