1960: IL GAVIA, UN MITO NATO TRA LE NUVOLE

maggio 11, 2020 by Redazione  
Filed under News

Nel 1960 Torriani scopre il Gavia, ne rimane folgorato e decide che è giunta l’ora di portare il Giro su quell’impervia mulattiera. L’intero percorso di quell’edizione della corsa rosa ruota attorno a quella tappa, rimasta in bilico fino all’ultimo.Ma alla fine, sistemata la strada, si riesce a correre e saranno Massignan e Gaul i primi eroi del Gavia, anche se poi il Giro andrà ad arricchire il palmarès di Jacques Anquetil, al suo primo acuto in rosa.

Nacque tra le nuvole il mito del Gavia. Il vulcanico Vincenzo Torriani, il ragionere che aveva ereditato da Armando Cougnet la sala dei bottoni del Giro d’Italia e solo sette anni prima aveva portato per la prima volta nella storia la corsa sullo Stelvio, si trovava a bordo di un aereo che stava sorvolando la Val Camonica e rimase colpito dalla “silhouette” di una strada a lui sconosciuta che da Ponte di Legno s’inerpicava verso la Valtellina. Era la stretta mulattiera – larga tra i 3 e i 4 metri – che conduceva al Passo Gavia, una rotabile che era stata concepita per scopi militari e che sei anni si era guadagnata un piccolo spazio sulle cronache dei quotidiani a causa di un tragico incidente nel quale avevano perso la vita 18 alpini, periti a bordo di un furgone militare che dalla strada era precipitato in un burrone. Era una salita che, se fosse proposta oggi nelle medesime condizioni del 1960, con un fondo inghiaiato irregolare ed esposta sui precipizi, farebbe investire l’attuale direttore del Giro Mauro Vegni di una valanga di lamentele; ma non fu così nell’aprile di 60 anni fa quando a Palazzo Sormani Torriani e il direttore della Gazzetta Giuseppe Ambrosini svelarono il percorso del Giro, un tracciato che aveva il baricentro proprio nella tappa del Gavia, anche se non mancavano altri momenti chiave, come le due difficili tappe a cronometro di Sorrento e Lecco.
Ma è sul Gavia che si concentrano le attenzioni perché nessuno lo conosce e per far capire ai corridori a cosa si sarebbe andato incontro l’organizzazione incarica un regista di recarsi sul posto e girare un breve filmato da mostrare ai corridori che il 19 maggio si schierano al via da Roma. Se il Gavia da un lato è il “faro” della Corsa Rosa, dall’altro lato altrettanti “fari” sono i grandi nomi ai nastri di partenza e in particolare i corridori più attesi sono il lussemburghese Charly Gaul e il francese Jacques Anquetil. Gaul il Giro l’aveva già vinto due volte, il primo nel 1956 con la leggendaria impresa sotto la tempesta di neve sul Bondone e il secondo l’anno precedente, quando aveva preceduto di quasi 6 minuti l’altro sfidante, quell’Anquetil che nel 1959 aveva preso parte per la prima volta al Giro e all’attivo aveva in quel momento un Tour vinto nel 1957. Le speranze italiane sono riposte su Ercole Baldini e Gastone Nencini, che il Giro l’avevano vinto nel 1958 il primo e nel 1957 il secondo, mentre nel gruppo serpeggia ancora la nostalgia per la prematura scomparsa di Fausto Coppi che, se la malaria non se lo fosse portato via il 2 gennaio di quell’anno, molto probabilmente sarebbe stato in gara con le insegne della San Pellegrino, la formazione creata nell’autunno precedente, diretta dal suo ex rivale Gino Bartali e che al via schiera il giovane neoprofessionista Romeo Venturelli, notato e voluto in squadra dallo stesso Coppi che l’avrebbe consigliato al meglio, mitigandone quelle intemperanze tipiche dei giovincelli inesperti che purtroppo ne caratterizzeranno la carriera, nella quale il corridore emiliano raccoglierà molto meno di quanto la sua classe gli avrebbe permesso d’ottenere.

Espletate le formalità della punzonatura nella capitale, che quell’estate avrebbe ospitato i giochi della XVII Olimpiade, si parte con una tappa in linea di 212 Km diretta a Napoli, non essendo ancora stati “inventati” i cronoprologhi, le tradizionali brevi cronometro d’avvio che saranno adottate per la prima volta nel 1967. L’arrivo è sulla pista dell’Arenaccia, il velodromo di proprietà del Ministero della Difesa all’interno del quale si presenta un gruppetto di sei corridori che precede di 13” il resto del gruppo e che è regolato allo sprint da Dino Bruni, corridore romagnolo che, a proposito di Olimpiadi, ai giochi di Helsinki del 1952 aveva conseguito la medaglia d’argento nella cronosquadre.

L’incantevole Sorrento ospita il giorno successivo la prima frazione a cinque stelle di questa edizione del Giro, una difficile cronometro individuale di 25 Km, 13 in salita verso il Picco Sant’Angelo, spettacolare belvedere sulla costiera amalfitana, e il restante tratto in complicata discesa per rientrare alla base, dove tutti attendono Anquetil che invece – come successo l’anno precedente nella vicina Isola d’Ischia, dove a crono era stato preceduto a sorpresa di quasi un minuto da Nino Catalano – viene beffato dal pupillo di Coppi per soli sei secondi, con Carlesi 3° a 54”, Nencini 4° a un minuto e il vincitore uscente del Giro Gaul che soffre e perde quasi 2 minuti.

Si riparte con Venturelli in rosa alla volta di Campobasso, ma all’altro capo della tappa – dove a vincere è lo sprinter spagnolo Miguel Poblet – è Anquetil a vestire le insegne del primato perché di traverso ci si mette uno dei colpi di testa di “Meo” che, si dice, la sera prima aveva fatto le ore piccole per festeggiare la vittoria di Sorrento bevendo champagne mischiato con limonata (anche se al momento si parlò di un’avida bevuta d’acqua ghiacciata): partito da re del Giro nel capoluogo molisano il corridore emiliano si ritrova così ricacciato indietro in classifica al quinto posto, con un passivo di 1’20” dal campione francese.

Dopo la facile tappa di Pescara, che vede lo spagnolo Salvador Botella imporsi con 4’30” di vantaggio sul gruppo dopo una fuga protrattasi per oltre 100 Km, suona l’ora delle montagne con l’inedito Passo Terminillo. Che proprio inedito non è perché sul finire degli anni ’30 la “Montagna dei Romani” aveva ospitato tre cronoscalate, ma in quelle occasioni ci si era spinti fin dove la strada consentiva di arrivare mentre ora, completato il collegamento stradale con Leonessa, è possibile giungere sin quasi a 2000 metri d’altezza, quota che svetta nel finale della Pescara – Rieti. La tappa prevede anche la “Strada delle Svolte”, ascesa dalle parti di Popoli che al Giro del 1936 consentì a Bartali di conquistare la sua prima vittoria di tappa alla Corsa Rosa e che stavolta mette in croce Venturelli, costretto al ritiro da quella che il bollettino medico definisce “gastroenterite tossica”. Davanti, intanto, il gruppo affronta senza troppi scossoni il Terminillo, sul quale l’unico a provare qualcosa è Gaul, che si avvantaggia di un pugno di secondi in vista dello scollinamento per poi essere ripreso; scene più interessanti si vivono nella picchiata verso Rieti, lungo la quale si avvantaggiano Nencini e Guido Carlesi, il corridore toscano soprannominato “Coppino” per la somiglianza con il Campionissimo e che alla partenza da Pescara era distanziato di 35” da Anquetil, distacco che scende a 14” sul traguardo reatino, dove transita per primo Nencini.

