WHAT A RYDER!
Infliggendo 47’’ secondi a Joaquim Rodriguez nella cronometro conclusiva di Milano, Ryder Hesjedal riconquista definitivamente la maglia rosa, divenendo il primo canadese ad imporsi in una grande corsa a tappe. Salgono sul podio al suo fianco Joaquim Rodriguez, staccato di 16’’, e Thomas De Gendt, che scavalca Michele Scarponi per la terza piazza. L’ultima tappa va a Marco Pinotti, davanti a Geraint Thomas e Jesse Sergent.
Foto copertina: Ryder Hesjedal stringe il trofeo riservato al vincitore del Giro 2012 (foto Bettini)
Era atteso al varco sulle prime grandi montagne. Dopo aver addirittura staccato tutti a Cervinia e ritrovato per un giorno la maglia rosa già indossata a Rocca di Cambio e svestita ad Assisi, la prova del nove era diventata la cavalcata alpina di Cortina. “Vedremo se reggerà sulle pendenze estreme”, si diceva dopo che la sua sagoma vagamente goffa e sempre un po’ scomposta era rimasta incollata a quelle dei ben più attesi avversari sulle rampe del Giau. Dopo aver messo in croce gli scalatori sulle rampe dell’Alpe di Pampeago, si erano gettati dubbi sulla sua capacità di reggere due tapponi consecutivi. Dubbi ancora una volta fugati con una prestazione maiuscola, cedendo appena una manciata di secondi sui tornanti della Cima Coppi. Alla fine, contro tutti i pronostici che fino a ieri lo volevano perennemente sull’orlo della crisi, Ryder Hesjedal ha conquistato il suo Giro d’Italia. Un Giro senz’altro dal lotto partenti tutt’altro che stellare, un Giro spesso poco spettacolare; un Giro, però, che il canadese si è meritato fino in fondo, contenendo i danni dove sapeva di doversi difendere, facendo valere la maggiore attitudine alle cronometro, approfittando del poco credito di cui godeva per rosicchiare qua e là – pensiamo in particolare a Cervinia – pugni di secondi risultati alla fine decisivi.
È stata a conti fatti indolore, in effeti, la riduzione del chilometraggio della cronometro milanese, passata a poche ore dal via, per presunti motivi di viabilità, da 31 km a 28, nemmeno si trattasse di una biciclettata benefica. Hesjedal si è fatto bastare la distanza a disposizione per colmare i 31’’ che lo separavano sulla rampa di partenza da Joaquim Rodriguez, scavalcandolo nella graduatoria virtuale già poco dopo il primo intermedio. Uno sforzo – quello prodotto nella prima parte, probabilmente per evitare che Purito potesse prendere morale – pagato in parte nella seconda metà di gara, quando il divario tra i due si è stabilizzato intorno ai 45’’, comunque più che sufficienti per portare la maglia rosa oltre oceano.
JRo, i cui sogni rosa si sono spenti ben prima di tagliare il traguardo di Piazza Duomo, si è complessivamente difeso meglio del previsto, lasciando 1’56’’ a Marco Pinotti, dominatore di giornata (39’’ rifilati a Thomas, secondo), e soprattutto 47’’ a Hesjedal. Una prestazione non sufficiente a salvare la rosa, ma buona per tenere a distanza Thomas De Gendt, MVP dell’ultimo week-end di corsa, capace di completare senza particolari patemi l’operazione sorpasso ai danni di Michele Scarponi, nell’aria già dall’arrivo dello Stelvio. Il marchigiano è rimasto giù dal podio per 26’’, con Basso, Cunego, Uran, Pozzovivo, Henao e Nieve a completare, nell’ordine, la top 10.
Sono trascorsi diciassette anni da quando Rominger, Berzin e Ugrumov estromettevano i corridori di casa dal podio del Giro 1995; per la prima volta da allora, la Corsa Rosa ha ritrovato una top 3 finale completamente straniera. Un podio senz’altro sorprendente e che molti considereranno modesto, ma che premia corridori che hanno almeno tatticamente portato a scuola i ben più blasonati atleti di casa. Ad eccezione di Cunego, tanto coraggioso quanto a corto di energie nei frangenti decisivi, giustamente premiato da un 6° posto che va al di là della condizione messa in mostra, nessuno ha mai provato a deviare dal copione dello scattino ai -3 dal’arrivo, sperando che gli Hesjedal e i Rodriguez saltassero per aria da soli; nessuno ha fatto un uso della squadra diverso da quello di schierarla compatta in testa per decine di chilometri, da padrone riconosciuto della corsa, salvo poi dimostrare di andare esattamente come gli altri; nessuno ha avuto il coraggio di rischiare di ritrovarsi con niente per provare a prendersi tutto.
Hesjedal, Rodriguez e De Gendt non si erano mai dimostrati fenomeni, e probabilmente non lo sono. Hanno però avuto l’immenso merito di saper cogliere il loro attimo e – cosa ancor più importante e lodevole – di andarselo a cercare dove le pieghe della corsa potevano offrirlo. Quell’attimo che altri – tanto per non fare i nomi di Basso e Scarponi, i primi che vengono alla mente – hanno sperato si materializzasse magicamente da solo.
Matteo Novarini