VUELTA E CICLISMO, PAROLA DI GIOVANNETTI
settembre 15, 2009
Categoria: Approfondimenti
E’ stato l’ultimo ad aver issato sul pennone della Vuelta il vessillo tricolore, un po’ per caso, un po’ per merito. Per caso, perché quel giorno verso Ubrique i senatori del gruppo sottovalutarono la sua fuga. Per merito, perché, comunque, difese sui Pirenei circa 3’30” (mica ore) da Delgado e compagnia (mica gregari). Marco Giovannetti, quando correva, apparteneva alla categoria degli auto-forzati della strada. Gli stessi, per intenderci, che abbracciano nel loro Gotha stacanovisti come Marino Lejarreta, Marzio Bruseghin o Carlos Sastre, di quelli capaci di autodefinirsi eterni perdenti anche in presenza di un oro alle Olimpiadi (Los Angeles, 1984), di una Vuelta e di un Tricolore (1992). Come, appunto, questo milanese per caso e toscano per merito che, a 19 anni dalla vittoria alla Vuelta, si presta per una chiacchierata sul più e sul meno dell’attualità di questa edizione della Ronda iberica, finendo a discutere, inaspettatamente, dei temi caldi del ciclismo moderno.
Come sembra la Vuelta di quest’anno?
Livellata, ma qui non scopro nulla. Posso dire che non è durissima. Come quando vinsi io, nel 1990, c’erano cinque arrivi in salita (Sierra Nevada, San Isidro, Naranco, Valdezcaray, Cerler, ndr) ma non durissimi. A parte la Sierra de la Pandera, è mancata la salita dove fare la differenza, anche se il discorso ricade più sul livellamento. Da Valverde a Gesink, da Sanchez a Basso, da Evans a Mosquera sono tutti vicini, racchiusi in 2’. Non c’è stata una tappa regina che abbia scosso la classifica, ogni giorno è successo qualcosa di nuovo e, in parte, di inaspettato.
Si riferisce alla foratura di Evans a Sierra Nevada?
Sì ma anche all’exploit di Gesink che mi ha davvero impressionato, forse anche perché mi somiglia un po’, alto 190cm, anche se io, ai tempi, arrivavo quasi a 90kg.
Non trova curioso che nel ciclismo del terzo millennio una Vuelta si possa perdere per una foratura? Mi spiego: un tempo le forature erano all’ordine del giorno, parte del mito del ciclismo deriva anche da questo, dal fatto che i corridori erano lasciati quasi soli a loro stessi. Oggi, con i diesse che ti radiocomandano, pare una presa in giro.
Vero: la foratura di Evans in salita che, di fatto, lo ha tagliato fuori dai giochi, è un caso più unico che raro nel ciclismo attuale. Il bello è che non è stata solo sfortuna ma hanno inciso anche la prontezza dell’ammiraglia e, forse, le decisioni sbagliate del direttore della giuria. Avrebbe, almeno, dovuto essere coperto da un cambioruote.
Di qui a Madrid ci sono tre occasioni per destare Valverde dal sogno in oro: Avila giovedì, La Granja (con il Navacerrada) venerdì e la crono di 27km sabato.
Non credo che queste tappe possano fare sfracelli, a meno di crisi improvvise del leader.
Nessuno spazio, dunque, per grandi attacchi?
Mah, non vedo nessuno in grado di fare la differenza: se non ci sono riusciti nelle tappe andaluse… Deciderà la crono, anche se in 27km e a fine Vuelta non si potrà fare una grossa differenza. I numeri ce li avrebbe Evans ma 1’51” è un distacco troppo grande per essere colmato. Basso, poi, è un po’ carente a crono, anche se ha disputato, a mio avviso, una grande Vuelta. Dopo anni un italiano si è rimesso in discussione su queste strade e in più il varesino ha giocato tutte le sue carte, supportato da un’ottima squadra. Gli è mancato il cambio di ritmo, quella potenza che aveva prima della squalifica ma ha comunque vinto una scommessa non da poco: tornare ad essere competitivo in un Grande Giro. Su Gesink, invece, non abbiamo riscontri: chi conosce il suo rendimento dopo tre settimane ad altissimo livello?
