UN TOUR A DUE FACCE

luglio 26, 2011
Categoria: Approfondimenti

È stato un Tour dai due volti quello conclusosi domenica scorsa a Parigi. Al clima di attesa e all’attendismo delle prime due settimane è infatti seguito un finale pirotecnico, caratterizzato da attacchi in salita e in discesa, crisi e resurrezioni, fino al sorpasso operato da Cadel Evans ai danni di Andy Schleck nella crono finale. Ripercorriamo la Grande Boucle 2011, passando brevemente in rassegna le prove dei principali protagonisti.

Foto copertina: Cadel Evans tra Andy e Frank Schleck sul podio finale del Tour de France (foto Roberto Bettini)

Due settimane di attesa e scaramucce, una di fuochi d’artificio: si potrebbe così riassumere lo sviluppo del Tour de France 2011, in maniera probabilmente troppo semplicistica, ma non troppo distante dalla realtà. Dopo una prima metà di gara in cui la griglia dei favoriti della vigilia è stata alterata quasi esclusivamente da cadute e ritiri e dei Pirenei risoltisi in un sostanziale nulla di fatto, l’ultima settimana ha invece regalato fuochi d’artificio: dall’attacco a sorpresa di Contador sul Col de Manse nella tappa di Gap al sorpasso ai danni di Andy Schleck da parte di Cadel Evans nella cronometro di Grenoble, passando per gli attacchi nella discesa del Pra Martino, l’impresa riuscita a Schleck jr. sul Galibier e quella mancata da Contador sull’Alpe d’Huez.
Elemento unificante delle due fasi è stata la sensazione che Cadel Evans fosse l’uomo più in forma; una sensazione nata già con il 2° posto alle spalle di Gilbert nella frazione inaugurale, suffragata dal successo in cima al Mur de Bretagne e dalla brillantezza mostrata dall’australiano sul Massiccio Centrale, e confermata dalla mai troppo sofferta difesa sui Pirenei, prima che, nella terza settimana, la maggiore solidità rispetto agli avversari e una condotta tattica talvolta rischiosa ma rivelatasi poi sempre azzeccata trasformassero quell’impressione in certezza.
È molto difficile trovare una pecca nel Tour di Evans: è stato il più regolare nell’arco delle tre settimane e il più forte a cronometro, ha corso tatticamente meglio degli altri pretendenti alla maglia gialla (cosa che non sempre era stata tra i suoi punti di forza in passato), e si è tolto anche la soddisfazione di cogliere il primo successo parziale “sul campo” in carriera alla Grande Boucle, dopo la crono di Albi consegnatagli a tavolino per la squalifica di Vinokourov. Non solo, ma Cadel ha messo anche in mostra, sulle Alpi in particolare, una personalità e una sicurezza che raramente avevamo riscontrato negli anni scorsi. Ne sono un esempio lampante l’inseguimento solitario ad Andy Schleck sul Galibier, condotto malgrado una totale assenza di collaborazione, che unita alle pendenze tutt’altro che proibitive del Lautaret rischiava di esporre l’australiano ad attacchi in contropiede, e il piglio con cui nella terzultima tappa Evans ha in prima persona rintuzzato l’azione di Contador e Schleck, rompendo gli indugi a 65 km dal traguardo, e sobbarcandosi larga parte del peso dell’inseguimento nel lungo tratto in fondovalle che conduceva all’Alpe d’Huez. A riprova di questa inedita forza mentale, Cadel ha coronato il suo sogno giallo con la miglior cronometro della sua carriera al Tour, sfiorando il secondo successo di tappa, e rifilando distacchi abissali agli altri favoriti, malgrado un chilometraggio non esagerato e un profilo alquanto mosso.
Così facendo, Evans si è definitivamente sbarazzato della poco ambita etichetta di eterno secondo, che solo la ancora giovane età impedisce di scaricare sulle spalle di Andy Schleck. Il lussemburghese ha raccolto la quarta piazza d’onore in altrettanti Grandi Giri in cui si è trovato a lottare per il successo; e se quella del Giro 2007 era un magnifico modo per rivelarsi al mondo, e quella del Tour 2009 la conferma di un talento già manifestatosi pienamente alla Liegi dello stesso anno, le ultime sono maturate in modo tale da far pensare che non stia certo nelle gambe l’ostacolo che si frappone tra Andy e il primo GT in carriera. Due sono gli elementi di cui Schleck sembra doversi ancora liberare prima di poter compiere il grande passo: il complesso di inferiorità nei confronti di Contador, mostratosi ancora chiaramente sui Pirenei – punto sul quale paiono esserci stati progressi sulle Alpi, ma che potrebbe ripresentarsi tra dodici mesi in caso di un Pistolero di nuovo al top sulle strade del Tour -, e soprattutto l’invisibile filo che sembra legarlo al fratello Frank. Anziché rappresentare un valore aggiunto, la compresenza di due papabili vincitori in seno alla Leopard Trek (e prima alla Saxo Bank) finisce regolarmente per risultare una zavorra, con i fratelli che sembrano più preoccupati di non staccare l’altro che di sbarazzarsi degli avversari. Non pensiamo infatti sia un caso se, nell’unica giornata in cui uno dei due – Andy – ha preso un’iniziativa decisa in solitaria, l’attacco ha rischiato di ribaltare la corsa, scrivendo in ogni caso una delle più belle pagine di ciclismo degli ultimi anni.