La risalita della penisola prosegue con una tappa che da Terni conduce a Rimini e nella quale sono attesi i velocisti. Invece è la fuga ad andare in porto ed è di quelle che si definiscono “bidone” perché alla notizia della vittoria di Pierino Baffi, che batte al colpo di reni Nino Defilippis, si affianca quella dell’insediamento di uno dei fuggitivi al vertice della classifica: è il belga Joseph Hoevenaers che, grazie ai 4’15” di vantaggio sul gruppo, detronizza Anquetil, sceso in seconda posizione con un passivo di 1’53” che potrà facilmente recuperare grazie alle altre tre cronometro in programma.

Già dal giorno successivo “Jacquot” ha terreno fertile per cominciare a erodere lo svantaggio poichè il mattino è prevista una brevissima prova contro il tempo, appena 5 Km disegnati tra le strade di Igea Marina, che però non va secondo le previsioni dell’asso francese: un guasto lo costringe a cambiare bici e così finisce per perdere altri 3 secondi da Hoevenaers, mentre a cogliere il successo è Poblet. Si disputa il pomeriggio stesso una semitappa di 81 Km dalla confinante Bellaria a Forlì, dove si giunge dopo aver affrontato l’ascesa alla Rocca delle Caminate. Su quest’ultima rimane davanti un gruppetto contentente tutti i migliori della classifica, 18 uomini regolati allo sprint dal belga Rik Van Looy, che il giorno dopo fa il bis a Livorno, al termine di una tappa movimentata da parecchie cadute che vedranno protagonisti anche nomi importanti, corridori del calibro di Baldini, Nencini, Defilippis, Angelo Conterno – che nel 1956 era stato il primo italiano a vincere la Vuelta – Wim van Est e Poblet.

Altre due semitappe attendono il gruppo al nono giorno di gara e anche stavolta è in programma una cronometro, in calendario al pomeriggio dopo la mattutina Livorno – Carrara, conquistata in volata da Emile Daems, corridore belga che in questa edizione del Giro ha al seguito il suocero, autista della vettura di un quotidiano di Bruxelles. Nella sfida contro l’orologio, più ostica di quella di Igea perché si tratta di una cronoscalata di 2 Km e 200 metri verso le celebri cave di marmo di Carrara, Anquetil riesce finalmente a rosicchiare 24 secondi a Hoevenaers mentre per la vittoria di tappa è costretto a fare a metà con Poblet, poiché i due fanno entrambi segnare il miglior tempo e all’epoca non si usa ancora conteggiare i centesimi.

La corsa ha in “cartellone” ora l’ultima frazione appenninica, che ha meta in Sestri Levante dopo esser saliti sui passi della Cisa e delle Centro Croci. È una tappa che, se non ci fosse stato Hoevenaers in rosa, avrebbe visto un cambio in vetta alla classifica perché Anquetil termina lontano dagli altri big, quasi quattro minuti di ritardo dai primi giunti al traguardo, un risicato gruppetto di dieci corridori selezionatosi nel corso dell’impegnativa discesa dal Cento Croci, resa insidiosa dalla pioggia e dalla presenza di alcuni tratti in selciato. Non si contano le cadute e le forature. All’arrivo è necessario il fotofinish per stabilire chi, tra Nencini e Van Looy, fosse il vincitore di questa tappa che vede il capoclassifica Hoevenaers e Gaul pagare 1’36” e il favoritissimo Anquetil perdere 3’50”. Il belga salva la rosa ma ora ha soli 20” di vantaggio su Carlesi mentre il transalpino è sceso in settima posizione a 2’43”.

Battuto di un amen ventiquattrore prima, Van Looy riesce ad andare in “goal” il giorno dopo ad Asti, dove alla gioia del belga fa da contraltare la delusione di Carlesi che, dopo aver guadagnato il secondo posto in classifica a Sestri subito lo riperde a causa di una caduta avvenuta nella discesa della Ruta, nei chilometri iniziale dell’undicesima frazionbe. Ferito a un braccio e a una gamba, “Coppino” riesce anche a recuperare le ruote del gruppo, ma le perde di nuovo sulla salita dei Piani di Creto, sulla quale scoppia la bagarre, e da lì in avanti non riesce più a ricucire lo strappo, arrivando ad accusare un ritardo di 3’25” che lo fa ripiombare dal secondo all’ottavo posto in classifica.

Con Hoevenaers in rosa si arriva così alle frazioni alpine. Ne sono previste solo due proprio per non rubare la scena al Gavia, sul quale comunque circolano molti timori. Il recente inverno è stato particolarmente ricco di precipitazioni e tanta neve alberga ancora sui più elevati passi, rendendo obbligatorio predisporre un “piano B” che prevede di sostituire il Gavia con lo Stelvio, la cui sede stradale asfaltata e più ampia è più agevole da sgombrare dalla neve rispetto alla stretta e sterrata mulattiera che sale da Ponte di Legno. Gira anche voce di patti stretti da Torriani con le compagnie d’assicurazione che permetterebbe all’organizzazione di scaraventare nei burroni del Gavia le ammiraglie rimaste in panne lungo la salita. Intanto la prima tappa di salita alpina scorre via quasi senza colpo ferire al punto che un giornalista arriva a scrivere che “la montagna ha partorito un topolino”. Quel topolino è un autentico Carneade del gruppo, lo sconosciuto cremonese d’origine polacche Addo Kazianka, che va in fuga da lontano assieme ad altri tre corridori per poi staccarli lungo l’ascesa finale di Cervinia, inedito traguardo al quale si presenta con 3’47” di vantaggio su Nencini, Hoevenaers, Anquetil, lo scalatore vicentino Imerio Massignan e Gaul, l’unico tra i big ad aver azzardato un tentativo sull’ascesa finale.

Milano ospiterà l’arrivo finale ma, nel frattempo, è previsto anche un traguardo intermedio, quella della tredicesima frazione, una tappa la cui altimetria dice volata ma che in realtà parlerà ancora il linguaggio della fuga. E ancora il polacco perché, come Kazianka, ha lontane origini in quella nazionale anche il corridore che si impone in solitaria nel capoluogo lombardo, Jean Stablinski, passaporto francese, futuro campione del mondo nel 1962 a Salò e un passato da minatore – per comprarsi la sua prima bici – dalle parti di Wallers, il centro presso il quale si trova la Foresta di Arenberg, il celebre settore di pavè che proprio lui fece conoscere agli organizzatori della Parigi-Roubaix.

Dopo un giorno di riposo si riparte con la tappa che Anquetil attende di più, una cronometro fiume di 68 Km disegnata tra le colline brianzole. Tra Seregno e Lecco detta la sua legge ed è una legge dura che sancisce la sua netta supremazia: sulle rive del lago di Como la maglia rosa è tornata di sua proprietà dopo che i cronometristi hanno registrato il tempo di 1h29’57” (pari a una media di 45.3 Km/h), dopo che Jacques ha dato 1’27” al primo degli “umani” (Baldini) e dopo aver mandato fuori tempo massimo ben 51 “girini”, quasi tutti graziati alla giuria. Ora il corridore più vicino a lui in classifica è Nencini, che ha davanti a sé un difficile muro di 3’40” da scavalcare, mentre Hovenaers è sceso al terzo posto a 4’19”, seguito da Diego Ronchini a 5’49” e da Gaul a 7’32”.

