LIEGI 1982, IL “BLITZ” DI CONTINI

aprile 27, 2020 by Redazione  
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I nostri racconti oggi ci portano sulle strade della Liegi del 1982, vinta dall’italiano Silvano Contini. E saranno le parole dello stesso Contini a riportarci a quella domenica pomeriggio di 38 anni fa

Nella seconda metà degli anni ‘70 i pomeriggi televisivi domenicali erano caratterizzati da due programmi-contenitore che si dividevano l’audience sulle due reti Rai allora esistenti.
Aveva cominciato Renzo Arbore nella primavera del 1976 con “L’altra domenica”, trasmessa sulla Rete 2 (l’odierna Rai 2); e la prima rete, nell’autunno dello stesso anno, aveva risposto con “Domenica in”, allora condotta da Corrado.
Noi, ragazzi degli anni settanta, seguivamo il programma dello showman pugliese, innovativo, divertente e scapigliato, al cui interno venivano trasmesse le dirette dei più importanti avvenimenti sportivi.
Durò fino al ‘79 quella trasmissione e, due anni dopo, il testimone venne preso da Gianni Minà il quale legò il suo nome alla conduzione di “Blitz”, un programma che, mescolando spettacolo e sport, si caratterizzava per puntate monotematiche, con interviste a personaggi famosi, com’era nello stile di quel giornalista.
Ricordo che una volta si collegò con il set di “C’era una volta in America”, intervistando Sergio Leone e Robert De Niro.
Nelle domeniche di Aprile era grande l’attesa per il collegamento in diretta con le classiche del Nord e i primi due successi di Moser alla Parigi – Roubaix vennero celebrati proprio nell’ambito della trasmissione di Arbore.
Domenica 11 aprile 1982, giorno di Pasqua, era in programma la Liegi-Bastogne-Liegi. Non la vincevamo da diciassette anni quella corsa e le nostre speranze – assente Moser – erano affidate a Saronni, a Visentini e a Contini.
Gianni Minà, quel pomeriggio, si collegò dal circo Orfei, una location inedita e suggestiva.
Non ricordo, in verità, se durante la trasmissione – tra un’ intervista a Nando Orfei ed una a Federico Fellini – venne aperta una finestra sulla corsa. Ricordo, però, che mi stupii non poco che non venisse ceduta la linea a De Zan per le fasi finali.
Improvvisamente, però, Minà annunciò: “Linea a De Zan!” e sullo schermo apparvero le immagini del traguardo, con un corridore che alzava le braccia al cielo sotto lo scriscione e l’urlo di Adriano “ Contini!!!!!”, proprio mentre il nostro connazionale tagliava vittorioso la linea d’arrivo della Doyenne.
Poco dopo, fine della diretta e ritorno al circo Orfei: la telecronaca più breve nella storia delle televisione italiana!
Di quella Liegi, di quello che non vedemmo alla televisione, ne abbiamo parlato proprio con Silvano Contini, indimenticato protagonista del grande ciclismo per oltre un decennio (dal 1978 al 1990), che con straordinaria disponibilità ha aperto il baule dei ricordi.
“Avevo partecipato all’edizione del 1980 in una giornata da tregenda. Nonostante fosse il mio esordio alla Doyenne restai con Hinault sino ad una quindicina di chilometri dal traguardo, poi fui vittima di una crisi di fame. Riuscii comunque a concludere la corsa quel giorno e a classificarmi al dodicesimo posto. Arrivammo in pochissimi, al traguardo: 21 corridori su 174 partiti”.
Silvano Contini è un vero gentiluomo: aveva un sorriso accattivante quando correva e, a sentirlo parlare, è facile immaginare che stia sorridendo anche dall’altro capo del telefono, mentre ci racconta di quella trasferta sulle strade del Nord, nella primavera dell’82.
“Quell’anno partecipai alla Gand-Wevelgem, arrivando nei primi dieci. Poi ci fu la vittoria alla Liegi e la settimana successiva presi il via anche alla Parigi – Roubaix. Fui particolarmente sfortunato, in quell’occasione: ero con Moser e De Vlaeminck ma forai due volte e dovetti abbandonare i sogni di gloria”
Ritorniamo a quella Liegi, Silvano. Com’erano le condizioni atmosferiche? Perché tu, con il brutto tempo, andavi bene.
“Si, il brutto tempo mi esaltava. Quel giorno faceva freddo e non mancò, oltre alla pioggia, neppure la grandine a farci compagnia!”
Le cronache raccontano di una lunga fuga di due comprimari, mentre si registravano i ritiri di Hinault, Raas, Saronni, Knetemann, Maertens, Panizza e Visentini. Poi, ad una quarantina di chilometri dall’arrivo, si formò una pattuglia di undici corridori: Contini , Prim, De Wolf, Criquielion, Grezet, Roche, De Vlaeminick, Van der Velde e Willems. Quale fu il momento decisivo della corsa?
“Eravamo sulla Redoute quando Criquielion accese le ostilità. Allo scatto del belga rispondemmo in tre: io, lo svizzero Mutter e Fons De Wolf, con il quale avevo un conto aperto”
Cos’era successo tra te e il belga?
“Alla Sanremo del 1981 De Wolf scattò sul Poggio. Io non mi feci sorprendere e cercai di prendergli la ruota. Ero a non più di dieci metri da lui, sul falsopiano, e sono convinto che l’avrei certamente raggiunto se non ci fosse stata di mezzo una moto belga. De Wolf ne sfruttò la scia e per me non ci fu nulla fare. Andò a vincere quella Sanremo, ma quella vicenda mi bruciava ancora”
Un motivo in più. dunque, per pareggiare il conto. Ci fu collaborazione tra i quattro attaccanti?
“Direi di si. Io avevo collaborato sino a sette-otto chilometri dal traguardo, poi mi risparmiai per la volata” .
Vi presentaste in quattro sul rettilineo finale. Tu fosti guardingo e furbo allo stesso tempo. Prendesti la ruota di De Wolf e lo passasti a pochi metri dalla linea d’arrivo. Pensavi di farcela? Non temevi per i crampi?
“No, mi sentivo bene ed ero fiducioso. Anche perchè nelle volate ristrette, di tre o quattro corridori, mi sentivo a mio agio, sapevo amministrarmi bene in quelle situazioni di gara non mi mancava lo spunto veloce. Ricordo che una volta, al Trofeo Matteotti, riuscii a battere pure un velocista come Gavazzi”
E quel giorno, a Liegi, mettesti la tua ruota davanti a quella di De Wolf. Grande vittoria e grande considerazione per te: Hinault, nei giorni successivi, ti avrebbe indicato come l’avversario più ostico per il Giro d’Italia che sarebbe partito da lì a poco.
“Con Hinault c’è stata amicizia, che dura tuttora. Era un grande campione che sapeva farsi benvolere, non voleva vincere tutto lui. Cercava amicizie nel gruppo. Al Lombardia del 1979 io sono stato alla sua ruota negli ultimi venti chilometri. Poteva staccarmi con un niente, invece avevo collaborato in precedenza e sono stato graziato. E così arrivai secondo”
A Liegi c’era anche Tommy Prim, tuo compagno di squadra, che regolò in volata il gruppetto dei battuti.
“Con Prim ho sempre avuto un ottimo rapporto, che conservo tuttora. L’ho visto l’ultima volta nell’ottobre scorso e l’ho sentito recentemente. Fino ad una decina di giorni fa mi diceva che usciva regolarmente in bicicletta. Poi anche in Svezia la situazione è peggiorata”
Il 1982 fu indubbiamente l’anno migliore della tua carriera. Quel Giro d’Italia che poteva essere tuo ed il terzo posto nella classifica finale del Superprestige Pernod ti avevano consacrato tra i migliori corridori nel panorama ciclistico internazionale. Nei due anni successivi, invece, la tua carriera subì un rallentamento. Come mai?
“Nel 1983 Gibì Baronchelli cambiò squadra e la Bianchi reclutò De Wolf. Fu una scelta sbagliata, secondo me, perché si formò un clan belga e l’ambiente si deteriorò. La mancanza di serenità all’interno del team ebbe il suo peso. Peccato, perché la Bianchi avrebbe potuto valorizzare Prim, un campione che aveva in casa“
Ed infatti nell’85, quando passasti all’Ariostea, tornarono i risultati degli anni migliori: il Midi Libre, il Tour de l’Aude , la Coppa Placci… Tu corresti sino al 1990 ed avesti la soddisfazione di indossare nuovamente la maglia rosa nel 1989. Avevi mai pensato di restare nel mondo del ciclismo?
“Quando ho smesso di correre ho staccato con il ciclismo e mi sono dedicato all’attività di famiglia (la falegnameria Prandi e Contini, che oggi produce infissi e serramenti di qualità, ndr). In verità alla fine del 1990 si era parlato di una nuova squadra, sponsorizzata dalla Irge: Bugno sarebbe stato il leader ed io il direttore sportivo, ma non se ne fece nulla”
Qualche uscita in bicicletta te la concedi ancora?
“Non in maniera assidua. Una volta ho partecipato ad un’edizione dell’Eroica. Due volte al mese esco in bicicletta con Beppe Saronni, che ha una casa dalla mie parti. Ci lega una vecchia amicizia ed un carattere simile: siamo schivi, due tipi casalinghi“
In effetti non ti si vede sui palchi delle grandi corse.
“Sai, Sono sempre stato un tipo riservato, che non ama la luce dei riflettori”
Eh, già! Sapevamo che Contini era un campione anche di modestia e di riservatezza, Quando passò professionista si era appena diplomato ragioniere e questa circostanza veniva sempre sottolineata da De Zan, durante le interviste.
“Riuscivo a conciliare studio e allenamenti, anche se non era facile. D’altra parte i miei genitori non mi avevano dato scelta: o finisci la scuola o smetti di correre,mi dicevano! Ricordo che alla vigilia dell’esame di maturità vinsi la mia prima corsa tra i dilettanti, una corsa internazionale. L’indomani mostrai l’articolo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport al mio professore di diritto, il professor Salvi, appassionato di ciclismo. E passai la maturità”, ridacchia Silvano.
Quest’anno la Liegi non si correrà A distanza di trentotto anni dalla tua vittoria, qual è il ricordo più intenso di quel giorno?
“Senz’altro l’entusiasmo indescrivibile dei tantissimi italiani presenti, emigrati in Belgio a cercare lavoro, che mi festeggiarono con un calore commovente. Per loro fu motivo di orgoglio che un corridore italiano avesse sconfitto un campione belga . L’indomani, sui posti di lavoro, avrebbero potuto “sfottere” i colleghi del Paese che li ospitava”
Erano passati diciassette anni dalla vittoria di Carmine Preziosi.
“Ma Preziosi era naturalizzato belga! In effetti fui io il primo italiano a vincere la Liegi. Ed ho aperto la strada a tanti altri successi azzurri, da Argentin in poi .”
E questo è l’unico momento in cui Silvano abbandona – finalmente – la sua modestia per rivendicare con orgoglio quella straordinaria vittoria, la più importante di una carriera impreziosita da quasi cinquanta successi.
La televisione, quel giorno, lo scippò – incredibilmente – della gloria: per noi, che alla Cuneo- Pinerolo dell’82 lo avremmo applaudito sul Sestriere mentre, digrignando i denti, portava l’ultimo isperato assalto al primato di Hinault, Silvano Contini resta uno dei campioni più apprezzati della nostra giovinezza. È un nostro coetaneo e parlare con lui è stato come chiacchierare con un vecchio compagno di scuola di cui non avevamo dimenticato la simpatia, la gentilezza ed anche la grinta, quando serviva: proprio come quella volta a Liegi, in una domenica di primavera dell’82.

Mario Silvano

LE QUATTRO LIEGI DI VALVERDE – PARTE SECONDA (con il ricordo di Scarponi)

aprile 26, 2020 by Redazione  
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Concludiamo la rassegna sulle quattro Liegi-Bastogne-Liegi vinte da Alejandro Valverde. Oggi vi riproporremo le cronache del 2015 e del 2017, l’ultima delle quale scritta a poche ore dalla drammatica scomparsa di Michele Scarponi

VALVERDE, SONO TRE! (2015)

