LA CADUTA

ottobre 23, 2012
Categoria: Approfondimenti

Lance Armstrong ha perso tutto, a cominciare dai sette Tour. L’UCI ha infatti deciso di seguire la linea dettata dall’Usada, togliendo all’americano i trionfi conseguiti in Francia fra il 1999 e il 2005. Probabile che le edizioni restino senza vincitore, anche se per una decisione definitiva bisognerà attendere venerdì. Al corridore che ha marchiato a fuoco gli anni 2000, persi anche i contratti di sponsorizzazione con la Nike, resta soltanto l’onta della squalifica.

Foto copertina: Lance Armstrong brinda nel giorno del suo settimo trionfo al Tour de France (foto Roberto Bettini)

Lance Armstrong non è mai esistito, almeno non per il Tour. Per gli anni fra il 1999 e il 2005, nell’albo d’oro della Grande Boucle resterà un buco nero di sette edizioni, a meno che venerdì l’UCI non decida – contrariamente alle previsioni – di riassegnarli ai secondi classificati. Una scelta che la tradizione suggerirebbe ma che il buon senso forse sconsiglierebbe, visto che sei dei sette Tour verrebbero assegnati ad atleti con altre squalifiche per doping alle spalle (Zulle, Ullrich, Beloki e Basso, con Kloden a fare la parte dello studente diligente che paga insieme ai compagni irrequieti).
Questione spinosa, anche perché le positività dei quattro non riguardano le stagioni in questione, ma che non rappresenta la conseguenza fondamentale della sentenza con la quale l’UCI ha ripudiato l’ex pupillo. Tanto più che depennare un corridore squalificato dalla classifica di una corsa non equivale ad annullarne gli effetti sulla stessa, specie se il corridore in questione è Lance Armstrong: uno che la gara la controllava, la addormentava, la scuoteva, la indirizzava e la rivoltava quasi a suo piacimento. Senza Armstrong, quei Tour sarebbero stati semplicemente diversi, se non altro perché l’avvento del texano ha reso diverso – nel bene e nel male – il ciclismo.
La sentenza di ieri significa prima e più di tutto lo sbriciolamento di un mito, di un sogno di rinascita che, sia pur fra controversie e mormorii divenuti negli anni quasi assordanti, rappresentava una delle parabole più affascinanti della storia dello sport: dai primi successi alla carriera stroncata dal cancro, per poi di riemergere dall’inferno e ascendere all’Olimpo, conquistando la gara più prestigiosa del pianeta e riscrivendone ogni record. Nemmeno il meno creativo degli sceneggiatori oserebbe mai scrivere un copione tanto scontato nel suo essere fiabesco, e vedere il tutto accadere davvero ha forse reso cieco chi poteva accorgersi di qualcosa e muto chi qualcosa sapeva.
Può forse essere così spiegato – benché non giustificato – il ritardo con il quale è emersa la verità su quello che era un mito ed oggi soltanto una truffa iniziata quattordici anni fa, quando Armstrong decise che tornare alla vita e allo sport dopo aver vinto un lancio di moneta con la morte non era abbastanza. Delude scoprire cosa è stato disposto a fare pur di arrivare più in alto; dispiace per la verità non tanto per lui, quanto piuttosto per chi da lui è stato ispirato, per chi in lui aveva trovato un modello che si auspica possa rimpiazzare con qualcuno che non sia stato una colossale farsa.
Ci sembra superfluo addentrarci nella discussione di una sentenza che – al di là dei già menzionati tempi biblici – appare difficile contestare nella sostanza; ancor più inutile sarebbe ribadire l’esecrabilità delle azioni di Armstrong, sufficiente a non ispirare la benché minima pietà per l’uomo che viene chiamato a restituire il maltolto e si vede privato di tutto ciò che il suo bluff gli aveva portato – sponsorizzazioni multimilionarie come quella della Nike in primis -.
Più interessante ci sembra invece dedicare qualche parola alla nauseante conferenza stampa di Pat McQuaid, che cavalcando l’ondata di universale sdegno per le acclarate nefandezze dell’americano ha pateticamente provato ad ergersi a paladino della lotta al doping e a profeta di un’epoca nuova e pulita, dove per gli Armstrong non ci sarà più posto. Come se il texano non fosse stato a lungo additato quale esempio da imitare e alfiere di un ciclismo lontano dagli scandali degli anni ’90; come se, soprattutto, fosse immaginabile il ruolo di baluardo della guerra al doping per un uomo che soltanto due anni fa tentava il possibile e non solo per coprire la positività al clenbuterolo di Alberto Contador, salvo poi lavarsene le mani quando la vicenda fu portata alla luce.
Non è la prima volta che delle vittorie vengono revocate, e l’esperienza obbliga a prevedere che non sarà l’ultima; è però difficile trovare un precedente più clamoroso, dalle conseguenze altrettanto enormi. Con i sette Tour se ne vanno tutti i primati che Armstrong aveva riscritto, viene quasi cancellata un’era ciclistica. Pur non pareggiando la grandezza dei Coppi, dei Merckx e degli Hinault, l’americano aveva segnato un’epoca come forse nessuno, rivoluzionando la sua disciplina ben al di là del record di maglie gialle. Armstrong ha rappresentato un nuovo modo di correre, l’applicazione sistematica della scienza al ciclismo, la preparazione del particolare portata all’esasperazione. Mutamenti forse non tutti in meglio, ma che hanno settato per anni un nuovo standard di approccio alle corse, solo di recente in parte accantonato, con la gradevole ricomparsa di corridori completi, capaci e desiderosi di misurarsi su tutti i terreni in tutte le stagioni.
È opinione diffusa che la condanna di Armstrong enfatizzi la già duratura crisi di credibilità del ciclismo. Dissentiamo: per dolorosa che possa essere, ogni squalifica di un atleta dopato segna un passo avanti nella battaglia contro il più grande flagello dello sport. Dello sport – si badi –, perché il doping è pratica tutt’altro che circoscritta al mondo della bicicletta. Mondo che è però fra i pochi a sforzarsi di dare la caccia ai bari e di punirli quando li trova, anche a costo di perdere appassionati, di veder calare l’audience televisiva e di assistere all’abbandono di qualche sponsor. Doloroso, appunto, ma sempre meglio che chiudere gli occhi dinanzi all’evidenza, rinunciando a scoperchiare un vaso colmo di marcio, come è costume altrove. Condannare Armstrong e chiunque nella sua condizione è un passo innanzi sulla via di quello scenario di pulizia che è più lontano di quanto McQuaid preconizzi (soprattutto finché saranno in circolazione soggetti come lui), ma che non è utopia. Perciò goodbye, Lance; non ci mancherai.

Matteo Novarini

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