In attesa di tornare sulle montagne il percorso del Giro propone ora una serie di tre frazioni poco infarcite di difficoltà, ma per i velocisti sembra ci sia poco pane per i loro denti. Viaggiando verso Verona c’è, infatti, da registare l’attacco che non ti aspetti, quello di un Anquetil che ha evidentemente già smaltito la fatica della crono. Il francese parte all’inseguimento di un tentativo di Carlesi e con lui rimane anche Nencini, mentre il gruppo si frantuma. Ripreso il toscano torna la calma in gruppo poi nel finale si sganciano sei corridori, tra i quali ci sono Massignan, 6° in classica che oggi guadagna 25 secondi, e il campione del mondo in carica André Darrigade, che s’impone allo sprint sul belga Edgard Sorgeloos ottenendo quella che sarà la sua unica vittoria di tappa in carriera alla Corsa Rosa.

Anche la breve tappa di Treviso, soli 110 Km di totale pianura, sfugge al controllo dei velocisti con il gruppo che taglia la linea del traguardo 12 secondi dopo l’arrivo del toscano Roberto Falaschi e degli altri due corridori che con lui sono riusciti a evadere a circa 40 Km dall’arrivo. Dopo la battagliata frazione veronese, dunque, oggi niente brividi in gruppo, se non quelli patiti da un febbricitante Gaul, fiaccato anche da un potente raffreddore.

Siccome non c’è il due senza il tre anche la tappa di Trieste sfugge agli sprinter e stavolta c’è lo zampino di una caduta. Succede tutto a 40 Km dall’arrivo quando un’auto della carovana frena bruscamente innescando uno sbandamento in seno al gruppo che spedisce a terra quaranta corridori: tra i coinvolti ci sono la maglia rosa e Baldini mentre si salva dalla carambola Nencini, che insieme ai corridori rimasti incolumi s’invola velocemente verso il traguardo, dove la vittoria sorride di nuovo a Bruni – già vincitore della frazione d’apertura a Napoli – mentre il campione toscano riesce a ridurre di 38” il suo divario dalla testa della classifica.

Mentre buone notizie arrivano dal Gavia, dove Torriani aveva mandato in sopralluogo il cartografo della corsa Cesarino Sangalli e dove in poche ore si è riusciti a sistemare la strada per il gran tappone di pochi giorni dopo, il Giro propone un piccolo assaggio di montagna sulla strada per Belluno con il Passo della Mauria da scavalcare a una sessantina di chilometri da Belluno e le Dolomiti quest’anno solamente sfiorate dal percorso. Qui è più lecito attendersi l’approdo di un tentativo da lontano ed è quel che accade con l’affermazione in solitaria dell’irlandese Seamus Elliott, che a 5 Km dal traguardo riprende lo sfortunato Graziano Battistini, in fuga dalla Mauria, la cui azione si era inesorabilmente spenta a causa di una dolorosa caduta. In classifica tutto rimane tranquillo e sarà cosi anche durante la successiva frazione di Trento, nella quale i big preferiscono risparmiarsi in vista del Gavia e ancora una volta è la fuga ad andare in porto, coronata dal bis del belga Daems.

E arriva finalmente l’8 giugno, giorno per il quale si era dato da fare per consentire l’evento anche Achille Compagnoni, l’alpinista originario della Valfurva che da un paio d’anni per tutti era l’eroe del K2 per aver conquistato per primo la cima dell’Himalaya assieme a Lino Lacedelli, il 31 luglio del 1954. La tappa più attesa della corsa rosa è in programma fra Trento e Bormio, 229 Km che prevedeno prima del “babau” anche le salite di Cadine in partenza, di Molina di Ledro, di Campo Carlo Magno e del Tonale. Chi pensava che i big avrebbero atteso la salita finale rimane felicemente deluso, anche se non si assistono a grandi battaglie sulle prime difficoltà altimetriche, che vedono in testa alla corsa un piccolo drappello con dentro un nome celebre, quello di Van Looy. È sul Tonale che entra in scena Massignan, che attacca a inizio salita, raggiunge il belga e con lui scollina con il gruppo della maglia rosa a 1’35”. Poi lo scalatore vicentino rimane da solo sul Gavia, in vetta al quale il suo vantaggio sul primo inseguitore, Gaul, è il medesimo con il quale era transitato sul Tonale; più distanziati, alla spicciolata, fanno capolino dietro l’ultima curva del passo lombardo Arnaldo Pambianco (2’10”), Nencini (4’45”) e Agostino Coletto (4’50”), mentre bisogna attendere 5 minuti esatti dal passaggio di Massignan per vedere transitare la maglia rosa. Ma c’è un’altra inattesa protagonista in agguato in quella tappa, la sfortuna, che si accanisce in particolar modo proprio sulla testa della corsa, anzi sulle “teste delle corsa”. Due forature a cranio, infatti, intervengono a rendere grama la vita a Massignan e Anquetil, con il capoclassifica che patisce anche un salto di catena. Ma è Imerio a pagarne i danni peggiori perché dopo entrambi gli incidenti viene raggiunto da Gaul: la prima volta riesce a distaccare il rivale e a riportarsi solitario in testa della corsa, ma quando successivamente buca ancora mancano appena mille metri alla linea d’arrivo e il lussemburghese ne approfitta per accelerare e presentarsi in solitudine sotto lo striscione del traguardo, che taglia con 14” su Imerio mentre dietro impazza la lotta per la classifica. Nencini approfitta delle sue doti di discesista per aumentare il vantaggio su Anquetil, riuscendo a portarlo dai 15 secondi che aveva in cima al Gavia ai 3’27” che il francese accusa al traguardo, purtroppo non abbastanza da portargli via la maglia rosa, che rimane sulle spalle di “Jacquot” per soli 28 secondi.

Il Giro oramai è concluso perché nulla dovrebbe turbare gli equilibri della corsa nella lunga frazione conclusiva, che in 225 Km conduce i “reduci del Gavia” al tradizionale approdo del velodromo Vigorelli, dove finalmente si riesce ad assistere a un arrivo allo sprint a gruppo compatto, conquistato da Arrigo Padovan mentre Anquetil viene osannato quale vincitore della 43a edizione del Giro d’Italia.

Subito dopo Jacques annuncia che non andrà al Tour e che lo vincerà Nencini. E andrà proprio così…

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: mancano la 7a tappa (semitappe di Igea e Forlì), 14a (cronometro di Lecco). Nell’altimetria generale conclusiva è segnalata anche la variante con lo Stelvio della tappa di Bormio, da attuare in caso di maltempo.