Se vincere la Liegi-Bastogne-Liegi è in assoluto un’impresa notevole, vincerla da favorito unico, pedalando per 253 km con un bersaglio sulla schiena, è qualcosa di eccezionale; e proprio di questo è stato capace Alejandro Valverde, al termine di una gara in cui ogni avversario era partito con il preciso intento di non portare il murciano allo sprint. Troppo forte l’ex Embatido, e forse troppo poco creativi i rivali, disabituati ormai a correre all’attacco, perlomeno quando il termine “attacco” indica qualcosa di diverso da una girandola di allunghi senza pretese negli ultimi 20 km. Unica eccezione la Astana di scuola Vinokourov, la cui enorme intraprendenza non è stata tuttavia supportata da altrettanta brillantezza degli interpreti.
Sono stati proprio i kazaki, freschi di conferma della licenza, ad infiammare la corsa, peraltro con largo anticipo sulle più ottimistiche tabelle di marcia: già sullo Stockeu, a quasi 80 km dal traguardo, dopo aver contribuito a ridurre ad un pugno di secondi il vantaggio della fuga della prima ora di Ulissi, Montaguti, Vergaerde, Chevrier, Minnaard, Turgis, Benedetti e Quaade, gli uomini di Nibali hanno mandato in avanscoperta Tanel Kangert, scatenando un florilegio di reazioni forse neppure immaginato. Guidati da Izagirre, infatti, non meno di una ventina di corridori si sono riportati sull’estone, con un’altra decina di elementi a poca distanza, dando per un attimo l’impressione che la corsa potesse impazzire.
Il solito, fatale istante di incertezza – sulla falsa riga di quello che a Ponferrada frenò la possibile maxi-fuga promossa dall’Italia a due terzi di corsa – ha però consentito ad un plotone ad un tratto spaesato di riparare il danno, concedendo via libera soltanto al ben più gestibile quintetto lanciato di lì a poco ancora da Kangert, al quale si sono accodati Chaves, Arredondo, Boaro e Scarponi.
I due Astana, chiamati dalla superiorità numerica a svolgere la maggior parte del lavoro, hanno seminato Boaro e Arredondo già sul Rosier, fino a dilatare il margine sul gruppo ad un massimo di 1’05’’. Con l’avvicinarsi della Redoute, Movistar e Katusha hanno provveduto a riportare il distacco intorno ai 20’’, senza rallentare nemmeno quando una maxi-caduta ai 40 dall’arrivo ha spezzato il plotone ed escluso dalla contesa nomi del calibro di Rolland, Roche, Gerrans (già acciaccato) e – soprattutto – Daniel Martin. Nibali ha evitato miracolosamente di restare coinvolto, frenando all’ultimo centimetro utile; un contrattempo costato qualche secondo – recuperato comunque in pochi chilometri – e forse anche un rinvio del successivo assalto Astana.
Com’è ormai consuetudine, il passaggio sulla Redoute è stato svilito da un gruppo transitato a ritmo di transumanza, che soltanto in cima è stato scosso dal tentativo di Siutsou, durato giusto il tempo necessario ad un primo piano in diretta tv. Scarponi e Chaves, sbarazzatisi di un esausto Kangert ai piedi dell’ascesa simbolo della Doyenne, non hanno potuto comunque resistere più di qualche chilometro ancora, permettendo al gruppo di presentarsi compatto ai piedi della Roche-aux-Faucons.
La salita cara ad Andy Schleck, solito infiammare qui la corsa nei suoi giorni di gloria, si è questa volta dovuta accontentare di assistere all’attacco di due outsider – sia pur di lusso – quali Kreuziger e Caruso, osservati da un gruppo ancora pressoché inerte. Soltanto nel successivo tratto di falsopiano la Astana, dopo aver inutilmente tentato di riportare tutti sotto con uno stracotto Taaramae, ha ridato fiato al suo piano tattico, spedendo Fuglsang in caccia del duo di testa. Con una notevole progressione, il danese è riuscito a trasformare la coppia in un trio, e chissà quale fisionomia avrebbe potuto assumere la corsa se un quintetto di contrattaccanti composto da Rui Costa, Bardet, Visconti, Moreno e Alaphilippe, non avesse mancato l’aggancio per un pugno di metri, prima che il marcamento reciproco portasse al naufragio l’azione.
Grazie ad un superlativo Stybar, i favoriti hanno potuto approcciare il Saint-Nicolas con un distacco di appena una decina di secondi dal terzetto di testa, prontamente azzerati da una progressione dimostrativa di Valverde e da un’ugualmente inefficace azione di Nibali, che in quel frangente produceva tuttavia il massimo sforzo. Henao e Caruso hanno a loro volta provato a scremare i resti del gruppo, riuscendo a far fuori un paio di grossi calibri (Gilbert e Kwiatkowski, oltre a Nibali, successivamente rientrato in vista dell’ultimo chilometro), ma non a promuovere un attacco degno di tale nome.
Caruso (nessuna omonimia: sempre Giampaolo, oggi inossidabile) si è incaricato di portare tutti assieme sotto lo strappo finale di Ans, dove Dani Moreno ha provato a giocare d’anticipo, con Joaquim Rodriguez ad incollarsi alla ruota di Valverde per chiudere il murciano in una tenaglia. Qui, però, Valverde – tante volte deriso con pieno merito per la sua insipienza tattica – ha messo in piedi un capolavoro strategico: anziché chiudere subito su Moreno, esponendosi a probabilissimi scatti in contropiede, ha atteso qualche centinaio di metri, inducendo addirittura a credere che le gambe lo avessero abbandonato sul più bello; soltanto in un secondo momento è arrivata la reazione, e quando Moreno è stato finalmente riassorbito, in vista della curva a sinistra che l’anno scorso costò la gara ad un altro Daniel (Martin), lo spazio per anticipare la volata era ormai esaurito.
Nello scenario per lui ideale, Valverde non ha tradito, mangiandosi facilmente i rivali di Firenze, Rodriguez e Rui Costa – 3° e 4° rispettivamente -, e trovando ancora in Alaphilippe, già secondo mercoledì alla Freccia e settimo all’Amstel, l’avversario più credibile, capace di una piazza d’onore alla Liegi prima dei 23 anni. Kreuziger ha trovato ancora la forza di guadagnarsi un ottimo 5° posto, mentre Pozzovivo provvedeva a piazzare il tricolore italiano in top 10, sia pur con un’ottava piazza che non può soddisfare fino in fondo.
Con il senno di poi, è fin troppo facile immaginare quali accorgimenti tattici da parte degli avversari avrebbero potuto complicare la vita a Valverde, messo davvero sotto pressione soltanto negli ultimi 20 km, e secondo piani strategici di facile lettura. La sensazione di generale mancanza di forze che ha destato la scalata al Saint-Nicolas e la disarmante progressione finale dello spagnolo, tuttavia, autorizzano a credere che i rivali, quest’oggi, potessero soltanto scegliere come farsi battere.

Matteo Novarini

MESTA LIEGI: ADDIO MICHELE (2017)

È uno strazio pensarci ora, ma Michele Scarponi è stato – anche – il miglior corridore italiano per la Liegi fra tutte le generazioni successive all’epoca dorata dei Bettini, Rebellin e Di Luca. Con la solita umiltà sorniona, non ha mai strombazzato la propria solidità nella decana delle Classiche, quella che sa sorridere anche agli scalatori ma solo se se dotati di guizzo, intuito e classe: ha sempre coltivato in modo quasi intimo una storia d’amore personale con la severa signora belga, sfiorando il podio all’esordio, un neoprofessionista di appena ventitré anni col completo zebrato della Domina, e di nuovo quando fu quinto dieci anni dopo, all’ultima stagione in Lampre, non mancando di intascare nel frattempo un altro paio di top ten. I Gasparotto o Nibali, invece, pur avendo dato una più netta impressione di poter agguantare la vittoria, non han brillato che per un paio di stagioni su queste strade. Il ricordo più recente e indelebile è quello di Scarponi che nel 2015 scala la leggendaria Redoute in testa alla corsa, mezzo minuto davanti al gruppo, con il giovanissimo e talentuoso Chaves in scia. Stava lavorando in funzione del capitano Fuglsang, oggi in lacrime alla partenza, ma quell’istantanea di Michele che scollina davanti a tutti sulle rampe del mito è un piccolo regalo che si fece e ci fece: proprio oggi acquista una rilevanza speciale.
È bello allora che arrivi qui il primo di una serie di omaggi a Michele Scarponi da parte dei suoi amici nel mondo del ciclismo, e la parola “amici” per una volta non sembra abusata come troppo spesso accade: Valverde, vincitore con gli indici e lo sguardo puntati al cielo, stenta a parlare nell’intervista, rifiuta come prima domanda di commentare il finale di gara e impone, anzitutto, il ricordo commosso, con la voce rotta e gli occhi rossi di pianto, del collega italiano e della famiglia di questi, a cui devolverà il premio.
Lo sprint folgorante di Valverde, a conclusione di una progressione che sgretola e spazza via la concorrenza, è uno dei pochi gesti tecnici che danno lustro a una giornata a cui, oggi, non ci sentiamo di rimproverare il solito, oppressivo grigiore e l’andamento mesto, contratto, come di chi corra con il cuore in un pugno. Sembra ormai questo il destino costante della Liegi, in attesa di novità che la ravvivino, però, solo per quest’anno, è davvero già molto riuscire a trovare la voglia di correre, spingere, scattare, soffrire.
Poche note di cronaca. La fuga del mattino dilaga, ma si sfalda sulla Rocca dei Falchi nonostante i sussulti finali dell’indefessa coppia Cofidis con Rossetto e Perez. Dietro bisogna aspettare il Maquisard affinché prenda corpo una mossa robusta, con in luce gli ottimi De Marchi, Brambilla e Benedetti rodando i motori per il Giro, assieme a nomi noti come Latour o Betancur, che fa respirare i suoi compagni Movistar fino ad allora in testa al gruppo, o la coppia Dimension Data di Fraile e Haas. La Redoute però, invece che spaccare la corsa, la rimpasta, con le trenate di Sebastian Henao e Kreuziger che ricuciono i distacchi. Eccoci alla Rocca dei Falchi dove ci prova l’altro Henao, il più forte Sergio Luis, con Kreuziger stavolta più aggressivo che difensivo. La testa del gruppo si rimescola con gli abituali giri di mano che vedono gruppetti diversi provare a sganciarsi tra scatti e controscatti – tutti piuttosto timidi, invero – finché non se ne va un’altra buona azione con il sempre coraggioso Tim Wellens a fare la parte del leone, più di nuovo un paio di italiani, Villella che scorta il suo capitano Woods, e Damiano Caruso che sembra pensare soprattutto ai suoi capitani belgi rimasti in gruppo, Van Avermaet e Teuns. Ci sono anche l’assatanato Kreuziger e la promessa Sam Oomen (oltre a Vuillermoz e Konrad).
La Sky è rimasta fuori dal mazzo e si incarica dunque di menare le danze dietro, levando le castagne dal fuoco a un Valverde provvisoriamente a corto di compagni. Moscon, il trentino 23enne che già fu splendido alla Roubaix, viene speso in un’infinita menata da mulo che smonta le velleità degli attaccanti, dei quali si rilancia in avanti solo l’indomito Wellens, senza che però il suo vantaggio faccia mai sperare che possa superare il Saint-Nicolas, la salita degli italiani che ci introduce al gran finale. Fedele al suo nome, la côte tra le case di mattoni imbruniti si apre e si chiude con begli spunti italici: il primo è ancora Villella, che allunga fluido, e viene agguantato solo dalla duplice fucilata di Sergio Henao e Albasini, ansiosi di anticipare. Il gruppo si ricompatta grazie all’intensità di Ion Izagirre altro gregario più o meno involontario di Valverde (in Movistar l’anno scorso, ma ora sarebbe pure capitano in casa Bahrein-Merida!): tuttavia prima che spiani l’ultimo metro del Saint-Nicolas squilla di nuovo un acuto italiano, con Formolo che allunga decisissimo e prende il largo, mentre dietro si tentenna.
Formolo regge bene sui saliscendi infarciti di sanpietrini, ma lo strappo finale di Ans incombe: il primo allungo è di Fraile, ma le polveri sono bagnate da quella fuga di tanti km fa.
Al fulmicotone la sparata di Daniel Martin ai -800 metri dal traguardo, lui sì prende il largo e dribbla Formolo in scioltezza: dietro però è l’Orica che s’incarica di tirare il guinzaglio, peraltro con un’azione confusa in cui non è chiaro se Adam Yates e Albasini collaborino o pensino ciascuno a sé – l’impressione è che entrambi pensino a Valverde, finiranno infatti settimo e ottavo. Quando Valverde innesca la sua progressione, lo sparpaglìo è graduale ma inesorabile, la lunga fila indiana di una ventina di uomini che serpeggiava per le vie delle periferie belghe si sbriciola, perdono le ruote i Bardet, i Majka, i Van Avermaet, mentre Valverde piomba su Daniel Martin come il falco su un coniglio, rifiata in curva, riapre il gas in piena spinta ma in appena pochi metri già capisce di aver schiantato tutti e con ampio anticipo si rialza, leva gli indici, guarda lassù, oltre il cielo di polvere e limatura, lasciandosi alle spalle gli affanni di Martin ancora secondo, di Kwiatkowski in rimonta affannosa, di Matthews che sprinta forte in salita dopo aver sgomitato sorprendentemente sulla Redoute, di Izagirre indomito, e poi tutti gli altri. Pozzovivo dodicesimo, primo degli italiani nell’ordine d’arrivo, ma il primo italiano, oggi, passava il traguardo con Valverde.
Comunque Scarponi oggi sarebbe stato contento dell’azzardo e della smorfia sofferta di Formolo, delle sortite di Villella, delle puntate offensive in funzione dei capitani fatte da De Marchi, Brambilla o Caruso, di Moscon duro, umile e fedele, del proprio capitano di anni anteriori Fuglsang, che arriva a dieci secondi dopo una gara cominciata con un pianto a dirotto ma altresì del compagno e collega Cataldo che, già distrutto emotivamente al via, non ce l’ha fatta a finire.
Eppure, va detto, questa corsa da italiani vede gli italiani anche se degnissimi sempre più outsider e gregari. Forse c’è un qualche rapporto con il calo di oltre il 40% dei km in bici percorsi all’anno per abitante, in Italia rispetto al 1997, vent’anni fa, quando Michele era juniores?
Michele Scarponi fu tra i primi e più entusiasti professionisti a sostenere, l’iniziativa #salvaiciclisti, innescata ormai cinque anni fa. Da allora i ciclisti morti in Italia hanno superato i milleduecento. Michele è uno fra le centinaia di ciclisti che ogni anno vengono ammazzati sulle strade italiane, chi per lavoro – come nel suo caso, o di chi in bici ci va in fabbrica o in ufficio – chi per il puro piacere di spostarsi senza rumore e inquinamento. Non credete a chi dice che è perché la bici è intrinsecamente pericolosa: la straripante maggioranza delle morti è causata da un veicolo a motore. Non credete a chi dice che non potrebbe essere diversamente, perché le strade sono fatte per le automobili: negli altri Paesi europei la situazione è ben diversa rispetto all’Italia. In Francia, dove il ciclismo, numeri alla mano, si pratica quanto in Italia, i morti si attestano intorno ai 150 all’anno. La media italiana dal 2001 al 2015 è di 300.
L’Italia è di gran lunga il Paese con la peggior combinazione di pratica ciclistica relativamente moderata e gran numero di morti: la Polonia, con cui ci disputavamo il poco ambito trofeo, ha rivoluzionato la propria sicurezza stradale nell’ultimo quinquennio. La Spagna, vent’anni fa uno dei Paesi meno pedalatori del continente nonostante il mito Indurain, ha cambiato in modo sempre più radicale il proprio codice della strada dal 2001 al 2014, con governi di ogni colore, e nell’ultimo biennio il ciclismo amatoriale ha scavalcato calcio, nuoto e atletica diventato lo sport più praticato nel tempo libero.
L’isteria dei guidatori italiani, sulle strade o in rete, ignora che vent’anni fa la presenza ciclistica sulle strade del Belpaese era quasi doppia e l’auge recente ha recuperato solo parte di quel prezioso patrimonio. Come si circolava allora? E come faranno mai in Germania, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Corea del Sud con tre, quattro, dieci volte i ciclisti che ha l’Italia? Saranno tutti in coda, o viceversa la mobilità è molto più fluida ed efficiente per tutti?
Mentre in altri Paesi, come appunto la Spagna, le leggi obbligano i guidatori di veicoli motorizzati a contemplare perennemente la possibilità della presenza di un ciclista per reagire di conseguenza (dal metro e mezzo di distanza obbligatoria per sorpassare, fino ai limiti di velocità ridotti in orari di forti flussi ciclistici, o all’obbligo di considerare il gruppo come un tutt’uno e quindi attendere il passaggio fino all’ultimo ciclista nelle rotonde, e molto altro), in Italia invece non si stimola questa cura costante, per cui il ciclista italico o è invisibile o disturba. Se l’occhio non si abitua a guardare sempre con la massima attenzione per individuare ciclisti, pedoni, motociclisti, insomma, la cosiddetta utenza debole, ebbene la probabilità del “non l’ho visto” incrementa esponenzialmente. Non è un caso: è un evento reso possibile o probabile da un contesto. Magari sei controluce, hai fretta, non vedi bene, e se non c’è niente “di grosso” in arrivo, ti butti. Con l’incuranza di chi non sa o finge di non sapere che sta conducendo, a tutti gli effetti, una potenziale arma omicida.
Il Presidente della Federciclismo dichiara che per Scarponi si è trattato di un “destino scritto male”: ad essere scritto male è il codice della strada italiano. “Si sta lavorando”, dice Di Rocco: ma è in carica da dodici anni e mentre in questo stesso periodo altre nazioni hanno fatto passi da gigante sia nella pratica ciclistica, sia nella sicurezza, noi arranchiamo nella prima e sprofondiamo nella seconda. Se davvero ci si tiene, sarebbe il caso di fare un gesto di rottura e dare le dimissioni, di fronte a un caso così eclatante. Che cosa ha fatto la FCI, ad esempio, dall’incidente gravissimo di Marina Romoli a oggi? Quali azioni concrete, quali proposte, quali pressioni sulla politica? Incrociare le dita, sperando che non accadesse qualcosa di ancora più grave? Con centinaia di morti all’anno non è questione di auspici, è solo una questione di tempo. Il tempo corre, i ciclisti vengono uccisi. E fare ciclismo diventa sempre più duro perché ancor più dei morti è il non sentirsi rispettati che fa crescere, giustamente, la paura. Michele – lo dichiarò – percepiva un aumento dei rischi e dell’aggressività del traffico, ma rimaneva ad allenarsi in Italia perché amava la propria famiglia e perché amava questo Paese: sarebbe ora che il Paese ricambiasse l’amore che Scarponi e i ciclisti e cicliste italiani di ogni età, passione, velocità riversano sulle strade dell’Italia.
Scarponi non era in doppia fila. Non era passato col rosso. Non parlava con un amico. Non era in gruppo. Non era uno “che crede di essere al Giro”, perché il Giro lui sapeva benissimo che cosa fosse. Non era uno “che si compra la bici da corsa poi non la sa guidare”. Non si prendeva rischi. Non faceva il prepotente. Aveva il casco.
E noi non dovremmo più tollerare queste sciocchezze sulle centinaia di ciclisti che come Michele vengono uccisi da mezzi a motore, per poi subire l’insulto di vedersi colpevolizzati senza alcun fondamento logico.
Se l’Italia fosse un Paese al passo con gli altri, almeno cento, centocinquanta, duecento vite di ciclisti all’anno non andrebbero perse. È pura matematica. E magari, tra esse, anche quella di un grande uomo e grande campione come Michele Scarponi. O magari no, magari sarebbero stati altri “i morti in meno”: il rischio è e sarà sempre parte del ciclismo come della vita, ogni ciclista lo accetta. Ma vogliamo davvero tollerare di rimanere con il dubbio che, se solo avessimo costruito una cultura stradale migliore, lui, Michele, come tanti altri, sarebbe tornato a casa leggero sui pedali?