Fatale al duo Leopard Trek è stata la condotta spaventosamente attendista mantenuta sui Pirenei, con due frazioni che poco avevano da invidiare a quelle di Galibier e Alpe d’Huez pressoché buttate via tra scatti di 50 metri e controllo a uomo su un Contador palesemente distante dalla forma dei giorni migliori. Certo, le defezioni di uomini quali Fuglsang e Gerdemann, sulla carta pedine chiave in montagna, che non riuscivano però a reggere il ritmo dei pur encomiabili O’Grady e Voigt, può aver mandato all’aria delle strategie più aggressive, ma almeno sulle salite finali si sarebbe potuto e dovuto fare ben di più.
Il marcamento esasperato sulle grandi montagne ha fatto la fortuna di Thomas Voeckler, che ha saputo difendere come nessuno aveva pronosticato la maglia gialla conquistata, non senza un po’ di fortuna (quella legata al rallentamento del gruppo seguito alle cadute di Van den Broeck e Vinokourov), nella tappa di Saint-Flour. Più che le salite alpine, gli attacchi di Schleck e Contador e gli inseguimenti di Evans, è stato il tentativo suicida di riagganciare in solitaria lo scatenato madrileno sul Galibier a costare la vetta della generale all’alsaziano, comunque da considerarsi a pieno titolo uno degli MVP della corsa. Con una condotta tattica più accorta, T-Blanc sarebbe probabilmente salito sul podio, oltre a risparmiarsi la figura barbina rimediata con gli insulti ai tifosi sull’Alpe d’Huez e le accuse di aiuto illecito a Contador rivolte alle motociclette.
Proprio il campione uscente domina incontrastato la classifica delle grandi delusioni del Tour, pur con non poche scusanti: la fatica dovuta al massacrante Giro d’Italia dominato, il tempo perso nella prima settimana, le tante cadute e i problemi al ginocchio. Malgrado ciò, va riconosciuto a Contador l’aver dimostrato, non meno di quanto fatto anche in corse vinte, la propria statura di campione, a suon di attacchi portati più con l’orgoglio che con le gambe nell’ultima settimana, incluso un tentativo folle ma splendido di rovesciare la corsa nella frazione dell’Alpe d’Huez, l’indomani della peggior cotta in carriera in un GT.
Per certi versi simile a quello del madrileno è stato quello di Samuel Sanchez, anch’egli rimasto attardato nella prima settimana per via delle cadute, oltre che di una cronosquadre disastrosa. L’asturiano ha però iniziato ad attaccare sin dai Pirenei, avviando con la vittoriosa azione di Luz Ardiden una rimonta che, alla vigilia dei due tapponi alpini, lo aveva addirittura rimesso in corsa per il podio. Come Contador, Sanchez ha pagato gli sforzi dei giorni precedenti crollando sul Galibier, come Contador si è mosso da lontano nella tappa dell’Alpe, come Contador ci ha riprovato con successo sull’ascesa finale, e come Contador si è visto negare la vittoria di tappa da uno splendido e scaltro Pierre Rolland.
Quest’ultimo rappresenta senz’altro la sorpresa più lieta, specie in chiave futura, per il ciclismo francese, ancor più del quasi-podio di Voeckler. A neanche 25 anni, Rolland, maglia bianca malgrado il prezioso lavoro di gregariato svolto in appoggio a T-Blanc, si candida seriamente a raccogliere l’eredità rimasta vacante dopo il ritiro di Virenque, quando non, limati un po’ i comunque non tragici limiti a cronometro, a provare a riportare la Francia sul gradino più alto del podio al Tour, dove manca dal 1985.
È giunto attualmente invece a soli tredici anni, contro i ventisei dei cugini d’Oltralpe, il digiuno italiano alla Grande Boucle. Ciò che il Tour 2011 ha fatto capire, in tal senso, è che quasi certamente non sarà Ivan Basso ad interromperlo, alla luce di un 8° posto ampiamente al di sotto delle aspettative, per di più giunto al termine di una corsa in calando, dall’ottima prova di Luz Ardiden alla débacle sull’Alpe d’Huez. Considerato che solamente Cadel Evans, tra i papabili vincitori, è più vecchio per pochi mesi del varesino, è difficile ipotizzare per Basso altre chance di coronare il suo inseguimento alla maglia gialla.