1a


2a


3a


4a


5a


6a


9a


10-11a


12a


13a


14a


15a



18a


19a


20a


21a



23a

altimgen

1982, QUANDO IL TASSO CI MISE LO ZAMPINO

maggio 10, 2020 by Redazione  
Filed under News

Proseguiamo la nostra narrazione in rosa con il Giro del 1982, uno dei tre conquistati dal campione francese Bernard Hinault. Ogni qualvolta veniva sulle strade della Corsa Rosa se ne tornava a casa quasi indisturbato con il bottino massimo in saccoccia. Gli andò di lusso nel 1980 e non faticò troppo neppure nel 1985, nonostante un agguerrito Moser, ma nel 1982 incontrò lungo la sua strada un coriaceo avversario che lo mise alle corde e lo costrinse a una furibonda reazione, il varesino Silvano Contini.

In patria lo soprannominarono “Blaireau”, ovvero “tasso”, per la sua maniera di reagire alle avversità di corsa. Come il mammifero dei mustelidi, quando Bernard Hinault veniva stuzzicato, quando qualche avversario lo umiliava in corsa si rintanava nella sua tana per poi sfoderare gli artigli e menare dolorosi fedenti. Ed è quel che fece l’asso francese al Giro d’Italia del 1982, il secondo dei tre conquistati in una carriera che lo vide imporsi anche in cinque edizioni del Tour, come i grandissimi campioni, e in due della Vuelta, successi che si affiancano anche alle numerose affermazioni ottenuti nelle classiche in linea (una volta la poco amata Roubaix, due volte la Liegi, due il Lombardia, mentre non furono mai sue la Sanremo e il Fiandre). E va aggiunto che tutte le volte che venne a disputare il Giro sempre tornò nella sua Bretagna con la maglia rosa in valigia: la prima volta accadde nel 1980, quando si impose a Milano con quasi sei minuti su Wladimiro Panizza e dopo l’impresa nella tappa dello Stelvio in compagnia del compagno di squadra Jean-René Bernaudeau; l’ultima volta fu nel 1985, quando un indomito Francesco Moser ingaggiò una furiosa caccia agli abbuoni per tentare di arginare lo strapotere del campione francese. In mezzo ci fu l’affermazione del 1982, ottenuta in un periodo nel quale il Giro d’Italia attraversò una fase calante per quel che riguarda la durezza dei percorsi, anche se non per colpa di Vincenzo Torriani. Era successo che nel 1976 la Gazzetta dello Sport, da sempre organizzatrice della corsa, era stata acquistata dal gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera, che negli anni ’80 incontrerà un grosso periodo di crisi. Era necessario aumentare la tiratura della “Rosea” e si pensava che per attirare maggiormente i lettori in edicola nel mese del Giro al via della corsa dovessero esserci prima di tutto i campioni di casa nostra più amati e che si attrezzasse il percorso sulle loro “corde”. E questi campioni erano Moser e Giuseppe Saronni, forti a cronometro e allo sprint, ma poco avvezzi alle salite, soprattutto uno spilungone come il corridore trentino. Poco importa se in gruppo avessimo anche corridori dotati in salita come Giovanni Battaglin, Gianbattista Baronchelli, il citato Contini e Mario Beccia, il corridore che meno di tutti digerì questa filosofia di disegno dei percorsi e in più occasioni se ne lamenterà con Torriani.

Veniamo ora al Giro del 1982 sul quale il sipario si alza il 13 maggio a Milano con Hinault che indica quale suo principale avversario Tommy Prim, lo svedese della Bianchi che l’anno prima aveva perso il Giro per soli 38” da Battaglin e che corre in squadra con due corridori che lui considera in quel momento leggermente inferiori, Baronchelli e Contini. Ma tutti si devono guardare soprattutto dallo stesso “tasso”, che prende subito la maglia rosa imponendosi con i suoi compagni della Renault nella breve cronosquadre d’apertura: in Piazza Duomo, dopo aver percorso 16 Km a 50.1 Km/h, Bernard veste le insegne del primato distanziando di 2” Moser e di 26” il temuto tridente della Bianchi.

Con un lungo trasferimento il gruppo lascia il capoluogo lombardo alla volta di Parma, da dove si riparte in direzione di Viareggio per una tappa poco complicata per i corridori (si arriva allo sprint, vittoria di Saronni), ma che si rivela decisamente più ostica nel dopotappa per il collegio di giuria, che fa male i conti tra abbuoni e piazzamenti e prima assegna la maglia rosa all’elvetico Robert Dill-Bundi, poi decreta che Saronni è il nuovo capoclassifica, quindi la rimette sulle spalle di Hinault per poi stabilire definitivamente che spetta al francese Patrick Bonnet.

La corsa si ferma altre ventiquattore in Toscana con una tappa che da Viareggio punto verso la dolce collina di Cortona, sulla quale continua la festa in casa Renault grazie ad un giovane neoprofessionista che farà ben presto parlare di sé: è il 21enne Laurent Fignon, che l’anno successivo vincerà il suo primo Tour e che nel borgo aretino mitigherà la delusione per il secondo posto, preceduto allo sprint dall’australiano Michael Wilson, con la conquista della maglia rosa.

Hinault lascia sfogare i suoi “galletti” prima di assestare un secondo colpo nella cronometro di 37 Km che collega Perugia e Assisi, con partenza in discesa, fase centrale pianeggiante e rampetta finale per arrivare nel piazzale lastricato antistante la basilica di San Francesco. E così alle soglie della dimora del santo poverello il campione francese si presente ancor più ricco: vola a 46.818 Km/h, ferma i cronometri sui 47’25” e si riporta in testa alla classifica con 11” su Prim, 39” su Moser e 1’08” su Saronni.

L’indomani 169 Km poco impegnativi collegano Assisi e Roma, dove il Giro piomba insolitamente in un giorno lavorativo con una tappa destinata ai velocisti, che si conclude sulla pista d’atletica dello Stadio dei Marmi al Foro Italico con il successo dell’elvetico Urs Freuler, che poi farà il bis il giorno dopo al cospetto della reggia di Caserta. Sono entrambe tappe che scorrono via senza troppi sussulti agonistici mentre il tradizionale calore dei tifosi del sud si fa sentire particolarmente, al punto che nel frenetico dopotappa casertano si vedono Moser e Saronni menare le mani per farsi largo tra la calca mentre Hinault è costretto ad alzare sopra la testa la sua bici e a brandirla come fosse una clava.

Pur non essendo durissime, né inserite in un percorso d’alta montagna, le prime salite del Giro fanno capire a Hinault d’aver commesso uno sbaglio nella valutazione degli avversari: è da Contini che deve guardarsi dopo che lo scalatore varesino, scavalcate le ascese del Chiunzi (il valico della caduta di Pantani per colpa d’un gatto al Giro del 1997) e di Agerola, si presenta in beata solitudine sul traguardo di Castellammare di Stabia con 1’20” recuperati in classifica al bretone (contando anche l’abbuono), che ora lo precede di 13”.

Un avvicendamento al vertice della classifica è all’orizzonte, ma non sarà Silvano a vestirsi di rosa al termine della successiva tappa di Diamante, che doveva essere per velocisti e per velocisti è stata, anche se nello sprint si lancia pure Moser, che non eccelle solo a cronometro e che in quest’occasione coglie il primo posto davanti a Rosola, il consistente abbuono di 30 secondi riservato al vincitore e la testa della classifica per appena un secondo.