Gabriele Bugada

Alejandro Valverde vince la sua ultima Liegi con Scarponi nel cuore

Alejandro Valverde vince la sua ultima Liegi con Scarponi nel cuore

LE QUATTRO LIEGI DI VALVERDE – PARTE PRIMA

aprile 25, 2020 by Redazione  
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Si è fermato ad un passo dal primato di Eddy Merckx, unico corridore a vincere per cinque volte la “Doyenne”. StIamo parlando di Alejandro Valverde, che difficilmente domani avrebbe potuto eguagliare il cannibale a causa delle oramai 40 primavere, raggiunte proprio in questo 25 aprile. Ne approfittiamo per farvi rivere le quattro affermazioni dell’Imbatido nella Liegi-Bastogne- Liegi, cominciando con quelle conseguite nel 2006 e nel 2008. Buon compleanno Don Alejandro!

GLI ITALIANI FANNI LA GARA, MA VALVERDE LI CASTIGA TUTTI (2006)

Un’Italia generosa battuta dall’atleta più in forma del momento. E’ riassumibile così la 91esima edizione della Liegi-Bastogne-Liegi, che ha incoronato Alejandro Valverde come il dominatore della settimana, dopo il successo di mercoledì scorso nella Freccia-Vallone. Il talento iberico, 26 anni ancora da compiere, è sbocciato definitivamente, ed in attesa di inquadrare in maniera decisa quale possa essere il suo futuro, diviso per ora tra Classiche, Campionato del Mondo e Grandi Giri, ha iniziato a togliersi le prime grandi soddisfazioni.
Vediamo in breve come si è svolta la gara, che ha vissuto sull’azione nata al chilometro 34 ed al quale hanno contribuito ben 25 atleti, in rappresentanza di 20 squadre: tra gli uomini più pericolosi, Voigt (CSC), secondo nel 2005, la coppia della Rabobank composta da Kolobnev e Flecha, Rogers e Wesemann della T-Mobile, Unai Etxebarria (Euskaltel-Euskadi), Serrano (Liberty Seguros) e Nibali (Liquigas). Quando mancavano poco meno di 100 chilometri al traguardo, ed il gruppo, che inizialmente aveva lasciato fare acquisendo 7 minuti di margine stava per rinvenire, Wesemann ha provato la sortita solitaria, arrivando a guadagnare 2 minuti sugli immediati battistrada, prima di essere raggiunto poco a poche pedalate dell’imbocco della Redoute, dopo un tentativo di allungo di Gilbert. A quel punto i migliori erano già tutti in rampa di lancio. A scandire il ritmo sulle prime rampe della Redoute erano gli uomini di Cunego, con Stangelj su tutti, prima del cambio di ritmo di Basso che spianava la strada proprio all’attacco del veronese. Il piccolo Principe si alzava sui pedali e provava a scremare il gruppo, riuscendovi. Alla sua ruota, i più brillanti sembrano ancora i nostri portacolori, con Basso, Bettini, Di Luca, Simoni, Valverde, Boogerd, pronti a portarsi alla ruota del vincitore del Giro 2004. Tra i più attivi da segnalare anche Martin Perdiguero, che a 200 metri dello scollinamento tentava di nuovo di forzare l’andatura. Si usciva così dalla Redoute con il gruppo dei migliori diviso in due. Nel gruppo dei ritardari, da segnalare la presenza di tutti i compagni di Paolo Bettini, rimasto quindi solo davanti, e di Stefano Garzelli, nuovamente in ritardo rispetto ai migliori.
Ci si è avviati così verso il lungo tratto in discesa, apripista della salita dell’Università. E proprio mentre Michele Bartoli (vincitore a Liegi nel 1997 e nel 1998) in diretta Rai confermava la pericolosità di questo tratto per azioni a sorpresa, ecco che Joaquin Rodriguez tutto solo allunga, ed alla sua ruota si porta Boogerd. I due, o meglio, il solo Boogerd, visto che Rodriguez non ha dato cambi per favorire il recupero del gruppo nel quale era presente il suo capitano Valverde, guadagnano nel volgere di pochi chilometri un margine che oscilla tra i 40 ed i 50 secondi. Sulla salita dell’Università si inizia a far sul serio. Da dietro intanto il gruppo era diventato forte di una quindicina di unità in più, e tra i rientranti erano Giuliano Figueras (Lampre-Fondital) ed Alberto Contador (Liberty-Seguros) a forzare per ricucire lo strappo. Contador ben presto si lasciava sfilare sulla sinistra ed il suo posto veniva occupato da Kashechkin, suo compagno di squadra, che allungava portandosi a ruota Bettini e Basso. Il gruppo, grazie all’azione del kazako, iniziava a guadagnare, arrivando ad un margine di 38’’ in prossimità dell’ultimo chilometro della salita. E proprio quando mancavano ormai poco meno di 500 metri allo scollinamento, era Bettini a tentare una rasoiata, all’apparenza micidiale, alla quale Valverde non riusciva a reagire. Il livornese guadagnava 11’’ sui diretti avversari ed era adesso a soli 19’’ dal duo dei battistrada. Qui, però, il tratto in autostrada che porta dalla salita dell’Università all’imbocco della Cotè de Saint Nicolas, è fatale al Grillo, che tutto solo e controvento non può inventarsi più nulla. Si rialzava sui pedali e veniva raggiunto.
Quando inizia l’ultima vera asperità di giornata prima dell’ultimo chilometro, la coppia al comando ha ancora 28’’ da gestire. Boogerd però, non ne ha più. Dietro è Di Luca a dettare il ritmo, mentre dopo il forcing dell’abruzzese, si muove Miguel Angel Martin Perdiguero, che allunga deciso e si riporta sulla coppia al comando. Poi è il momento di Sinkewitz che raggiunge il nuovo terzetto di battistrada, subito riacciuffato anche da Valverde. Si scollina in 12, coloro che andranno a giocarsi il successo: le uniche squadre con due atleti sono la Csc (con Basso e Schleck) e la Caisse d’Epargne con Valverde e Rodriguez. Poi Cunego (Lampre-Fondital), Bettini (Quick-Step), Di Luca (Liquigas), Horner (Davitamon), Boogerd (Rabobank), Perdiguero (Phonak), Kashechkin (Liberty Seguros) e Sinkewitz (T-Mobile). Mancano ormai poche centinaie di metri. In caso di arrivo allo sprint, come si commenta anche in sede di commento Rai, i più veloci appaiono Valverde, Perdiguero, Cunego e Bettini. Alla Csc, tagliata fuori in caso di arrivo a ranghi compatti, non resta che la carta dell’iniziativa personale. Prova prima Schleck, che parte bene ma poi si pianta, poi a sorpresa allunga anche Perdiguero, ed infine, sotto la flame rouge, è il momento del nostro Ivan Basso. Attacco telefonato, come quello di Boogerd pochi attimi dopo. Riprova di nuovo Sinkewitz ed alla sua ruota si porta Cunego, che poi si sposta. Lo sprint è lanciato, Sinkewitz a centro strada parte lungo, Valverde lo salta facilmente e Bettini non ha la forza di uscirgli di ruota. Sarà secondo, Cunego terzo e Sinkewitz quarto davanti a Boogerd. Di Luca, ormai privo di forze, non riesce a sprintare ed è nono, davanti a Basso.
Fine dei giochi, fine della Campagna del Nord. Analizziamo in breve quanto accaduto oggi a Liegi.
Valverde ha vinto perché è, indiscutibilmente, il più forte allo sprint. Ma questo da solo non basta. Intelligente la mossa tattica di mandare Rodriguez allo scoperto, in quanto probabilmente il compagno non sarebbe stato utile alla sua causa se fosse arrivato tra i migliori sotto al Saint Nicolas. In quel modo, invece, andando in avanscoperta senza tirare, ha conservato le forze per aiutare il capitano sul traguardo di Ans. In quattro giorni l’iberico si è scoperto grande. Quale sarà il suo futuro è ora difficile ipotizzarlo. Capace di vincere allo sprint, in salita, di avere la tenuta sulle tre settimane, il futuro sembra suo. Impressionante, oggi e nella Freccia, soprattutto l’intelligenza tattica con la quale si è mosso. Lo spagnolo non si è mai visto in prima posizione, se non sulla linea di traguardo. Non ha sprecato un’energia in più rispetto al dovuto, si è nascosto sempre e nell’unica fase in cui ha percepito il timore di doversi muovere, nel momento dell’affondo di Bettini, ha probabilmente desistito per volontà propria. Inutile infatti in quel momento seguire il livornese. Inutile esporsi al vento con una condizione così. Ora la curiosità riguarda quello che potrà fare al Tour. E poi un monito per gli azzurri, riguarda Salisburgo. Un Valverde così, o lo stacchi prima, o gli regali la maglia iridata.
Per Paolo Bettini il secondo posto ha un sapore amaro. La condizione non è sicuramente né quella del Giro di Lombardia dello scorso ottobre, né quella sfoggiata ad inizio anno sulle strade della Tirreno-Adriatico. Tuttavia, la mancanza di validi compagni, ha fatto il resto in questa settimana. Perché è ormai appurato che il livornese, se ha la gamba va, ma se ha compagni che possono tirare per ricucire, è tanto di guadagnato. Se non si fosse mosso in prima persona, l’azione di Boogerd avrebbe potuto assumere connotati ben diversi. Se non avesse trovato davanti uno dei corridori più veloci del globo, la Liegi sarebbe sua. Senza se, il suo Nord ed il suo palmares si sarebbero arricchiti di una pagina importante, l’ennesima, che è invece, per ora, rimandata. Rimane difficile comprendere il motivo dell’attacco sulla salita dell’Università. Tardivo e inutile. Ed un inutile spreco energetico. Per l’ennesima volta troppo generoso, ma non se ne può fargliene una colpa. Il Grillo è così. Prendere o lasciare.
Un discorso a parte merita il nostro Damiano Cunego. Qui in Belgio è arrivato in punta di piedi, silenzioso, consapevole del fatto suo. E ha fatto capire a tutti di che pasta sia fatto. In primis ai prossimi avversari in chiave giro, e poi anche a coloro i quali si dovranno scontrare con il Piccolo Principe nelle classiche del futuro. Sì, perché oggi, tra i primi classificati, Damiano era il più giovane. E poco importa se la vittoria non sia arrivata “Terzo è buono, la vittoria sarebbe stata ancora meglio”, ha detto Cunego ai microfoni di Alessandra De Stefano, perché per ora può andare bene così. Se voleva dare una dimostrazione di forza agli avversari della corsa rosa, lo scatto sulla Redoute basta e avanza, se voleva avere indicazioni sui compagni di squadra e sulla dedizione con la quale si applicano alla sua causa, non si può che essere soddisfatti. Cunego, oggi, ha corso davvero bene, accelerando quando ce n’era bisogno e stando a ruota quando non aveva senso correre allo scoperto. La condizione è forse migliore di quella di due anni fa. E qui, tra un anno, potrà tornare per vincere. Come? Semplicemente “facendo fuori” Valverde prima dell’ultimo chilometro. Perché le qualità ci sono, e gli avversari oggi hanno iniziato a guardarlo con quel rispetto, che spesso, nella passata stagione, era mancato.
Un omaggio particolare anche per Michael Boogerd. Stanco di essere battuto puntualmente allo sprint, l’olandese della Rabobank ha provato quando mancavano poco meno di 30 chilometri al traguardo. La nuvoletta fantozziana non lo ha abbondanato nemmeno oggi. Un solo compagno di fuga, quello più sbagliato in assoluto. Il gregario dell’uomo più forte. Pazienza, la Liegi per l’olandese non è arrivata neanche in questa stagione, ma si può affermare che il vecchio Micky sia stato il vero animatore della Doyenne, ed il quinto posto non è che una conferma. Essere eterno piazzato non significa non valere, anzi. Arrivare sempre nei primi, significa altresì dimostrare una costanza su standard elevatissimi, una dedizione ed un amore per il mestiere immutato nel corso delle stagioni. E chissà che prima o poi, prima che la bicicletta venga appesa al chiodo, la decana delle classiche non possa sorridere anche a lui.
Subito fuori dal podio si è piazzato Sinkewitz, forse il più costante nell’arco dell’intera settimana. Oggi, al contrario di quanto avvenuto domenica scorsa all’Amstel, però, il tedesco ci ha provato veramente. Prima sotto lo striscione dell’ultimo chilometro, poi lanciando la volata lunga. Peccato soltanto che il suo spunto veloce faccia il solletico ad avversari che rispondono al nome di Valverde o Bettini. Desta comunque scalpore l’attesa esplosione dell’uomo T-Mobile, che sta confermando una crescita graduale. Il suo futuro dovrebbe essere quello da uomo da Grandi Giri, ma ha dimostrato di sapersi muovere bene anche al Nord. E poi chissà, se davvero Ullrich dovesse presentarsi in condizioni menomate ai nastri di partenza del Tour de France, potrebbe essere proprio Sinkewitz l’uomo di punta T-Mobile.
Danilo Di Luca, invece, la Doyenne la sogna dal giorno in cui si è seduto su una bicicletta. Dopo aver deluso nella passata stagione, quest’anno ci ha provato. Che abbia forse speso troppo in vista dello sprint? Il discorso lascia il tempo che trova. E’ vero che l’abruzzese si è trovato svuotato proprio quando c’era da lanciare lo sprint, ma è altrettanto vero che il suo spunto veloce non vale quanto quello dei primi tre piazzati. Per questo appare giusto il suo forcing sul Saint-Nicolas. Forse uno scatto secco sarebbe stato più redditizio, ma va bene lo stesso. Oggi il ragazzo di Spoltore non ha perso. Ha guadagnato consapevolezza dei propri mezzi e dello stato di forma in vista del Giro d’Italia. Altrettanto bene ha fatto Ivan Basso, che ha acceso i fuochi sulla Redoute prima di provarci di nuovo all’ultimo chilometro. Non è ancora il Basso del Tour de France dello scorso anno, eppure qualcosa inizia ad intravedersi. Oggi non avrebbe potuto muoversi diversamente. Troppo “leggere” le salite per fare la differenza, improbo il compito della volata e di staccare tutti negli ultimi metri. A lui la Doyenne è servita soltanto per testare la gamba, gli obiettivi sono ben altri.
Chi è parzialmente mancato è stato Vinokourov, staccatosi sulla salita di Saint Nicolas. Non avrebbe dovuto prendere parte alla gara, ma come si sa, quando il kazako decide di presentarsi al via, qualcosa da lui va sempre attesa. Eppure così non è stato. E’ mancato, e con lui tutta la Liberty-Seguros. Non c’è da imputargli nulla, se non la mancanza effettiva di condizione e di tenuta su una gara per veri fondisti.
Sorprendente la prova di Gilberto Simoni, che ha concluso al ventiduesimo posto staccato di 45’’, rimanendo davanti fino alle battute conclusive. Niente male, se si pensa che all’età di 35 anni è questa la prima apparizione del trentino alla Liegi, per di più senza compagni di squadra nei momenti cruciali della gara. Di più non avrebbe potuto.
Il poker d’assi per il Giro è quindi servito. Il rammarico è quello di tornare dalle gare del Nord senza successi. Piazzamenti sul podio oggi, con Petacchi a Wevelgem e con Ballan alla Roubaix. Ci è mancata la vittoria, e per chi è abituato a tornare in Italia con un bottino ben diverso, la situazione non è delle più rosee. Essenzialmente è mancato Bettini. Di Luca non partiva per fare bene, ed un Valverde così era incontrastabile. Inutile mangiarsi le mani. Piuttosto, ripartiamo da questo doppio podio, godiamoci un Cunego stratosferico ed iniziamo a pregustare il sapore di Giro. Tra poco meno di due settimane si tornerà nei dintorni di Liegi, a Seraing. Sarà prologo, saranno grandi emozioni, ed un sentito arrivederci alla Campagna del Nord.