Sanchez?
Lo conosco meno, so che è un ottimo discesista ma la picchiata dal Navacerrada non è poi così improba. Mi è piaciuta, però, la sua condotta, non in una tappa specifica ma lungo tutta la Vuelta. Ha saputo gestirsi con intelligenza, è un corridore molto regolare: sbagliava chi lo dava per cotto dopo le prime schermaglie in salita.
E Tiralongo? Come giudica la sua Vuelta? Immeritevole d’una maglia azzurra?
Non fatemi parlare male del mio amico Ballerini. Fa il mestiere di cittì nella nazione più difficile al mondo, dove i talenti abbondano e le maglie son poche. Un cittì deve fare delle scelte. Certo, Tiralongo meritava la convocazione, anche perché il Mondiale sarà duro e di faticatori come lui c’è sempre bisogno, specie se in forma come ora che mira ad entrare nei dieci alla Vuelta. Però credo che la ragione di questa scelta stia nel fatto che Ballerini ha preferito puntare su un gruppo consolidato, che conosce e dal quale si aspetta certi comportamenti.
Torniamo a Valverde: può dormire tranquillo nelle braccia di Morfeo?
Sì, anzi: secondo me, nella tappa di Avila che finisce su uno strappetto, si va a prendere qualche altro secondo di abbuono.
Altro paradosso: si vince la Vuelta grazie agli abbuoni. Non è una situazione ridicola, in un ciclismo sempre più livellato, dove sempre meno spesso si riesce a fare la differenza?
Ci sono sempre stati però, negli ultimi tempi, non mi sembrano il massimo. Levandoli, sarebbe la crono a decidere.
Come, va detto, succedeva ai tempi, quando la crono metteva a nudo i reali valori in campo.
Vero, certo perdere una Vuelta perché si è più lenti allo sprint lascia l’amaro in bocca.
Anche agli spettatori?
Beh, al di là degli abbuoni, lo spettacolo non è mancato alla Vuelta, con tappe molto combattute nel finale e una classifica ancora non delineata alla terza settimana.
Lo spettacolo non sarà mancato nei finali ma assistere alla pantomima dell’Alto de Velefique, tappa da 4500 metri di dislivello e tutti insieme fino alla fine, con lo scatto di Mosquera e la volata di Gesink, toglie al ciclismo la sua essenza di sport-fiume.
L’attendismo è il male del ciclismo attuale. Le tappe sono corte, poco emozionanti nella loro interezza. Succede dappertutto, basta guardare al Giro e al Tour. Manca la fantasia e abbonda il livellamento. Tutto si basa sulla velocità. Si è perso il fascino della distanza e della grande impresa. D’altronde, dove si spera di andare quando ci sono squadroni che tengono sotto scacco l’intera corsa?
Appunto. E ridurre il numero dei corridori per squadra?
Sono favorevole. Ma non ottimista. I calendari sono esageratamente grandi, con pochi effettivi non si riesce ad essere sempre presenti. E’ anche una questione di marketing, di esposizione del marchio. Però certe corazzate come Astana e Columbia ammazzano il Tour.
Dopo il Giro di Svizzera, oligopolizzato da Columbia (6 vittorie) e Saxo Bank (3), molti corridori si chiedevano cosa rimanessero in gruppo a fare?
Il brutto è che, prova una, due, cinque, dieci volte ad andare in fuga e ad essere ripreso ti passa la voglia, ti demoralizzi. In futuro, se certi organici non fossero ridimensionati, la voglia di impresa, di dare battaglia dei guastatori potrebbe essere frustrata. Però non vedo come si potrebbe tornare al passato, una volta fatta una cosa è poi difficile disfarla.
Il ciclismo, dunque, cambia in bene o in male?
Ogni cambiamento ha lati positivi e negativi. Oggi il ciclismo ha guadagnato spettacolo, incertezza, suspense nei finali ma ha perso il gusto delle imprese epiche. Andiamo, anzi, siamo, in un ciclismo diverso.
A cura di Federico Petroni