Con un giorno di riposo, il primo dei due in programma, ci si sposta al caldo della Sicilia per una tre giorni che debutta con una tappa che fa gola ai finisseur. E tra questi c’è un altro giovane emergente al pari di Fignon, quel Moreno Argentin che ha la stessa età del transalpino ma rispetto a lui è passato al professionismo due anni prima e ha già avuto modo di farsi notare conquistando due frazioni al Giro del 1981, a Cosenza e a Livorno. E la terza arriva ora sul traguardo della Taormina – Agrigento, frazione che sfiora i 250 Km di lunghezza e presenta la rampa finale dalla Valle dei Templi al traguardo, in cima alla quale il corridore trevigiano mette in fila Baronchelli e Saronni, che si piazza al terzo posto per il terzo giorno consecutivo e si consola con la splendida notizia della nascita della figlia Gloria. L’occasione per spezzare questa serie di piazzamenti e dedicare un successo alla nuova arrivata in casa Saronni arriva il giorno successivo, quando Beppe riesce finalmente a mettere la sua ruota davanti a quella di tutti gli altri avversari in quel di Palermo dove, dopo che il Monte Pellegrino a ridosso del traguardo non aveva provocato molta selezione, il corridore “lombardo piemontese” precede allo sprint Pierino Gavazzi e Moser, che coi denti strappa altri 5 secondi d’abbuono. Ulteriori 10 secondi il trentino li incamera il giorno dopo con il terzo posto nella Cefalù – Messina, che vede Freuler mettere in cascina il terzo e ultimo successo parziale in questa edizione della corsa rosa.

Lasciata la Sicilia si torna in Calabria per una lunga frazione che da Palmi conduce a Camigliatello Silano, località che sarà sede d’arrivo anche al Giro del 2020. Si attraversano le montagne della Sila ma la lunga salita verso Villaggio Mancuso oltre ad non essere impegnativa è anche piuttosto distante dal traguardo e, complice la giornata di pioggia, i big della classifica non ci provano nemmeno ad attaccare, lasciando tanto spazio ai tre fuggitivi di giornata. Così questi uomini arrivano a guadagnare fino un quarto d’ora e poi a giocarsi la vittoria, che sorride al francese Bernard Becaas, un altro compagno di squadra di Hinault, davanti a Giovanni Renosto e al futuro commissario tecnico della nazionale Davide Cassani, al suo primo anno da professionista.

Hinault intanto scalpita e il “tasso” si prepara a colpire per la prima volta per vendicare lo spodestamento ad opera di Moser. Medita di farlo 48 ore più tardi quando, dopo il secondo e ultimo giorno di riposo, il Giro si rimetterà in moto da Cava de’ Tirreni; la meta è Campitello Matese, salita molisana che spesso ha fatto vittime a sorpresa ma non sarà così per il corridore bretone che, invece, si tramuta in carnefice e si riprende la maglia rosa dopo essersi presentato al traguardo in compagnia di Beccia e aver affibbiato pesanti distacchi agli avversari: Prim paga 20”, Contini ne perde 1’16” mentre la vittima di Campitello stavolta risponde al nome dell’oramai ex leader della classifica Moser, che si vede volar via più di due minuti e con essi le insegne del primato.

Altre salite sono previste il giorno dopo verso Pescara ma il percorso, a prima vista, non è di quelli che fan paura con lo storico tridente Macerone – Rionero – Roccaraso da superare in partenza e poi il “nulla”. Invece Contini s’inventa un autentico e insperato capolavoro, andandosene sulla salita di Roccaraso assieme ad altri tre compagni d’avventura quando al tragardo mancano quasi 130 Km. Non vengono più ripresi e Contini ci mette pure la ciliegina sulla torta intascandosi successo e abbuono, oltre al minuto e poco più guadagnato sulla strada che lo riporta a 31” da Hinault.

È un Giro che strizza l’occhio ai giovincelli quello del 1982 e lo dimostra anche la 14a tappa: dopo la maglia rosa conquistata da Fignon e dopo il successo di Argentin adesso arriva il turno del “Ciclone” Guido Bontempi, 22 anni, due tappe della Vuelta e una al Giro l’anno prima e adesso l’affermazione al termine d’una frazione pregna di chilometri che in quasi 250 Km conduce da Pescara a Urbino. Per i corridori di classifica è una giornata ideale per rifiatare dopo due tappe vissute intensamente e anche la successiva verso Lido delle Nazioni si rivela identica, disputata unicamente per arrivare tutti assieme sul rettilineo d’arrivo romagnolo, dove il fotofinish assegna la vittoria a Silvestro Milani e nega il filotto a Freuler.

Arriva l’ora delle frazioni alpine, quasi tutte caratterizzate da distanze “sovrabbondanti”. Si comincia con i 243 Km della tappa che dal litorale romagnolo porta sulle Dolomiti, da Lido delle Nazioni a San Martino di Castrozza, arrivo in salita pedalabile preceduto di una settantina di chilometri dal temuto Monte Grappa. A far paura, di quest’ultimo, non sono solo le pendenze del versante di Bassano ma, soprattutto, la discesa verso Caupo, nel 1982 ancora in gran parte sterrata. Corridore che poco ama i settori di pavè della Roubaix, come abbiamo ricordato in apertura, Hinault all’arrivo s’infuria con l’organizzazione per questa scelta, che fortunatamente non lo penalizza più di tanto, visto che al traguardo paga appena 6 secondi a Contini, mentre 24 secondi prima dell’arrivo del francese era giunto vittorioso al traguardo lo spagnolo Vicente Belda. Ma non osiamo immaginare la rabbia in corpo di Prim e Saronni, crollati sull’ascesa finale dopo un lungo e faticoso inseguimento al quale sono stati costretti dalle forature che la stradaccia del Grappa ha loro provocato: il corridore svedese buca due volte, ma peggio va a Beppe che sulla strada ha lasciato ben otto tubolari. I suivers con qualche primavera sulle spalle si saranno ricordati che proprio da quelle parti, nel 1964, si era disputata una tappa ancor più tremenda di questa quando, salendo verso il Passo di Croce d’Aune, si erano verificate ben 300 forature.

Il giorno successivo il percorso del Giro propone un’altra consistente mole di chilometri da percorrere, 235 Km per la precisione, per traslocare da Fiera di Primiero a Boario Terme, dove si giunge dopo esser saliti fino ai quasi 1900 metri del Croce Domini, interminabile ascesa di quasi 25 Km che qualche anno prima aveva visto in affanno un campionissimo del calibro di Eddy Merckx. Contini ci prova ancora ma stavolta non è da solo perché a dargli man forte ci pensano i compagni di squadra Prim e Baronchelli, un terzetto scatenato al quale si accodano altri corridori, tra i quali c’è Lucien Van Impe, lo scalatore belga che nel 1976 aveva vinto il Tour de France e che al traguardo si piazza secondo alle spalle del varesino. E Hinault affonda, giungendo al traguardo con un ritardo di 2’10” e senza più la maglia rosa, che ora Contini veste con un vantaggio quasi simile.