Marco Ferri

VALVERDE SI RIPETE DOMA LA DOYENNE E TORNA GRANDISSIMO (2008)

Alejandro Valverde attende, annusa l’aria, scannerizza gli avversari. Stavolta, la Liegi – Bastogne – Liegi è dura, molto più dura rispetto a due anni fa, quando – stessa storia, stesso posto, stesso bar – era bastato farsi portare in carrozza dagli indecisi avversari fino al rettilineo di Ans, sede dell’arrivo della Decana delle corse, venuta al mondo nel lontano 1894. Cambia il percorso, si inasprisce l’altimetria con una salita nuova, la Cote de la Roche aux Faucons, alla cui sola vista l’acido lattico inonda i polpacci. La corsa reclama una gestione diversa: correre al coperto, mettere alla frusta la squadra, salvare la gamba ad ogni occasione, anche a costo di restare un pelo staccati.
Franck Schleck si conosce, medita e trattiene i compagni. Quando il gruppo, a circa 90km da Liegi, approcciava il primo trittico del terrore – le cotes di Wanne, Stockeu e Haute Levée – le squadre più ansiose di dare il primo, vigoso colpo di cesello ai pretendenti entravano in azione: Lotto per Evans, Caisse d’Epargne per Valverde e AG2R per non si sa chi (Nocentini? Desaparecido). Mancava la CSC, la tattica veniva alla scoperta, rifiutando l’ormai consueto palinsesto con gli uomini di Bearne Riis in testa a condurre le danze per indurire le gambe dei rivali, quel tanto da permettere al capitano Schleck, battuto in volata, di spiccare il volo. Dopo le sfinenti ma sterili fughe all’Amstel e alla Freccia, la posta in gioco era troppo alta: meglio dare un colpo deciso con un gregario di classe nelle fasi cruciali.
Davide Rebellin controlla, gestisce e manovra le celesti marionette della Gerolsteiner come un esperto burattinaio. Folle portare Cunego e Valverde in volata e impensabile provare a fare saltare il banco da lontano su un percorso ignoto, l’unica pista da battere nel buio pesto tattico della Liegi è mandare in avanscoperta un compagno, su cui contare come punto d’appoggio. Assieme a Stubbe, Kopp, all’indiavolato Brutt e al promettente francesino Rolland (ultimo a cedere dopo la Redoute), viene spedito in fuga Markus Fothen, ex giovane di belle speranze tedesco, in attesa di rinforzi. Puntualmente in arrivo.
Alejandro Valverde annaspa, barcolla e insegue. A poco più di 30km dal traguardo, l’asfalto si impenna all’uscita di una curva: ecco la Redoute, ex mostro sacro della Liegi, declassata a semplice filtro di seconda mano. La pendenza, stabilmente in doppia cifra, sfiora il ventello e il murciano della Caisse d’Epargne comincia a vedere doppio. Che sia arrivato l’istante della capitolazione, non sul più bello come all’Amstel, non nel momento della verità come alla Freccia ma nel grigiore delle retrovie di un gruppo che sta ormai a cavalcioni di un vulcano quiescente? Valverde è talmente indietro che manco vede la testa del gruppo, ciondola ma si concentra sullo sforzo.
Frank Schleck è brillante, vispo ma guardingo. Sa che non è ancora scoccata l’ora dell’unico affondo decisivo di giornata. Osserva, sornione come Gatto Silvestro, quegl’impavidi che si sfiniscono di scatti e allunghi, di ripetuti canti del cigno, li lascia sfogare. Ecco un arcobaleno brillare nel cielo delle Ardenne, quello di Bettini che proprio sulla Redoute, costruì una vittoria, una carriera e, forse, una vita. Schleck scorge l’ira del campione del mondo di fronte alla mancanza di rispetto del gruppo di fannulloni a questa tremenda salita ma, a differenza del livornese, trattiene l’esuberante gamba. Mentre Soler, Lloyd ed Evans chiudono il buco, il lussemburghese si guarda intorno per cercare una sagoma amica e scorge la più cara ed impensata: quella del fratello. Andy Schleck è lì, nemmeno ultimo vagone del trenino dei migliori. Basta uno sguardo, il fratellino capisce le intenzioni del fratellone e scatta veemente sul falsopiano, lasciando basiti corridori, spettatori e commentatori con un’azione di forza e agilità insieme capace di dargli cento metri in un batter d’ali.
Anche Davide Rebellin stava annaspando, barcollando e inseguendo, lucido però abbastanza da capire la topicità della situazioni di corsa. Rientrato agevolmente sul rilassato gruppetto dei nove più pimpanti della Redoute, eccolo spronare un’altra marionetta del teatrino Gerolsteiner ad uscire allo scoperto: Stefan Schumacher, altra ex primadonna in cerca di se stesso, lanciato a tutta velocità all’inseguimento di Schleck junior. Che il tentativo di eversione sia appetitoso, Rebellin lo intuisce da subito: Pellizzotti ed Efimkin invano si dannano l’anima per cucire lo strappo sullo Sprimont e invano Bettini esegue il doloroso canto del cigno sulla salita che sei anni fa lo lanciò verso il bis nella Doyenne. Davanti, gli illustri comprimari vanno spediti: sarà dura recuperarli.
Davide Rebellin raccoglie le forze, punta il naso all’insù e sventra l’asfalto. È cominciata la nuova cote, la Rocca dei Falconi. Joaquin Rodriguez ha appena piazzato una delle sue accelerazioni da camoscio. Se il gregario di Valverde decolla, la Liegi è andata, dietro nessuno sarebbe più disposto a tirare. Il veneto ha la sua idea delle condizioni del compagno in fuga: Schumacher non è quello di un anno fa e nemmeno quello di Stoccarda, ma in fondo, Schumacher, chi lo conosce? Mentre, duecento metri avanti, Andy Schleck conferma i dubbi esistenziali su Schumacher, piantandolo in asso, Rebellin capisce che arrivata l’ora della vendemmia, di gettare la maschera e fare sul serio. Lo scatto fa male, il respiro dei rivali si fa affannoso.
Franck Schleck marca, si acquatta, collabora. La gamba risponde al meglio, conscia di essere una delle più esplosive di questa sinora scalognata Campagna del Nord. Il rapporto fluisce potente tra villette in festa a valle, un misterioso bosco a monte. I vari Rodriguez, Cunego, Evans, Pfannberger, Bettini si disputano come piccoli Lillipuziani la ruota del lussemburghese volante – a sua volta in scia di quel vecchiaccio del capitano della Gerolsteiner – ma le pendenze e i continui cambi di ritmo della nuova salita (scostante, irascibile e cocciuta) martoriano la resistenza degli ostinati partigiani. In cima allo strappo, il fratellino è raggiunto e gli avversari staccati, con il solo campione spagnolo a ostinarsi a non staccare la spina. Non è questione di tattiche, ma di gambe. Sta davanti chi ne ha di più.
Alejandro Valverde interroga le gambe, conta le stille di energia, si alza sui pedali. Non può il proprio gregario stare davanti nella corsa più dura del mondo; non può sfuggire ancora la Liegi, dopo averla vinta da padrone, persa da allocco e sognata ogni notte per dodici mesi; non si può salire in riserva e trovarsi di fianco a gente con la bocca aperta e la bava che cola: segno che i margini ci sono. Basta una zompata delle sue, di quelle che tradiscono la giornata di grazia, per riportarsi sul quartetto di testa. La corsa è chiusa. Due coppie e una sicurezza: per chi dietro si è gettato alla ricerca del tempo perduto, il sogno finisce a 20km da Ans, nonostante Rodriguez molli poco dopo il rientro veemente del proprio capitano.
Davide Rebellin ha grinta, gambe e fame. Non come nel 2004, quando, già Amstel e Freccia nel carniere, sfruttò lo stomaco vuoto di Boogerd per spremere l’olandese all’inseguimento del fuggitivo Vinokourov nel finale della Liegi, salvo poi infilzarlo in volata. Da quel giorno, però, il 37enne vento ha vinto solo sul muro di Huy. Comprensibile vederlo sfiatarsi all’inseguimento di Andy Schleck, asso nella manica calato dal pokerista Franck, scattato ancora una volta per stanare gli avversari del fratello e sancire il suo definitivo sbocciare come talento assoluto di questo sport.
Franck Schleck fiuta l’andazzo, scuote il capo, matura grandi propositi. Sa bene che il generoso scatto di Andy lascia il tempo che trova, si esaurirà da solo, è destinato all’inesorabile destino di infrangersi sul Saint Nicolas come una mareggiata sugli scogli. Lo sanno anche i due avversari che, più veloci di lui, si preparano al prevedibile assalto sull’ultima cote del 28enne lussemburghese. E, con puntualità svizzera forse appresa da Cancellara, Schleck si alza sui pedali appena il fratellino viene ripreso. Lo scatto vibrante e potente, energico e dissodante come un aratro nei campi, fa bruciare le gambe di Rebellin, scotta quelle di Valverde senza però sortire l’effetto desiderato: l’italiano e l’iberico restano incollati alla sua ruota. La corsa di Schleck è finita, le ultime energie sparite nel buco nero della lancinante fatica. Nonostante i rivali paventino ancora, nei cinque chilometri conclusivi, un pericoloso affondo, tanto da procedere ai dieci orari sulla salita verso Ans, la spia rossa, per Schleck è accesa da un pezzo.
Alejandro Valverde attende, annusa l’aria, scannerizza gli avversari. E vince. Incredulo al cospetto dell’afflosciarsi di Schleck, sicuro di potere infilzare Rebellin in una volata a due, si prende pure la briga di uscire in testa dalla curva finale e di partire per primo verso quella linea bianca troppe volte sfuggita nelle gare che contano. Spesso bastano le prime tre pedalate per capire, in uno sprint, chi vincerà. Per Valverde, neanche quelle: la corsa si era infatti decisa sulla Roche aux Faucons, quando, quasi con naturalezza, questo figlio della Spagna chiudeva il buco sugli scattanti. Troppo veloce, sorprendentemente furbo e scaltro, maledettamente adatto a questa corsa per potere essere scalzato da chi, come Rebellin, ha speso l’indicibile per fare sua, anch’egli, una seconda volta la Liegi, la Decana, la corsa di un giorno più dura, più estenuante. La più vecchia ma sempre la più bella.