Assai improbabile appare anche che il predestinato a far nuovamente sventolare il tricolore sui Campi Elisi possa essere Damiano Cunego, il cui 7° posto finale assume comunque connotati ben più positivi rispetto all’8° di Ivan, ben al di là della singola piazza di differenza. Pur non andando mai neppure vicino al successo di tappa, e malgrado una totale mancanza di intraprendenza a volte abbastanza irritante, Cunego ha comunque mostrato una competitività in salita che gli mancava in un GT dalla Vuelta 2009, tornando a respirare l’aria di alta classifica che aveva assaporato per l’ultima volta al Giro 2007. Senz’altro un buon viatico per una seconda parte di carriera da protagonista anche sulle tre settimane, benché non si possa dimenticare che l’analisi di ogni risultato, di Cunego e di chiunque altro, deve tener conto dello spaventoso numero di ritiri e cadute che ha estromesso dalla corsa al podio atleti quali Van den Broeck, Wiggins, Gesink, Leipheimer, Brajkovic, Kloden, Horner e Vinokourov (e almeno i primi due davano l’impressione di poter decisamente dire la loro).
Forse proprio le cadute rappresentano la vera nota negativa di questo Tour de France, ed è in tal senso interessante notare come, se al Giro d’Italia i corridori giungevano a far modificare il percorso a suon di proteste e reclami contro strade pericolose o presunte tali, alla Grande Boucle il gruppo abbia dimenticato a casa la lingua, accettando in silenzio discese ultra-tecniche e con sede stradale estremamente stretta, finali tortuosi e transiti per i centri di piccoli paesi, lungo vie inevitabilmente tutt’altro che ampie, a pochi chilometri dal traguardo, con il gruppo lanciato a cinquanta all’ora verso finali in volata.
Finali, questi ultimi, che si sono risolti quasi sempre con il solito acuto di un Mark Cavendish quasi ingiocabile, capace di conquistare la prima maglia verde in carriera e i successi di tappa numero 16, 17, 18, 19 e 20 alla Grande Boucle, alla veneranda età di 26 anni. Solamente André Greipel è riuscito, a Carmaux, ad imporsi in un testa a testa con Cannonball, approfittando di un finale tiratissimo che aveva messo fuori causa i vagoni del treno HTC, mentre Farrar e Boasson Hagen hanno fatto tesoro di arrivi anomali per raccogliere un successo a testa allo sprint. Per il resto, le ruote veloci hanno dovuto andare in caccia di successi via fuga; è stata questa, in particolare, la scelta dei due norvegesi, Thor Hushovd e lo stesso Boasson Hagen, con il primo capace di imporsi in solitaria a Lourdes e di bruciare allo sprint a Gap il connazionale, rifattosi ventiquattro ore più tardi a Pinerolo. Il tutto per un totale di quattro successi per i vichinghi, a fronte di appena due partecipanti. Quasi nulla ha invece saputo dire in volata Alessandro Petacchi, unico vincitore di tappa azzurro della passata edizione.
Venuto meno lo spezzino, il contingente italiano è tornato mestamente in patria con 0 successi, complici le rare comparse in fuga degli altri nostri portacolori, perlopiù impegnati in lavori di gregariato. Tra i sacrificati in compiti di fatica si è segnalato Daniel Oss, di gran lunga il miglior gregario di Ivan Basso, lanciatosi anche in qualche volata, con esiti discreti. Unico azzurro spesso protagonista in avanscoperta è stato Marco Marcato, che non ha mai indovinato l’azione giusta, ma ha mostrato in compenso una combattività degna dei tarantolati uomini FDJ.
In una corsa in cui l’attenzione è inevitabilmente focalizzata su uomini di classifica e sprinter, è giusto però spendere qualche parola anche su alcuni cacciatori di tappe che hanno animato le tre settimane francesi. In primis Philippe Gilbert, vincitore sul Mont des Alouettes con annessa prima maglia gialla in carriera, nonché serio pretendente alla maglia verde per larga parte del Tour. Il dominatore delle Ardenne 2011 è stato per due settimane anche protagonista in chiave classifica generale, complice il ritiro di Jurgen Van den Broeck, che ha liberato da ordini di scuderia il vallone e la sorpresa Jelle Vanendert, il più forte in assoluto sui Pirenei. Motivi senz’altro di soddisfazione per la Omega Pharma, che deve però mangiarsi le mani pensando a quali sarebbero state le prospettive del 5° classificato della passata edizione con una spalla di altissimo profilo come Vanendert, sul quale nessuno avrebbe puntato alla vigilia.
Meritano almeno una menzione anche Luis Leon Sanchez, capace di bruciare Voeckler a Saint-Flour, e Rui Faria da Costa, vincitore in solitaria a Super-Besse, dopo aver stoicamente resistito al ritorno di Vinokourov e del gruppo. Servirebbe invece forse un monumento per rendere onore a Johnny Hoogerland, rimasto in corsa per due settimane con 33 punti di sutura dovuti all’assurdo incidente occorsogli ad una ventina di chilometri dal traguardo di Saint-Flour, quando lo scriteriato olandese, perennemente all’attacco, meglio se privo di qualsiasi disegno tattico preciso, pareva finalmente aver indovinato la fuga giusta. L’immagine di Hoogerland che con le bende insanguinate completa ugualmente la 9a tappa resterà probabilmente una delle icone del Tour 2011. Subito dopo Cadel Evans che, ammantato nella bandiera australiana, si gode sui Campi Elisi il tanto agognato quanto meritato trionfo.

Matteo Novarini

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