Ma il “blaireau” è nuovamente pronto a saltare fuori dalla sua tana, è veramente “incazzato” come i francesi cantati da Paolo Conte in “Bartali” e stavolta la sua vendetta non tarderà. Il giorno dopo Boario è prevista una breve tappa di montagna che non sembra particolarmente temibile per il nuovo capoclassifica. Si devono percorrere soli 85 Km da Pianborno a Montecampione, tutti in pianura fino ai piedi dell’ascesa finale, più breve rispetto a quella che vedrà Pantani stracciare Tonkov al Giro del 1998 perché nel 1982 non era stata ancora realizzata l’appendice che sale verso Plan. Basterà a Hinault per dare sfogo alla sua rabbia? Gli basta e gli avanza perché in soli 11 Km, quelli dell’ascesa finale, sgretola pian piano e con gli interessi il “tesoretto” di Contini, che forse paga lo sforzo profuso il giorno prima e all’arrivo si ritrova denudato delle insegne del primato. Hinault è primo al traguardo, Van Impe e Baronchelli gli sono dietro a pochi secondi ma non c’è con loro il varesino che avevano vittoriosamente scortato verso Boario e per il cui arrivo bisogna attendere quasi tre minuti e mezzo. Ora il bretone è tornato a issarsi al vertice della classifica e stavolta sarà difficile scalzarlo, visto che Contini è secondo a 1’41” e da qui a Torino, sede d’arrivo della tappa conclusiva, il percorso sembra strizzare l’occhio al francese più che all’italiano.

Annichilito dall’impresa di Hinault il gruppo s’accinge ora ad affrontare un paio di tappe di trasferimento senza troppe pretese, nelle quali i velocisti godono i favori del pronostico. A Vigevano, però, non sono tutte rose e fiori in casa Renault: si sorride nella compagine di Hinault per la vittoria di Robert Dill-Bundi, il corridore che era stato tra i protagonisti del giallo dell’assegnazione della maglia rosa in quel di Viareggio, e contemporaneamente si mugugna per l’indisciplina del pubblico, soprattutto dopo il brutto incidente in zona rifornimento occorso a un altro compagno di strada della maglia rosa, quel Becaas che si era imposto in fuga a Camigliatello e che oggi viene ricoverato in ospedale con una sospetta frattura cranica (che poi si rivelerà una lieve frattura alla tempia) dopo esser stato travolto da una donna in motocicletta dalle parti di Muggiò.

Dopo la tappa di Cuneo, vinta in volata da Moser, si arriva a quella che gli organizzatori avevano forse concepito come una delle tappe chiave della 65a edizione della Corsa Rosa, il tappone per antonomasia, la mitica Cuneo-Pinerolo. Ma di acqua ne è passata parecchia sotto i ponti dal 10 giugno del 1949, quando tra Maddalena e Vars, tra Izoard, Monginevro e Sestriere Fausto Coppi azzeccò quella che fu una delle più fantastiche imprese della sua carriera. Lo sterrato oramai ha lasciato spazio all’asfalto quasi ovunque e anche le migliorie apportate alla bicicletta, molto meno pesanti rispetto a quelle di 33 anni prima, hanno quasi azzerato le difficoltà tecniche di un tappone ancora forte di un chilometraggio di 254 Km e di un dislivello complessivo di quasi 8000 metri, come i giganti dell’Himalaya. Sarebbe bastato scartabellare tra gli ordini d’arrivo del Giro del 1964, quando la Cuneo-Pinerolo fu riproposta per la seconda volta nella storia, per rendersi conto che questo tracciato non aveva più il potenziale di una volta, in quanto vinse Franco Bitossi grazie ad una fuga solitaria di 120 Km nata sull’Izoard e 2 minuti l’arrivo del toscano si presentò al traguardo il gruppettino dei migliori di quell’edizione, con la maglia rosa Jacques Anquetil apparsa inattaccabile. Nel 1982 non ci sarebbe stato nemmeno l’uomo solo al comando perché sul rettilineo di Corso Torino arrivano a giocarsi la vittoria di tappa in undici, dopo gli inutili ed estremi tentativi di Contini sui colli: l’ultima Cuneo-Pinerolo della storia termina così in volata, con la terza affermazione in questa edizione di Saronni che precede Hinault e Prim.

Il francese intasca così anche l’abbuono per il secondo posto e ora non può che allungare ancora perché l’ultima tappa è una cronometro di 42.5 Km, quasi come una maratona. Bernard vuole vincere anche qua e lo fa, percorrendo la tratta Pinerolo-Torino in 51’14”, volando a 49.772 Km/h e distanziando di 10 secondi uno specialista del tic-tac come Moser, mentre Prim, 4°, fa meglio del compagno di squadra Contini per 19”, che gli bastano per farlo indietreggiare di una posizione sul podio finale. Hinault così vince il suo secondo Giro con 2’35” sullo svedese e 2’47” sullo scalatore varesino che tanto filo da torcere gli aveva dato.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Mancano le altimetrie della 7a tappa (Castellammare di Stabia – Diamante) e della 13a tappa (Campitello Matese – Pescara). Della prima tappa è presente la sola planimetria

1990, L’ASSOLO ROSA DI GIANNI BUGNO

maggio 9, 2020 by Redazione  
Filed under News

Non vi lasceremo soli. Nel mese che sarebbe dovuto essere occupato dalle cronache e dalle magie del Giro d’Italia, ilciclismo.it vi accompagnerà alla scoperta di edizioni passate della “Corsa Rosa”, una selezione che inauguriamo con il Giro del 1990 vinto da Gianni Bugno. L’abbiamo scelto perché è grazie a quell’edizione del Giro, che il corridore monzese dominò in maglia rosa dalla prima all’ultima tappa, che il nostro direttore Mauro Facoltosi, che scriverà questi ricordi, si appassionò al ciclismo.

Iniziò eccezionalmente in un giorno feriale il Giro del 1990, il 18 giugno, un venerdì. Una data scelta apposta da Vincenzo Torriani per fare in modo che la “Corsa Rosa” tirasse idealmente la volata ai mondiali di calcio che quell’anno si sarebbero disputati in Italia: il Giro sarebbe, infatti, terminato a Milano il 6 giugno, un mercoledì, due giorni prima del fischio d’inizio della prima partita, che sarebbe stata giocata proprio nel capoluogo lombardo. La sede d’avvio era stata individuata in Bari, dove era in programma la “finalina”, mentre era esclusa dal percorso Roma, sede della finalissima, dove il Giro aveva fatto tappa l’anno prima, nel corso dell’edizione vinta da Laurent Fignon. Il francesino della Castorama è al via anche nel 1990 con il ruolo di grande favorito e trova sulla strada a sfidarlo il connazionale Charly Mottet, il bergamasco Flavio Giupponi e il monzese Gianni Bugno: il primo dei due azzurri aveva terminato da miglior italiano della classifica nei precedenti tre Giri d’Italia, una serie culminata con il secondo posto a 1’15” da Fignon l’anno prima; il giovane Bugno, invece, del quale si diceva un gran bene ma che nei primi anni da professionista non aveva colto grandissimi successi, si era sbloccato a marzo conquistando la Milano-Sanremo e ora era atteso alla conferma del suo valore. Nessuno, forse nemmeno lui stesso, si sarebbe aspettato un autentico dominio perché Gianni prenderà la maglia rosa alla prima tappa e la terrà sino alla fine, un’impresa che in precedenza erano stati in grado di compiere solo tre campioni (Girardengo nel 1919, Binda nel 1927 e Merckx nel 1973) e che in futuro nessun altro riuscirà a eguagliare. Da notare, infine, che in gara c’è anche Greg Lemond, che torna al Giro dopo l’esperienza vissuta nel 1986, quando aveva concluso la corsa in quarta posizione con 2’26” di ritardo da Roberto Visentini. A differenza di quel precedente, però, la sua sarà una presenza marginale in vista della partecipazione al Tour e lo stesso accadrà anche nel 1991.