Federico Petroni

La prima delle quattro vittorie di Valverde alla Liegi, nel 2006 (foto Bettini)

La prima delle quattro vittorie di Valverde alla Liegi, nel 2006 (foto Bettini)

QUANDO POGGIALI SCOCCÒ ALLA FRECCIA

aprile 22, 2020 by Redazione  
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Nel giorno destinato in calendario alla Freccia Vallone vi riportiamo indietro nel tempo fino al 1965, l’anno della vittoria a sorpresa del toscano Roberto Poggiali sul giovane Felice Gimondi, che in quella stessa stagione avrebbe conquistato il Tour de France a soli 22 anni

Quando il ciclismo non era globalizzato, le classiche della Vallonia sembravano appartenere – per noi italiani – ad un’altra dimensione.
Le vittorie di Camellini e di Coppi alla Freccia Vallone costituivano , sino alla metà degli anni ‘60, gli unici successi azzurri nel weekend delle Ardenne.
E mentre alla Freccia si erano registrati piazzamenti sul podio dello stesso Fausto e di Gino Bartali, nella Liegi – la più antica classica del ciclismo belga- il bilancio era desolatamente negativo.
Solo Vittorio Adorni, nel ‘63 e nel ‘64, aveva colto due piazzamenti di rilievo, ma non era riuscito a spezzare l’incantesimo.

Nel 1965, invece, due squadre italiane (la Salvarani di Pezzi e la Ignis di Baldini) tentano l’avventura del Nord, nella consapevolezza che quelle corse si addicono alle caratteristiche dei ciclisti nostrani e che, comunque, correre su quelle strade fa bene.
“Se si vuole che gli italiani imparino a correre”, dice Baldini,” è necessario andare all’estero”.
E’ quasi una nazionale (nel numero dei partecipanti, se non nella qualità), quella che spicca il volo per il Belgio.
Accanto ai due quintetti dei marchi nostrani ( Adorni, Gimondi, Babini, Partesotti e Minieri per la Salvarani; Durante, Cribiori, Vigna, Poggiali e Macchi per la Ignis), si aggiunge Carmine Preziosi, un italiano emigrato in Belgio che ha conservato la cittadinanza del paese d’origine.
C’è attesa e curiosità per la sparuta pattuglia azzurra, che va a confrontarsi con l’agguerrita concorrenza: mancheranno Van Looy e Sels, grandi cacciatori di classiche, ma il lotto dei partecipanti sarà ugualmente qualificato.

Giovedì 29 aprile si corre la Freccia Vallone: 214 chilometri con 13 salite e arrivo a Marcinelle. Mette i brividi quella località: è ancora ben vivo il ricordo della catastrofe, avvenuta in miniera nove anni prima, nella quale persero la vita 262 uomini, di cui 136 italiani.
E’ un ricordo che emoziona e che non può lasciare indifferenti i nostri ragazzi.
C’è anche una certa tensione nei giorni che precedono la gara: le autorità belghe hanno proclamato la lotta al doping e si temono blitz alla partenza, come è successo al Fiandre dove i poliziotti hanno spezzato panini, svuotato borracce, messo sottosopra automobili alla ricerca di sostanze considerate nocive.
Adriano Durante, ruota veloce, non si impressiona : lui va a panini e bistecche e il problema non lo sfiora.

Partono in 115, in una giornata caratterizzata – ma non è una novità – dal maltempo: freddo, pioggia e vento accompagnano i corridori sulle còtes della corsa, rendendo la fatica ancora più dura.
Al secondo muro molti scendono dalla bici mentre Simpson, vivacissimo, allunga in compagnia di Partesotti. I nostri si difendono bene, per nulla spaventati dalla concorrenza.
Poi, a un’ottantina di chilometri dal traguardo, scatta Gimondi: lo raggiungono, dopo poco, Poggiali e – ancora lui!- Tommy Simpson.
E’ la fuga buona, con i due ragazzi italiani a farsi carico dell’iniziativa perché il britannico, a un certo punto, smette di collaborare, pensando ad un ritorno dei suoi compagni Vanconingsloo e Bracke.
Ma il treno azzurro viaggia troppo forte, e gli avversari rinunciano ad inseguire. Dietro, infatti, Adorni blocca le velleitarie iniziative dei fiamminghi. A quel punto anche Simpson collabora e i tre si involano verso Marcinelle.
Quando mancano due chilometri al traguardo Poggiali scatta. Gimondi resta incollato alla ruota del britannico marcandolo stretto e, quando l’inglese non ne ha più, riparte a sua volta, agguantando Poggiali ai novecento metri finali.
Mai successo: due italiani a giocarsi la vittoria nella Freccia!
E’ Gimondi che sembra avere la vittoria in tasca ma Poggiali – che resta a ruota fingendosi stanco – agli ultimi duecento metri dapprima lo affianca e poi lo supera, aggiudicandosi la prestigiosa classica.
Per il toscano (24 anni compiuti da pochi giorni, già campione italiano dilettanti e collezionista di piazzamenti nei primi anni di professionismo) è la prima vittoria nella categoria maggiore, una vittoria che vale la carriera.
E pensare che durante la gara stava quasi per ritirarsi a causa del gran freddo: è stato Jacques Anquetil a incoraggiarlo, dicendogli che bisognava soffrire e insistere, se uno voleva fare il corridore.
Ma ha anche un significato più profondo, quel trionfo azzurro: i nostri emigrati – in particolare quelli che avevano assistito al trionfo di Fausto nel ‘50 – piangono di gioia. Sono inorgogliti dal successo di Poggiali , erano dodici anni (dalla vittoria di Loretto Petrucci alla Parigi- Bruxelles) che aspettavano questo giorno.
L’indomani sarebbero scesi in miniera animati da un entusiasmo nuovo, perché avrebbero parlato dei nostri ciclisti senza vergognarsi, proprio come ai tempi di Coppi, di Bartali e di Magni.

Il trionfo dei giovani leoni azzurri fa notizia (più del debutto nel professionismo di un giovane fiammingo, Eddy Merckx, iridato dei dilettanti l’anno prima) e i nostri, galvanizzati, si preparano a dar battaglia sulle strade della Doyenne: viste le premesse, potrebbe essere la volta buona.
Sono 245 i chilometri, con 12 salite e arrivo sulla pista di Roucourt, la stessa che due anni prima ha visto l’affermazione mondiale di Sante Gaiardoni su Maspes.
Ovviamente piove,come da copione, ma almeno non fa freddo.
La corsa è caratterizzata dalla fuga di tre comprimari ma al km 190, sulla sesta salita, si forma un gruppo di trenta corridori: oltre all’iridato Janssen ci sono – tra gli altri – Simpson, De Roo, Stablinski e, ancora una volta, les italiens.
Gimondi, che non ha digerito la delusione di tre giorni prima, cerca di involarsi , ma Simpson lo riprende cercando ,senza successo, la soluzione solitaria.
Verso Liegi smette di piovere: si formano due gruppetti che si ricongiungono all’ingresso della capitale della Vallonia.
Sulla pista di Roucourt si presentano in undici: due italiani (Adorni e Preziosi) oltre a Vandenbossche, Cooreman, Wright, Knops, Bocklandt, Huysmans, Janssen, Simpson e Vanconingsloo.
Anche altri azzurri potevano essere della partita, ma Durante è stato vittima di crampi, mentre Gimondi e Poggiali, protagonisti fino a venti chilometri dalla conclusione, hanno risentito nel finale del grande sforzo compiuto tre giorni prima.

La pista è sdrucciolevole e, per non correre rischi, Adorni entra in testa.
A metà della penultima curva Jan Janssen, nell’intento di recuperare posizioni, gira al largo ma scivola e cade sul cemento,coinvolgendo altri sei corridori .
Adorni e Vandenbossche sono leggermente avvantaggiati su Preziosi e Wright che – scampati alla caduta – recuperano sul rettilineo di fronte alle tribune.
Restano in quattro a disputarsi la vittoria.
Vandenbosche sull’ultima curva tenta di uscire all’esterno ma Vittorio rintuzza l’attacco.
Sembra che per Adorni sia la volta buona ma all’uscita dell’ultima curva succede il fattaccio. Preziosi , che è in rimonta, stacca la mano dal manubrio e l’appoggia sul fianco (o sulla coscia?) dell’avversario. Adorni sbanda, si spaventa perchè teme di cadere e quasi smette di pedalare, mentre Preziosi taglia il traguardo.
I belgi sono allibiti: due italiani ai primi due posti anche a Liegi! E poi Preziosi l’hanno allevato – ciclisticamente s’intende – proprio loro.
Ma chi è Carmine Preziosi?
E’ un irpino di Sant’Angelo all’Esca, classe 1943, che all’età di sei anni si è trasferito con la famiglia in Belgio. Il padre è minatore e lui stesso ha lavorato sino all’anno prima in una fabbrica per aiutare la famiglia.
Emulo di Pino Cerami è cresciuto alla scuola ciclistica belga , imponendosi come velocista di vaglia e sperando, considerato che ha mantenuto la cittadinanza italiana, in una convocazione nella nazionale azzurra che, purtroppo, non è mai arrivata.
Eppure non è un carneade: ha vinto molto tra i dilettanti e ha cominciato la stagione alla grande, cogliendo il successo nella Genova- Nizza e, due giorni prima della Freccia, nella Bruxelles- Verviers: senza contare che l’anno prima si è piazzato alle spalle di Gianni Motta al Giro di Lombardia.
In Italia, tuttavia, è certamente meno conosciuto di Salvatore Adamo, suo coetaneo con lo stesso destino di emigrante , che ha scelto la musica per farsi strada nella vita.
Preziosi (che d’inverno mangiava noccioline, per risparmiare!) l’ha voluta, questa vittoria, per sé stesso e per i nostri connazionali , ma Adorni non ci sta: è convinto di essere stato danneggiato
( “Preziosi” dice, “ mi ha agganciato prendendo la spinta”) e presenta ricorso.
Di fronte alla giuria Carmine riconosce di avere toccato i calzoncini del parmense, ma giura di averlo fatto per non cadere addosso al connazionale che si era leggermente spostato: nelle interviste del dopo corsa aveva ammesso, invece, di averlo allontanato con il gomito. Adorni, che dopo l’arrivo ha le lacrime ha occhi, riconosce che Preziosi non ha preso una grossa spinta, ma l’ha comunque danneggiato.
Spinta, aggancio o semplice appoggio? Ci sono tutti gli elementi di un vero e proprio giallo, la cui soluzione dovrebbe essere affidata – per competenza territoriale – al grande Hercule Poirot.
La giuria emette un verdetto pilatesco: riconosce la responsabilità di Preziosi, lo multa, ma non gli toglie il successo.
Luciano Pezzi, che sa come vanno le cose, rincuora Adorni :” Che ci vuoi fare, Vittorio! Era una faccenda tra italiani”, commenta il d.s. della Bianchi.

Il finale thriller della Liegi non scalfisce, comunque, lo straordinario bilancio della spedizione azzurra.
Due doppiette in pochi giorni: è stato un successo, al quale ha contribuito un connazionale che vive sì in Belgio, ma che si sente italiano al 100%.
E che sia stato un trionfo lo dice pure la classifica della “Combinata delle Ardenne “, vinta proprio da Preziosi (che si era piazzato sesto alla Freccia), con il secondo posto di Poggiali ed il quarto, a pari merito, di Gimondi e Adorni per i quali l’appuntamento con la gloria è solo rimandato.
Ma anche gli italiani che hanno preferito non confrontarsi sulle strade del Nord hanno avuto ragione: Bitossi si aggiudica il Campionato di Zurigo e Dino Zandegù il nostrano Giro di Romagna.

Sì, fu proprio Grand’Italia in quella primavera del ’65!

Mario Silvano

Larrivo vittorioso di Poggiali sul traguardo di Marcinelle

L'arrivo vittorioso di Poggiali sul traguardo di Marcinelle

RICORDO DI UN’AMSTEL: GASPAROTTO 2016

aprile 20, 2020 by Redazione  
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Quattro anni dopo la prima affermazione, il corridore friuliano torna a fare sua la corsa olandese. Sarà l’ultima, per ora, vittoria di un italiano all’Amstel Gold Race

GASPAROTTO GUIDA L’ARMATA AZZURRA A VALKENBURG

Come da tradizione ormai consolidata negli ultimi anni è stata l’Amstel Gold Race ad aprire, almeno per quanto riguarda il calendario World Tour, la stagione delle Ardenne che proseguirà con la Freccia Vallone e si concluderà domenica 24 aprile con la Liegi-Bastogne-Liegi. Rispetto alle due storiche corse belghe quella olandese, giunta all’edizione numero 51, può essere considerata come meno impegnativa dal punto di vista altimetrico, fermo restando che sono stati comunque ben 34 gli strappi da superare lungo i 248,7 km che da Maastricht hanno portato a Valkenburg, ma certamente più imprevedibile, anche alla luce delle strade molto strette e ricche di curve che caratterizzano queste zone. Per quanto riguarda i possibili favoriti non vi era sulla carta un uomo nettamente superiore agli altri ma moltissimi erano in grado di dire la loro, dal campione uscente Michal Kwiatkowski (Team Sky), che realizzò in quell’occasione l’unico risultato di prestigio di un 2015 fallimentare, al suo compagno Henao passando per Julian Alaphilippe e Petr Vakoč (Etixx-QuickStep), Juan José Lobato (Movistar), Michael Matthews e Simon Gerrans (Orica-GreenEdge), Tom Dumoulin (Giant-Alpecin), Tony Gallopin e Tim Wellens (Lotto Soudal), Philippe Gilbert e Samuel Sánchez (Bmc), Sep Vanmarcke (Lotto-Jumbo), Rui Costa (Lampre-Merida), Lars Boom (Astana), Joaquim Rodríguez (Katusha), Edvald Boasson Hagen (Dimension Data), Pieter Weening (Roompot-Oranje), Bryan Coquard (Direct Énergie) e tanti altri, senza dimenticare una nutrita pattuglia azzurra comprendente tra gli altri Matteo Trentin (Etixx-QuickStep), Giovanni Visconti (Movistar), Diego Ulissi (Lampre-Merida), Davide Rebellin (CCC Sprandi), Damiano Cunego (Nippo-Vini Fantini), Sonny Colbrelli (Bardiani-Csf), un Fabio Aru (Astana) che è stato schierato un po’ a sorpresa dopo il recente ritiro al Giro dei Paesi Baschi per via di una caduta, uno sfortunatissimo Fabio Felline (Trek-Segafredo), che sarà costretto all’abbandono dopo essere finito in terra nel tratto di trasferimento prima del via, e infine Enrico Gasparotto (Wanty-Groupe Gobert), reduce dal brillante secondo posto alla Freccia del Brabante e ultimo italiano a conquistare l’Amstel Gold Race nel 2012.
La corsa ha vissuto di scatti e controscatti per i primi 35 km finchè non sono riusciti ad andarsene Laurens De Vreese (Astana), Tom Devriendt (Wanty-Groupe Gobert), Laurent Didier (Trek-Segafredo), Alex Howes (Cannondale), Kévin Réza (Fdj), Larry Warbasse (Iam Cycling), Josef Černý (CCC Sprandi), Fabien Grellier (Direct Energie) e i nostri Matteo Montaguti (Ag2r), Matteo Bono (Lampre-Merida) e Giacomo Berlato (Nippo-Vini Fantini) che sono riusciti a rimanere al comando, al netto di alcuni di loro che hanno perso contatto strada facendo, fino ai -14 dal traguardo. La bagarre in gruppo, nel quale il Team Sky di Kwiatkowski e l’Orica-GreenEdge hanno svolto il grosso del lavoro per chiudere un gap che aveva superato i 5 minuti, si è comunque accesa ben prima del ricongiungimento, dapprima con il contrattacco di Björn Thurau (Wanty-Groupe Gobert), Tosh Van der Sande (Lotto Soudal) e Gianni Meersman (Etixx-QuickStep), insieme ai quali è rimasto per un breve tratto anche Niccolò Bonifazio (Trek-Segafredo), e poi con quelli di altri atleti tra i quali Enrico Battaglin (Lotto-Jumbo) in compagnia di Bob Jungels (Trek-Segafredo). A farne le spese sono stati, tra gli altri, il belga Gilbert, che ha conquistato in passato l’Amstel in ben tre occasioni ma si è presentato al via in condizioni precarie dopo la recente aggressione che gli è costata la frattura di un dito, ma anche Boasson Hagen e soprattutto Kwiatkowski, la cui défaillance è stata completamente inattesa. Lungo le rampe del Bemelerberg, penultima ascesa giornata, è stato Wellens, rispondendo a un timido tentativo di Roman Kreuziger, a produrre una potente accelerata rimanendo da solo al comando ma, grazie al lavoro degli uomini dell’Orica-GreenEdge e dell’Astana, il suo vantaggio non è decollato e le energie spese gli saranno fatali sul Cauberg.
In quella che negli ultimi anni è diventata la salita simbolo dell’Amstel Gold Race, con la vetta posta a 1800 metri dal traguardo, l’azione del giovane belga è infatti andata spegnendosi, a differenza di quella di Gasparotto, che intorno a metà dell’ascesa si è involato portandosi dietro inizialmente il sorprendente Michael Valgren (Tinkoff), Gallopin e Ian Bakelants (Ag2r). Anche il belga e il francese hanno in seguito ceduto e il friulano e il danese, approfittando anche del fatto che non vi era ormai più una formazione organizzata per condurre l’inseguimento, hanno potuto tirare dritto fino al traguardo e mantenere un leggero margine di vantaggio. La volata a due si è rivelata senza storia con Gasparotto che è uscito dalla scia di Valgren ai 200 metri dal traguardo e il rivale che non ha neppure tentato di reagire: sebbene quello di quattro anni fa sia avvenuto davanti a grandi nomi come Jelle Vanendert e soprattutto Oscar Freire e Peter Sagan, si tratta forse della vittoria più bella in carriera del 34enne di Sacile, sia perchè arrivata dopo una serie di stagioni opache che l’avevano costretto a svernare in una compagine di secondo piano come la Wanty-Groupe Gobert, sia per la dedica ad Antoine Demoitié, lo sfortunato ciclista belga suo compagno di squadra che ha perso la vita alla Gand-Wevelgem dopo essere stato investito da una moto. Va comunque rimarcata anche la prestazione di Valgren, atleta talentuoso ma che mai si era visto su questi livelli, così come quella di Colbrelli, che – come avvenuto alla Freccia del Brabante – ha combattuto in volata con Coquard e Matthews ma questa volta ha avuto la meglio, conquistando il gradino più basso del podio e dimostrando di poter dire la sua anche al di fuori dei confini italiani. La festa azzurra, che riscatta almeno in parte un avvio di stagione da dimenticare almeno per quanto riguarda le grandi classiche, è stata completata da Ulissi e Visconti, rispettivamente 7° e 8° alle spalle di Alaphilippe, mentre l’emergente Loïc Vliegen (Bmc) e Wellens hanno chiuso la top ten. Mercoledì 20 si replica con la Freccia Vallone e, alla luce del dominio dimostrato alla Vuelta Castilla y Léon, non sarà facile strappare lo scettro ad Alejandro Valverde, vincitore della passata edizione.

Marco Salonna

Gasparotto torna ad alzare le braccia al cielo sul traguardo dellAmstel Gold Race (foto Tim de Waele)

Gasparotto torna ad alzare le braccia al cielo sul traguardo dell'Amstel Gold Race (foto Tim de Waele)

RICORDO DI UN’AMSTEL: GASPAROTTO 2012

aprile 19, 2020 by Redazione  
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Il nostro viaggio nella storia dell’Amstel si ferma oggi all’edizione del 2012, la prima delle due conquistate da Enrico Gasparotto

GASPAROTTO IMMENSO SUL CAUBERG

Alla vigilia la prima classica delle Ardenne non aveva ancora un favorito. Tanti nomi, tantissimi indizi ma nessuna certezza sul possibile vincitore. A sorpresa un maestoso Enrico Gasparotto (Astana) in rimonta su Jelle Vanendert (Lotto Belisol) e Peter Saan (Liquigas), rispettivamente secondo e terzo all’arrivo, va ad alzare le braccia al cielo in cima al Cauberg. La corsa che prevedeva 31 côtes da affrontare è esplosa soltanto nel finale quando, ripresa la fuga della prima ora, una sorprendente ed inaspettata azione di Oscar Freire, ripreso soltanto a 200 metri dal traguardo, ha tenuto gli appassionati col fiato sospeso con il gruppo dei migliori su per il Cauberg scatenati nel riacciuffare lo spagnolo. Fino ad allora pochissime emozioni vista la situazione in corsa con sette uomini in fuga Pello Bilbao (Euskaltel-Euskadi), Romain Bardet (Ag2r), Cedric Pineau (FDJ-BigMat), Simone Stortoni (Lampre-ISD), Steven Caethoven (Accent.Jobs-Veranda’sWillems), Raymond Kreder e Alex Howes (Garmin-Barracuda), evasi dal gruppo dopo circa 40 km. In testa al gruppo, ad alternasi nell’inseguimento, sia gli uomini della Katusha, per la soluzione Joaquim Rodriguez, sia quelli della BMC per un Philippe Gilbert, dominatore in Olanda un anno fa, ed apparso oggi in netta ripresa. Tra le due squadre “faro” della corsa sempre nelle prime posizioni le maglie azzurre dell’Astana a ben proteggere e guidare tra le insidiose stradine olandesi il loro capitano Enrico Gasparotto. La fuga, raggiunto un vantaggio massimo di 13’.20”, è stata riassorbita definitivamente a 9 Km dall’arrivo quando Bardet, da solo al comando, si è visto arrivare il gruppo di tutti i migliori. Poco prima durante l’ascesa al Kruisberg, uno dei papabili alla vittoria finale, Samuel Sanchez (Euskaltel – Euskadi), vittima di un incidente meccanico è stato costretto ad inseguire il gruppo tirato da Greg Van Avermeat (BMC). Il campione spagnolo aiutato da due compagni di squadra è riuscito ad accodarsi al gruppo dei migliori poco prima dell’ascesa dell’Eyserbosweg, terzultima côtes prevista. Su per la salita “delle antenne” la fuga era ormai ridotta a solo due unità con Bardet ed Howes che conservavano un vantaggio di solo 29”. Vantaggio che si è ulteriormente ridotto su per il Fromberg a soli 10”. A questo punto della corsa restano da affrontare il Keutenberg ed il Cauberg, e proprio sulla penultima côtes è Gasparotto a provare un allungo, subito stoppato da Rodriguez. Stessa sorte, questa volta in pianura, per un timido allungo voluto da Peter Sagan (Liquigas) e Thomas Voeckler (Team Europcar) riacciuffati da un onnipresente Greg Van Avermeat a pilotare nelle posizioni di testa il proprio capitano Gilbert. Come detto a 9 Km dalla conclusione la fuga viene annullata e sarà ancora una volta l’ascesa al Cauberg a determinare il vincitore della corsa. A sorpresa, quando al traguardo mancano 7 Km, è Oscar Freire (Katusha) a rendersi protagonista di un’azione in solitaria. Lo spagnolo riesce ad affrontare le prime rampe del Cauberg con 10” di vantaggio sugli inseguitori. Il primo a riportarsi su di lui è Niki Terpstra (Omega Pharma-Quickstep), dietro di loro i big si guardano, nessuno prende in mano la corsa fino a quando Gilbert prova a riportarsi sui due uomini di testa. Terpstra, sfiancato dall’inseguimento, si pianta letteralmente sulle prime rampe del Cauberg, stessa sorte, ma solo ai 200 metri dall’arrivo per Freire sorpassato da Gilbert, Vanendert e Gasparotto, mentre poco più indietro Damiano Cunego (Lampre) a causa di un contatto con Iglinskiy (Astana) cade a terra compromettendo ogni possibilità di riprendere i quattro lanciati verso il traguardo. Gilbert in testa è ripreso da Gasparotto con Sagan a lanciare la volata e Vanendert subito dietro. A questo punto però ad averne di più è il corridore italiano, con forza e determinazione, sopravanza lo slovacco trionfando a braccia alzate sul Cauberg. Secondo un ottimo Vanendert, terzo a completare il podio Sagan poi Freire e Voeckler, sesto arriva Gilbert. Gran bella vittoria italiana quindi a darci fiducia per i prossimi importanti appuntamenti.

Antonio Scarfone

Il successo di Gasparotto allAmstel del 2012 (foto Bettini)

Il successo di Gasparotto all'Amstel del 2012 (foto Bettini)

RICORDO DI UN’AMSTEL: CUNEGO 2008

aprile 18, 2020 by Redazione  
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La prima domenica dopo Pasqua era stata riservata all’Amstel Gold Race ma, come tutte le corse della prima parte della stagione, non si potranno effettuare a causa dello stop alle manifestazioni disposto a causa dell’emergenza coronavirus. In questi giorno vi riporteremo indietro nel tempo alle ultime tre edizioni della corsa olandese vinte da corridori italiani. E non potevamo cominciare con quella vinta nel 2008 da Damiano Cunego, che tenne un diario sul nostro sito tra il 2003 e il 2004. Buona lettura