L’atto d’apertura è una cronometro individuale di 13 Km, disegnata in andata e ritorno sul piatto lungomare di Bari con il traguardo fissato in Piazza della Libertà, dove Bugno fa registrare il tempo di 15’19” a una media di quasi 51 Km/h, distanziando di 3 e 9 secondi due specialisti delle cronometro del calibro del francese Thierry Marie e del polacco Lech Piasecki, mentre Fignon è 15° a 29”, Lemond 30° a 21” e Giupponi 41° a 45”.

Assegnata la prima maglia rosa, la corsa propone al secondo giorno di gara una delle frazioni più lunghe, 239 Km da Bari a Sala Consilina con il finale movimentato dalla pedalabile salita verso Sella Cessuta e dal morbido strappo di un paio di chilometri che termina sotto la linea del traguardo. Fignon medita il colpaccio e al traguardo volante di Matera, dove sono in palio abbuoni per la classifica, fa di tutto per portare nella miglior posizione il compagno di squadra Marie, che in classifica ha solo 3 secondi di ritardo da Bugno, ma il bergamasco Giovanni Fidanza, che corre in squadra con il monzese, subodora il pericolo, si butta nello sprint e ricaccia indietro Marie, che si ferma a un solo secondo dalla maglia rosa. Ma il vero capolavoro Fidanza lo compie nel finale, riuscendo a stoppare nientemento che l’assalto diretto di Fignon, imponendosi sul traguardo di Sala Consilina bruciando allo sprint proprio il transalpino.

Al terzo giorno di gara debuttano le montagne con l’arrivo in salita al Vesuvio, anche se si affronta solo parzialmente l’ascesa finale, complessivamente lunga quasi 13 Km. Se ne percorrono solo i primi 8.5 Km, che già bastano a Bugno per allestire un altro show: scatta sull’acciottolato all’uscita da Ercolano e giunge tutto solo al traguardo, 26” dopo l’arrrivo dello spagnolo Eduardo Chozas, mentre Fignon paga 36” al monzese, che ora in classifica comanda con 43” su Chozas.

La quarta tappa era stata inizialmente presentata in un’unica “soluzione” di 194 Km, poi si è stabilito di spezzarla in due frazioni all’altezza del traguardo volante Intergiro: si corre così una prima semitappa mattutina pianeggiante di soli 31 Km da Ercolano a Nola, dove tra i magazzini del CIS (Centro Integrato Servizi) inaugurato quattro anni prima s’impone allo sprint Stefano Allocchio, oggi dirigente di RCS Sport, il gruppo che organizza il Giro. I 164 Km pomeridiani verso Sora prevedono un altro piattone sino a una ventina di chilometri dal traguardo, quando l’altimetria propone la salita non troppo difficile verso Arpino, la cui pendenza media si mantiene sotto il 3%: i velocisti stavolta falliscono il bottino pieno per un’inezia perché appena un secondo prima del piombare del gruppo, regolato allo sprint da Adriano Baffi, avevano tagliato il traguardo l’australiano Phil Anderson e il francese Christophe Lavainne.

La successiva Sora – Teramo è la prima di tre insidiose frazioni appenniniche consecutive, una cavalcata che nel progetto originario doveva misurare 243 Km e proporre le ascese di Ovindoli e del Monte Capo di Serre. I “girini” si trovano, però, a gareggiare su di un percorso diverso, rimaneggiato da Torriani in quattro e quattr’otto a causa di una serie di frane che costringono l’organizzazione a sostituire in fretta e furia la seconda salita con il Passo delle Capannelle, senza aver il tempo di un adeguato sopralluogo sullo stato delle strade. Così la vittoria dopo una lunga fuga del toscano Fabrizio Convalle passa in secondo piano, soffocata dalle polemiche per la brutta caduta avvenuta in una buia galleria della discesa del Capannelle, che Bugno definirà “meno illuminata di una miniera”: qui finiscono a terra una ventina di corridori e tra questi ci sono Valerio Tebaldi, gregario del monzese che sarà costretto ad abbandonare il Giro con il bacino fratturato, e Fignon, che riporta ferite a glutei e schiena, dolorose al punto che gli faranno trascorrere la notte in bianco e che lo porteranno al ritiro qualche giorno più tardi.

Un’altra tappa da fughe va in scena l’indomani tra Teramo e Fabriano, 200 Km esatti che prevedono l’impegnativa ascesa al Sasso Tetto a metà tracciato e il corto Collegiglioni nel finale, ideale trampolino per un’azione a ridosso del traguardo. È proprio qui che si decide la frazione, con l’azione nel gruppo dei fuggitivi del giovane Luca Gelfi, con il quale rimangono Massimo Ghirotto e Anderson, battuti dal corridore lombardo sulla linea d’arrivo. Nulla cambia tra i primi della classifica, anche se permangono le preoccupazioni in casa Castorama per le condizioni di Fignon che, dopo la nottataccia, accusa un minuto di ritardo in cima al Sasso Tetto, svantaggio recuperato nel corso della successiva discesa.

Il trittico appenninico si conclude con una tappa di 197 Km che prevede il secondo arrivo in salita, ai quasi mille metri dell’abbazia di Vallombrosa. Si tratta di una salita double face, moderatamente impegnativa nella prima parte e molto più pedalabile nel finale, che prevede anche un lungo tratto in discesa in vista dello striscione dell’ultimo chilometro; è un altro palcoscenico che Bugno calca alla perfezione, attaccando quando si accorge che Fignon è in difficoltà e primeggiando ancora una volta, anche se con distacchi risicatissimi rispetto a quelli ottenuti sul Vesuvio: il russo Ugrumov gli è subito dietro, poi a 3” giungono i primissimi inseguitori, tra i quali c’è Mottet, il corridore che a questo punto Bugno indica come il suo più pericoloso avversario, mentre Fignon lascia per strada 1’18”.

Dopo l’interlocutoria Reggello – Marina di Pietrasanta, terminata con il secondo successo allo sprint di Allocchio, c’è spazio ancora per un’ultima tappa disegnata sugli appennini, la più insidiosa di tutte perché nei 176 Km da pedalare tra La Spezia e Langhirano sono state inserite salite impegnative come il Passo di Lagastrello e il poco conosciuto Valico di Fragno. Ci si mette anche il maltempo a complicare la giornata e a un certo punto arriva la notizia bomba: Fignon non ce la fa più, il transalpino si ritira nel corso della discesa dal Lagastrello, dopo aver sofferto come un cane in salita e aver accusato quasi 5 minuti di ritardo quando al traguardo mancano ancora 130 Km. Anche Bugno rischia a causa di un attacco promosso nella nebbia da un gruppetto il cui elemento più pericolo è Chozas: lo spagnolo a un certo conquista la maglia rosa virtuale, ma poi si “spegne” con il passare dei chilometri mentre uno dei componenti del gruppetto all’attacco, Volodymyr Pulnikov, vola a conquistare il successo di tappa, il primo di un corridore russo al Giro d’Italia.