IL VOLTO TRISTE DELL’AMSTEL: VALVERDE NON SA PIU’ VINCERE

C’era una volta Alejandro il Grande, conquistatore spagnolo dalla folta chioma e dal raggiante futuro assicurato. Centosettantotto centimetri di classe cristallina, Alejandro Valverde da Las Llumbreras era uno dei tanti enfant prodige nati nei primi anni ’80 al quale i dei delle ruote, sembrava, avessero serbato un cammino da predestinato. Podio alla Vuelta ed al Mondiale a soli 23 anni, ed unico a regolare allo sprint sua maestà Lance Armstrong in un arrivo di tappa in quota al Tour de France (Courchevel 2005), da lui si attendeva solo la consacrazione nelle grandi classiche, gare per le quali il murciano sembrava proprio essere fatto su misura. E la dea bendata si sa, laddove toglie è pronta a restituire. Così, dopo aver detto addio ai sogni in giallo per un fastidio al ginocchio nel 2005 e dopo aver adagiato sul collo del bel Alejandro la seconda medaglia iridata sulle strade di casa, la bionda dal viso coperto seppe rifarsi regalando al portacolori della Caisse d’Epargne la gloria, condensata in meno di 100 ore, sul Muro di Huy e sul traguardo di Liegi. Era il 2006 e, alla soglia dei 26 anni, il grande passo da eterno piazzato a conquistador parve ormai essersi compiuto. Tutto pronto, dunque, per la battuta di caccia alla prima maglia gialla dell’anno uno d.A. (dopo Armstrong). Disattenzione o sfortuna vollero però che anche il nuovo assalto non ebbe buon fine: clavicola lussata a Valkenburg nel corso della prima settimana di gara e tanti saluti alle strade di Francia. Ma in fondo, si sa, la piena maturazione psicofisica per puntare alle corse a tappe arriva con l’avanzare degli anni, cosicchè nessuno se la sentì di farne un dramma. Si pensò, erroneamente, all’ennesimo appuntamento rimandato mentre, di fatto, la Grande Boucle, cui fecero seguito i consueti podi a Vuelta e Mondiale (senza mai indossare il metallo più pregiato) rappresenta l’apogeo della carriera del murciano.
Immerso fino al collo nell’Operacion Puerto, “Valv-Piti” (nome in codice preso in prestito dal cucciolo domestico di casa Valverde ed usato con il medico Eufemiano Fuentes) ha smarrito la retta via. Che fosse un “piazzato di lusso” lo si sapeva sin dagli esordi ed i risultati ottenuti nella passata stagione, dove dai successi passò alle due medaglie d’argento a Freccia e Liegi, non fecero che presagire quanto potesse poi accadere al Tour: sesto nella classifica generale, mediocre tra i mediocri e mai realmente in lizza per prenotare un posto sul podio di Parigi. Nonostante fitte nubi si addensassero sul personaggio, al pupillo di Saiz venne consentito di correre anche un anonimo Mondiale prima di ripresentarsi ai nastri di partenza, in questo 2008, chiamato a capire in maniera definitiva la reale dimensione: gare in linea o grandi giri?
L’impressione è che nessuno lo abbia ancora capito esattamente, corridore in primis. O forse, malignamente, verrebbe da pensare che i successi ottenuti in passato fossero frutto di momentanei exploit e che la vera cartina di tornasole sia rappresentata dalla miriade di piazzamenti tra classiche e corse di infimo livello.
Quando oggi il giallorosso Joaquin Rodriguez, compagno sacrificatosi per l’ennesima volta vanamente, si è prodigato a più riprese in testa al gruppo con il chiaro intento di favorire la sua azione, in molti hanno pensato che il murciano potesse inventarsi qualcosa. L’Amstel, tuttavia, gli è rimasta una volta di più sullo stomaco e, nonostante abbia provato a rendere a Cunego lo sgarbo subito sette giorni fa alla Classica di Primavera (lì il veronese lo fulminò allo sprint dopo essersi rifiutato di tirare un solo metro negli ultimi 2000) ha subito una batosta colossale, che intacca morale e convinzione nei propri mezzi. La sparata negli ultimi metri non appare irresistibile come quello degli esordi, se si pensa che, oltre ad un irraggiungibile Cunego, anche un diesel come Schleck non ha faticato per tenerlo a bada e metterselo dietro. La capacità di movimentare la corsa con azioni frutto di istinto, poi, è una peculiarità che lo spagnolo ha faticato ad evidenziare nell’arco di tutta la carriera. Anche gli ultimi metri sul Cauberg si prestano ad una difficile interpretazione. Che Valv-Piti si sentisse ancora il più forte nonostante Cunego gli avesse già dimostrato di avere due marce in più? Sarebbe un peccato di presunzione ma è l’unica risposta che balza alla mente, per spiegare l’assoluta abulia di un “campione” incapace di estrarre un coniglio dal cilindro, che non sia uno sprint di gruppo vinto per manifesta inferiorità.
Alejandro Valverde, oggi, è la faccia triste della Spagna che sgomita, fatica, ansima e non raccoglie. Valgono troppo poco i successi di un Contador, primadonna mancata alla prossima Grande Boucle, per dar lustro ad un movimento che, nonostante i due trionfi al Tour de France nelle ultime due stagioni, è chiamato a ricostruirsi un contorno di credibilità e dignità. Chissà che per tornare a sorridere non serva affidarsi a chi veste realmente i colori della bandiera, quel Rodriguez costretto a far da apripista e che troppo spesso raccoglie voti in pagella ben più altisonanti di quelli del proprio capitano.
A ventotto anni Alejandro Valverde ha disimparato a vincere. E stavolta invocare l’aiuto della dea bendata saprebbe quasi di blasfemia.

Marco Ferri

Laffermazione di Cunego allAmstel Gold Race 2008 (foto Bettini)

L'affermazione di Cunego all'Amstel Gold Race 2008 (foto Bettini)

LE ROUBAIX DI CANCELLARA: 2013

aprile 13, 2020 by Redazione  
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Concludiamo la rassegna sulle tre Roubaix vinte da Cancellara proponendo l’articolo con il quale raccontammo l’ultima vittoria del campione elvetico, conseguita il 7 aprile del 2013

IL CAPOLAVORO TATTICO DI CANCELLARA A ROUBAIX

Nel velodromo di Roubaix, Fabian Cancellara è tra lo stremato e lo stupito. “Pure fighting”, ripete per tre volte all’intervistatore. “Pura battaglia”. Conquistare la sua terza Roubaix, dopo 2006 e 2010, nonché 76esima perla in carriera è stata, ammette la Locomotiva svizzera, “la più grande battaglia da quando vado in bici”. Alla fine di un inferno di polvere e pietre, Cancellara si chiede: “Come ho fatto?”. Te lo spieghiamo noi, Fabian: di testa, più che di gambe.

Certo, le gambe non le possiamo dimenticare. Perché quando per 5h45’33” mulini i pedali alla media di 44,02km/h su quelle mulattiere di porfido e chiudi la seconda Roubaix più veloce della storia (dietro solo a quella di Peter Post del ’64 a 45,13km/h), vuol dire che cosce e polpacci hanno fatto il loro lavoro. Eppure, proprio dal dato della velocità media conviene iniziare per spiegare come Cancellara la Roubaix l’abbia portata a casa a colpi di calcoli più che di pedali, di sangue freddo più che di cuore.

Partire da favorito non è cosa semplice. E Cancellara lo ricorda bene: proprio su queste strade nel 2011, il suo strapotere convinse i suoi avversari – o, meglio, i diesse dei suoi avversari – a far attaccare le seconde linee da lontanissimo. Rammentiamo tutti come andò: a nulla valse il feroce inseguimento di un Cancellara a cui Ballan e Hushvod non davano mezzo cambio per recuperare Vansummeren, in fuga dal mattino, che trionfò con appena 19” sullo svizzero.

Oggi come due anni fa, l’avvicinamento all’Inferno del Nord era stato dominato da una sola parola: “anticipare”. Che tradotto dal gergo ciclistico significava: isolare Cancellara dalla sua squadra. La stessa che sette giorni fa al Fiandre aveva dato dimostrazione di avere i corridori per tenere cucita una corsa (Devolder, Popovych, Rast, Irizar ma anche un campione che verrà, Bob Jungels). E per isolare la Radio Shack una e una sola cosa bisognava fare: attaccare a ripetizione.

Ne esce una corsa fulminea, con la prima ora inghiottita a 49,9km/h. Nessuna fuga a prendere un discreto vantaggio. Addirittura Thomas e Boasson Hagen che a meno 135km provano a portar via un’azione di una quindicina di uomini. Niente da fare: la Radio Shack non lascia andar via nessuno. Tirare per così tanti chilometri ha un costo: prima o poi ti squagli. E il punto di ebollizione la Radio Shack lo raggiunge a meno 58km, quando le sue casacche scompaiono dalla testa del gruppo. Da questo momento, Cancellara dovrà far da solo.

E da solo Cancellara fa. O almeno ci prova. 46 chilometri all’arrivo. Pavé di Mons-en-Pévèle. La Locomotiva di Berna apre il gas. Quando terminano pietre e accelerazione, Cancellara resta con gli 11 che si giocheranno la corsa. Qui cambia la Roubaix. E nasce una situazione che manda in solluchero gli amanti della tattica.

Cancellara ha di fronte un dilemma. “Siamo in dodici, non ho compagni di squadra ma l’Omega ha 3 uomini e la Blanco 2. Ho le gambe migliori della truppa ma non dei giorni migliori. Sono caduto, sia allo Scheldeprijs che in ricognizione. Le botte si fanno sentire. Posso fare il vuoto ma poi non ho la continuità per portare l’azione all’arrivo. Di riprovare azioni stile Harelbeke e partire a qualche decina di chilometri dall’arrivo non se ne parla”.

Continua il ragionamento: “Ora si gioca a tutti contro Cancellara. Mi attaccheranno di qui al velodromo. Se li rincorro tutti, mi spremo e il destino mi restituisce lo scherzetto che ho fatto ha Sagan alla Sanremo, dove ha dovuto chiudere su tutti per poi perdere in volata da Ciolek”.

Cancellara tenta l’azzardo. Lasciare andare quelli che suppone essere i gregari per evitare di dover rintuzzare tutti gli allunghi. Tenersi a fianco i più quotati, leggi Terpstra e Boom. E poi, capolavoro, staccarli con un allungo a sorpresa in un tratto insignificante di asfalto a 31 dall’arrivo.

Piano perfetto, non fosse per la forza della Omega. Pur senza Boonen (e una sua costola), alla squadra belga quasi riesce l’altro capolavoro tattico della Roubaix. Perché quando Cancellara sta per rientrare davanti, via radio arriva l’ordine a Vanderbergh di attaccare, portandosi dietro l’apparentemente innocuo Vanmarcke. Di modo da tenere in testa un uomo quando si formerà la fuga decisiva. E addirittura, quando sul pavé di Bourghelles, Cancellara riaccelera, è l’altro Omega Stybar a portarsi sulla ruota dello svizzero. Così, alle porte del Carrefour de l’Arbre, nella fuga a quattro decisiva, ci sono comunque due pedine della squadra belga.

Dicevamo capolavoro quasi riuscito? Già, perché dei due Omega uno capitombola e l’altro si salva solo con un miracolo funambolico ma perdendo l’aggancio del pedale e, di conseguenza, il treno buono. Sfortuna, si dirà. Certo, quando uno spettatore decide di sporgersi proprio quando passi tu si può citofonare solo alla iella. Eppure, entrambi gli Omega sono caduti (uno metaforicamente, l’altro meno) cercando quella sottile linea (non rossa ma) gialla di terra. Se ne hai davvero, il pavé lo puoi anche affrontare a muso duro.

Chiusa la parentesi tattica della Omega, torniamo a quella di Cancellara. Il quale, senza gambe immensamente superiori a quelle dei rivali, è comunque riuscito a portare a casa la Roubaix. Che non fosse il miglior Cancellara di sempre lo si è visto quando ha provato per tre volte a fare il vuoto (alla Cancellara) sul pavé, senza successo. Decisiva per trionfare è stata dunque la lettura della corsa, la capacità di mantenere freddo il sangue nei momenti più frenetici.

Così come la gestione della fuga a due con Vanmarcke. Cancellara la chiamerà “pure fighting”, per noi è “esperienza e mestiere, capitolo uno”. Lo svizzero ha fatto un eccellente uso del proprio carisma nei confronti del giovane belga, costringendolo a dare qualche cambio di troppo, a rincorrere uno scatto a 4,1km dall’arrivo, a ingobbirsi (da spavaldo che era) in vista dello sprint, dove il portacolori della Blanco è comunque partito con troppo anticipo, quei 15 metri in più che le sue gambe non hanno retto.

Quando lo incontrai una mattina di primavera del 2009 in un bar vicino a Bologna, di Fabian Cancellara mi colpì una cosa. Alla domanda se puntasse a vincere la cronosquadre d’apertura del Giro del centenario a Venezia, mi rispose che sì, ci teneva, soprattutto perché era a Venezia e nel Giro del centenario e perché lui cerca sempre di dare un valore aggiunto ai suoi successi. Oggi, a Roubaix nel sacco, lo svizzero ha commentato: “E’ bello arrivare da solo, per lo spettacolo. Stavolta invece è stata una lotta fino all’ultimo millimetro”. Non mi stupirei se, nelle sue memorie, Cancellara ricordasse questa come la sua vittoria più bella. Io, nella mia, ne sono già convinto.

Federico Petroni

Cancellara sul pavè alla Roubaix 2013 (foto Bettini)

Cancellara sul pavè alla Roubaix 2013 (foto Bettini)

LE ROUBAIX DI CANCELLARA: 2010

aprile 12, 2020 by Redazione  
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Sono passati 10 anni dalla seconda affermazione di Cancellara alla Roubaix. Il giorno di Pasqua, nel quale si sarebbe dovuta correre la 118a edizione della corsa delle pietre, vi riportiamo indietro nel tempo fino a quell’11 aprile 2010, quando il corridore elvetico giunse sulla pista del velodromo della cittadina francese con 2 minuti di vantaggio sul secondo, il belga Tom Boonen

BOONEN, IL PENDOLINO TE L’HA FATTA

Una standig ovation per Cancellara all’ingresso solitario del velodromo, un ultimo giro corso senza mani sul manubrio a godersi il trionfo, un festeggiamento che inizia bel prima dell’ingresso tempio del ciclismo, quando nessuno si sognerebbe di distogliere lo sguardo dalla strada stremato per le fatiche del paves. Ma in realtà oggi la gara si è chiusa 50km prima del previsto, quando Boonen capitola per evidenti lacune tattiche e palese inferiorità fisica.

Siamo certi di poter dire che il pendolino di Berna avrebbe vinto ugualmente anche senza l’aiuto del belga, tale era la condizione dell’elvetico: stratosferica. Ma sicuramente senza la fretta e la voglia di strafare di Boonen, Cancellara non avrebbe avuto la vita così facile. Troppe energie sprecate in continui inutili attacchi su cui gli avversari hanno sempre ricucito. Poi una fatale disattenzione: si porta in coda al gruppo per bere e il danno è fatto, Cancellara lo vede, non ci pensa e scatena tutta la sua potenza, in due chilometri lascia i primi e va a riprendere il terzetto di testa, pochi secondi per rifiatare e ancora un’accelerazione per scrollarsi di dosso tutti, Leukemans è l’ultimo che, eroicamente, resta attaccato con le unghie per tutto il 13° tratto di paves ma poi anche lui è costretto a mollare e rientrare nel gruppo inseguitore per giocarsi il secondo posto.

In pochi chilometri l’unico avversario di Cancellara rimane la sfortuna, ma oggi l’elvetico aveva già pagato con una foratura alla bestia nera che spesso decide gli ordini d’arrivo di gare così particolari, nulla comunque in confronto a quello che paga Devolder, contro cui la jella si accanisce in più di un epicodio.

Dunque la gara, davanti, si chiude a 50km dal traguardo, ma la bagarre per il podio è ben distante dall’essere chiusa, anzi forse non si è ancora accesa. I migliori, escluso Cancellara, sono tutti insieme: Boonen, Pozzato, Hushovd, Hammond, Hinault, Hoste, Leukemans, Flecha, forse manca solo Knaven che oggi ha corso per il record di 16 Parigi-Rubaix concluse consecutivamente: per lui obiettivo raggiunto.