Davanti a Bugno, che a questo punto ha un vantaggio di 1’24” sul secondo (il polacco Joachim Halupczok, che morirà prematuramente nel 1994), c’è ora una delle tappe più temute del Giro 1990, un’interminabile cronometro di quasi 70 Km che scatta dal medioevale castello di Grinzane Cavour per concludersi nel cuore di Cuneo. Anche su questo tracciato Bugno “saccagna” la concorrenza, ma l’esito finale ricorda quello del Vesuvio poiché, mentre tutti gli altri accusano pesanti distacchi (lo specialista del tic-tac Piasecki è 3° a 51” dal monzese, l’avversario dichiarato Mottet perde quasi un minuto e mezzo), Gianni si vede precedere – anche se per soli 6 secondi – da un corridore che aveva fatto meglio di lui, quel Gelfi che qualche giorno prima si era imposto a Fabriano e che oggi ferma i cronometri sul tempo di 1h31’46”, pari a una velocità media di quasi 44.5 Km/h. Ora sembra quasi impossibile contrastare il primato di Bugno, che in classifica ha poco più di 4 minuti di vantaggio sui corridori a lui più prossimi, Marco Giovannetti e Mottet.

Dopo la lunga tappa di trasferimento verso Lodi, che vede Adriano Baffi sprintare vittoriosamente, arriva il momento di misurarsi sulle salite alpine, che debuttano con la Brescia – Baselga di Pinè, frazione che prevede a una quarantina di chilometri dal traguardo l’impegnativa ascesa del Vetriolo, teatro di una cronoscalata al Giro di due anni prima. Laddove Andrew Hampsten si era imposto consolidando quella maglia rosa che aveva conquistato nel tremendo tappone del Gavia innevato, stavolta ci prova Mottet assieme ai connazionali Gérard Rué e Éric Boyer, ma Bugno non si fa trovare impreparato e rimane con loro, concedendo solo un margine di una trentina di secondi all’innocuo Boyer, che va a cogliere il successo sul traguardo trentino.

Il sipario torna ora a levarsi sui velocisti, ai quali strizzano l’occhio le due successive frazioni, a cominciare dalla lunga Baselga di Pinè – Udine che si conclude con la vittoria di Mario Cipollini, alla sua seconda affermazione sulle strade della Corsa Rosa dopo quella conseguita l’anno precedente a Mira. Non è così, invece, nell’unica frazione del Giro disegnata fuori dai confini nazionali, nonostante la facilità del circuito austriaco di Klagenfurt: sono ancora i fuggitivi a godere e il godimento è pieno per l’australiano Allan Peiper, che sul traguardo carinziano ha la meglio sul francese Pascal Poisson.

Dall’austriaca Velden si riparte con un tris di tapponi che proporranno in tutto 15 salite chiamate a decretare il nome del vincitore della 73a edizione della corsa rosa. Il primo di questi è il meno adatto agli scalatori a causa della non trascurabile distanza che separa le cime dei colli dal traguardo di Dobbiaco, dove si giunge dopo esser saliti sui passi di Monte Croce Carnico, di Sella Valcalda, della Cima Sappada (sul quale è ancora fresco il ricordo del tradimento di Stephen Roche ai danni di Roberto Visentini al Giro di tre anni prima) e di Monte Croce Comelico. Infatti, mentre Boyer va in fuga assieme ad altri nel finale e ottiene un prestigioso bis, oggi non c’è battaglia tra i big, tutti assieme al traguardo, tutti attenti a non sprecare preziose energie in vista del più succulento tappone previsto per il giorno successivo.

È un giorno storico perché per la prima volta il Passo Pordoi non è semplicemente GPM di passaggio ma ospita l’arrivo di tappa, 171 Km dopo la partenza da Dobbiaco e aver affrontato strada facendo il Passo Valparola, il Gardena, il Sella e una prima scalata al Pordoi, al quale si fa ritorno dopo esser saliti sulla tremenda Marmolada, la salita più dura del Giro 1990. È il giorno della consacrazione, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di Bugno e del suo degno avversario: sulla Marmolada davanti rimangono solo loro due, che giungono assieme al traguardo dove Gianni finge una noia al cambio per rallentare e lasciar transitare per primo Mottet.

Ci sarebbe ancora una tappa di montagna da affrontare ma pare quasi impossibile, a questo punto, immaginare un crollo di Bugno nella Moena – Aprica, tappa che prima dell’arrivo in salita propone Costalunga, Mendola, Tonale e Mortirolo. È la prima volta che il passo valtellinese viene inserito nel percorso del Giro ma il tremendo versante di Mazzo è previsto in discesa dopo esser saliti da Edolo, con non pochi timori da parti di tutti, in prima battuta gli organizzatori che hanno predisposto un servizio di compressori per spazzare via dalla strada gli aghi caduti dai pini, che avrebbero potuto sollevarsi a causa dello spostamento d’aria provocato dal gruppo e finire negli occhi di qualche corridore. Mentre dietro non c’è praticamente corsa tra i big, davanti si laurea primo signore del Mortirolo il venezualeno Leonardo Sierra, che stacca i compagni di fuga e s’invola solitario nella discesa verso Mazzo, che lo terrorizza al punto da consigliargli, dopo un paio di cadute, di scendere di bici e percorrerne i tratti più scoscesi a piedi, espediente che gli consente comunque di imporsi all’Aprica con quasi un minuto di vantaggio su Alberto Volpi.

Il Giro è agli sgoccioli e dopo la facile tappa di Gallarate, che vede Baffi mettere nuovamente la propria ruota davanti a quelle degli altri velocisti rimasti in gara, si disputa al penultimo giorno di gara l’ultima delle tre cronometro inserite nel programma. Sono 39 i chilometri che si devono percorrere per andare da Gallarate al Sacro Monte di Varese, una distanza che Bugno potrebbe percorrere in scioltezza perché, a questo punto, nessuno può impensierirlo. Ma la maglia rosa vuole darà un’altra lezione di grande ciclismo, nonostante il diluvio che accompagna incessante l’intera giornata: mentre Gino Bartali lo consacra suo erede Gianni vola anche oggi, vuole vincere per tutti i tifosi che hanno sfidato il maltempo rischiando l’influenza e vince alla grande, impiegando poco più di 58 minuti per percorrere un tracciato che prevedeva anche una salita finale di 5 Km, distanziando di un minuto e venti secondi il secondo classificato, l’inossidabile spagnolo Marino Lejarreta, corridore in grado di disputare nel medesimo anno tutti e tre i grandi giri portandoli a termine (ricordiamo che all’epoca la Vuelta si disputava in aprile) ed è quel che fece nel trienno 89-90-91.

Arriva così il giorno della definitiva consacrazione di Bugno nell’albo d’oro, subito dopo la conclusione del Giro a Milano, dove si gareggia sull’inedito circuito del Parco Sempione, proposta per la prima volta proprio in questa edizione e che viene inagurato dallo sprint vincente di Cipollini. Per Bugno è un trionfo con la T maiuscola: il secondo, Mottet, ha un passivo di 6’33”, il terzo è Giovannetti a 9’01” mentre a chiudere la top ten è l’eroe del Mortirolo Sierra, 10° con 19’12” di ritardo

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

1a


2a


3a


4a - 1a


4a - 2a


5a


6a


7a


8a


9a tappa 90


10a


11a


12a


13a


14a


15a


16a


17a


18a


19a


Altimetria originaria 5a tappa

« Pagina precedente