Il problema tra gli inseguitori è che non si instaura nessun tipo di collaborazione a tutto vantaggio del trenino di Berna che gestisce in maniera ottima la sua crono solitaria di 50km, si avete capito bene 50km in solitaria su strade difficili, per usare un eufemismo, come quelle belga.

Per Boonen grande delusione e tanto rammarico, tanto da perdersi anche la lotta per il secondo posto, quella del terzo e di chiudere addirittura quinto battuto in volata da Roger Hammond.

A sorprendere il belga sono Flecha e Hushovd che nell’ordine lasciano il gruppetto inseguitore dove si segnalava un Pozzato in grande difficoltà, ma l’italiano chiude stoicamente la gara nonostante i postumi di un’influenza che lo aveva colpito nei giorni passati aggiudicandosi il trofeo in onore del defunto Franco Ballerini, onorato con settimo posto.

La volata per la seconda piazza finisce in favore di Hoshovd con Flecha, francamente senza grosse speranze, che si limita ad applaudire mentre fanno l’ingresso nel velodromo gli ultimi componenti del gruppo dei big, Leukemans senza chanches tira la volata al duo Hammond-Boonen con il primo che, come detto, si aggiudica la medaglia di legno.

Una giornata davvero storta per il belga che avrà molto da recriminare soprattutto per quanto riguarda il suo modo di correre, troppo dispendioso prima e distratto poi, poco supportato da una squadra che “vive” per le classiche del nord non può fare molto quando si ritrova a dover inseguire, da riconoscere alla Saxo Bank la capacità di tenere otto uomini su otto in testa alla corsa fino al momento decisivo, anche se il loro unico merito alla fine è quello di aver contenuto il vantaggio dei primi fuggitivi. Ad un Cancellara così non serve nemmeno una squadra perché è in grado di fare tutto da solo come ha dimostrato ampiamente con la dopietta Fiandre-Rubaix, certo che se poi si mette anche una netta superiorità di tutta la squadra per il resto dei contendenti rimangono solo le briciole.

Andrea Mastrangelo

Roubaix in fuga sul pavè della Parigi-Roubaix 2010 (foto Bettini)

Roubaix in fuga sul pavè della Parigi-Roubaix 2010 (foto Bettini)

LE ROUBAIX DI CANCELLARA: 2006

aprile 11, 2020 by Redazione  
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Da quando ilciclismo.it è nato, alla fine del 2003, gli italiani non hanno mai vinto la Parigi-Roubaix, la classica delle pietre che avrebbe dovuto svolgersi nel giorno di Pasqua. In mancanza di edizioni della corsa francese vinte da italiani da raccontarvi in questi giorni abbiamo pensato di riproporvi le tre vittorie dell’elvetico Fabian Cancellara, che da uno spicchio di tricolore sono comunque avvolte perchè il padre di Fabian ha origine italiane, nativo del centro lucano di San Fele, dal quale emigrò verso la Confederazione Elvetica all’età di 18 anni. Cominciamo dalla Roubaix più lontana nel tempo, quella che la “Locomotiva di Berna” conquistò il 9 aprile del 2006. Buona lettura e buona pasqua!

È IL FUTURO CHE AVANZA. IL TRIONFO DI CANCELLARA

Filippo Pozzato l’aveva detto qualche giorno fa prima di ripetersi alla vigilia: “Attenti a Cancellara, è in ottima forma ed è il mio favorito”. Pozzato ha soltanto 24 anni ma un’esperienza degna di un veterano. Ha appena vinto la Sanremo, e per di più corre nella squadra del campione del mondo Tom Boonen, quello che per tutti era il vero uomo da battere di questa Parigi-Roubaix. Il vicentino, però, aveva visto giusto.
Fabian Cancellara, svizzero dal cognome italiano, ha invece giocato d’astuzia. Lui le gare del Nord le ha nel sangue ma finora avevo corso coperto. Coperto anche in questa Parigi-Roubaix, fino alla foresta di Arenberg. Di lì in poi, il suo è stato un vero e proprio show. Uno spettacolo che gli è valso il primo vero traguardo della carriera. Il secondo si chiama mondiale a cronometro, e chissà che il giovane di Berna non si regali ben presto anche quello.
La Regina delle Classiche non è soltanto questo. Anche in questa edizione la corsa è stata spettacolare, mozzafiato, tutta da vivere. Ed allora andiamo a scoprirla. La gara ha vissuto sull’azione di quattro atleti sin dalle prime battute: i fuggitivi, evasi dal gruppo al chilometro 62, rispondevano ai nomi di Joost Posthuma (Rabobank), Stephan Schreck (T-Mobile), Dmitri Konyshev (Team LPR) e Nicolas Portal (Caisse d’Epargne). Dietro, un altro quartetto si porta all’inseguimento: Marco Righetto (Liquigas), Frank Hoj (Gerolsteiner), Iker Flores (Euskaltel Euskadi) e Stephane Berges (Agritubel), lo compongono. Il gruppo dei migliori è tirato, forse eccessivamente, dalla Quick-Step di Boonen e Pozzato. La gara scivola lentamente fino alla foresta di Arenberg. I quattro fuggitivi la imboccano con 1’35’’ di vantaggio sul gruppo dei migliori che intanto ha inghiottito gli altri quattro, lasciati precedentemente a bagnomaria. Quando la telecamera torna ad inquadrare il gruppo dei migliori, che hanno appena imboccato l’Arenberg, sembra che Boonen voglia divorare in un sol boccone il pavè e la bicicletta, tanta è la forza con la quale spinge sui pedali. Il gruppo, inevitabilmente si spezza. Konyshev, che ha 40 anni e che prova a sopperire con il talento alle energie che mancano, perde nell’arco di un chilometro e mezzo tutto il vantaggio, mentre nel plotone è un sorprendente Cancellara a tentare l’allungo. Lo svizzero pedala che è una bellezza. La sua non è un’azione di potenza, ma di pura agilità. Sul pavè sembra ballare, mentre dietro c’è chi arranca, chi cade, chi perde inesorabilmente terreno. E così, fuori dalla foresta, davanti rimangono in 18. Tutti i favoriti, ad eccezione di due nomi: il nostro Pozzato, che a 300 metri dalla foresta ha perso le ruote dei migliori causa un contatto con un corridore della Csc, ed il sempreverde Erik Zabel.
Tra i 18 di testa la sorpresa è rappresentata dalla presenza del nostro Enrico Franzoi, compagno di squadra di Ballan, che perderà, però, presto terreno.
La seconda sorpresa di giornata è sicuramente l’assenza di compagni di Tom Boonen, mentre la Discovery Channel sembra la formazione meglio equipaggiata, con la contemporanea presenza di Hincapie, Gusev ed Hoste. Due, come detto, i corridori in casa Lampre, così come per la Davitamon, che presenta Van Petegem e Steegmans, la Csc, con Cancellara e Michaelsen, la T-Mobile con Wesemann e Schreck, la Francaise des Jeux con Guesdon ed Eisel, e la Rabobank con Flecha e Posthuma. Il campione del Mondo è l’unico tra i big a rimanere senza compagni, e la cosa lascia sinceramente sconcertati, in quanto la Quick-Step, al pari della Discovery Channel avrebbe dovuto essere la formazione di riferimento. La selezione al vertice diventa ben presto naturale e perdono subito terreno i fuggitivi di giornata, Posthuma e Schreck, seguiti subito dal nostro Franzoi. Quando mancano 57 chilometri, nel corso del settore 11, è lo spagnolo Flecha ad aprire le danze, attaccando. Sembrano seguirlo i soli Boonen e Cancellara, ma i 3 vengono subito riassorbiti e nel settore di Mons-En-Pevele, quando mancano ormai meno di 50 chilometri, è proprio lo svizzero a provare di nuovo. La sua è una stilettata che fa male. Ma chi si fa ancora più male è lo statunitense Hincapie, che vede di colpo il suo manubrio cedere, tranciandosi di netto. All’ex uomo di fiducia di Armstrong, segnalato in grandissima forma, manca improvvisamente l’appoggio e cade in avanti, proprio in un tratto di pavè. La sua Roubaix finisce qui.
L’attacco di Cancellara intanto divide il precedente gruppo in due piccoli drappelli da quattro: davanti rimangono Boonen, Cancellara, Van Petegem e Ballan, alle loro spalle c’è il duo della Discovery ormai composto da Hoste e Gusev, insieme a Flecha ed Eisel. I quattro ritardari riescono ben presto a rientrare sui battistrada e nel tratto di pavè di Cysoing, al chilometro 230 di gara, gli otto entrano di nuovo insieme. Qui, nuovo colpo di scena. Nell’approcciare una curva a destra, Gusev cade, trascinando a terra anche il nostro Alessandro Ballan, perfetto fino a quel momento. Il veneto però ha un moto di rabbia. Si rialza velocemente e riparte a tutta, rientrando rapidamente sui battistrada, mentre Gusev sembra tagliato ormai fuori. Non è così. L’uomo Discovery non solo rientra sui 7 compagni di fuga, ma addirittura, quando inizia il tratto di pavè di Camphin-en-Pevele è proprio lui a portarsi in testa ed a promuovere l’azione che poi si rivelerà decisiva. Scatta in testa, portandosi dietro Cancellara. Ci si attende un’azione di Boonen che però non avviene ed i due guadagnano ben presto una decina di secondi, all’imbocco del micidiale settore del Carrefour de l’Arbre. Cancellara aumenta di nuovo l’andatura e Gusev non riesce a tenergli la ruota. Da dietro, intanto, informato della resa del compagno, Hoste accelera portandosi dietro Van Petegem. I due nell’arco di poche pedalate raggiungono Gusev e la corsa è ormai divisa in tre tronconi. C’è Cancellara solo al comando, al suo inseguimento un terzetto composto da Hoste, Gusev e Van Petegem e leggermente più indietro Boonen, Ballan e Flecha. Il campione del Mondo è ormai cotto, tanto da affrontare l’ultimo tratto del Carrefour con un’andatura ciondolante, scuotendo il capo ora a destra ora a sinistra. Eisel, nel frattempo si è arreso e viaggia tutto solo in ottava posizione. All’uscita dal Carrefour la gara è ormai chiusa, prima del colpo di scena che, di fatto, non aggiunge nulla o quasi ad un successo ormai annunciato. Siamo a 10 chilometri dal traguardo quando lo svizzero al comando supera agilmente un passaggio a livello. In questo tratto nel 2001 Servais Knaven scattò e fece sua la Regina. In questo tratto, trenta secondi dopo il passaggio di Cancellara, il terzetto composto da Hoste, Van Petegem e Gusev trova le sbarre del passaggio a livello abbassate ma decide di passare lo stesso. Venti secondi dopo transiteranno anche Ballan, Boonen e Flecha. Loro tre verranno fermati. Un treno merci spegnerà di fatto le residue velleità dei tre di riagganciare il trio che si giocherà i rimanenti posti sul podio. La gara è ormai chiusa. Per Cancellara è l’apoteosi. Lo svizzero, ottimo cronoman, continua a guadagnare secondi su secondi e si presenta tutto solo nel velodromo di Roubaix, andando a cogliere il successo più importante della sua carriera. Alle sue spalle Hoste batte Van Petegem nella volata per il secondo posto, lasciando Gusev quarto, mentre Boonen, pochi secondi più tardi regolerà Ballan e Flecha. Il campione del Mondo, per il momento, sarà soltanto quinto. Per il momento, perché la giuria di gara, in preda ad un raptus di onnipotenza, decide che Hoste, Van Petegem e Gusev, a causa del passaggio con le sbarre abbassate, debbano essere squalificati. Errore nell’errore. Una disattenzione degli organizzatori, ha di fatto tolto dai giochi tre degli atleti più meritevoli. E così, la nuova classifica recita Boonen secondo ed uno splendido Ale Ballan terzo. Il resto, gli altri gruppi che alla spicciolata arrivano nel velodromo, gli applausi della gente, la ressa intorno a Cancellara, fanno già parte della storia. La storia di una corsa nata nel 1896, che proprio ieri si regalava il centodecimo anno di una gloriosa leggenda.
Passiamo ora all’analisi di quello che è stato, cominciando, come sempre dal vincitore, lo svizzero Fabian Cancellara. L’ex uomo di Ferretti ha compiuto un capolavoro di tattica. Ha innanzitutto privilegiato l’agilità nei confronti della potenza. Nonostante sia un ottimo uomo nelle prove contro il tempo, infatti, Cancellara ha deciso di adottare il 42 sulla moltiplica più piccola anziché il 44 o il 46 scelto da molti dei suoi colleghi. Perché questa scelta? Perché alcuni tratti in pavè è preferibile affrontarli con agilità piuttosto che con la potenza e soprattutto perché, grazie a questa scelta ha potuto preservare le energie necessarie per risultare imprendibile nel tratto conclusivo in pianura. Probabilmente se avesse corso con due o quattro denti in più sulla moltiplica piccola non avrebbe poi avuto troppe forze da spendere, mentre scegliendo di gareggiare in agilità si è ritrovato più fresco degli avversari negli ultimi chilometri. Tuttavia la sua Roubaix non è solo questo. La sua Roubaix è un capolavoro in quanto mai lo svizzero ha sprecato più del dovuto. A tratti sembrava quasi che lui e lo stesso Flecha corressero ancora per lo stesso gruppo sportivo e che l’azione dell’uno servisse per spianare la strada all’altro. Ovviamente non era così e mentre lo spagnolo andava lentamente scaricandosi per i troppi attacchi, lo svizzero ha in realtà portato soltanto due scatti decisi. Il secondo ha provocato la rottura definitiva del drappello di testa. Soprattutto in quel momento l’atleta di Berna ha dimostrato un’intelligenza tattica fuori dal comune. Infatti, nel momento in cui Gusev si è portato al comando, probabilmente gli altri avversari pensavano potesse essere il canto del cigno dell’uomo Discovery. Cancellara si è subito accorto che così non era ed è andato in prima persona a promuovere l’azione che risolvesse la gara, trascinandosi dietro lo stesso Gusev per pochi chilometri prima di staccarlo. Al pari di Boonen, Cancellara ha gareggiato gli ultimi 50 chilometri senza compagni, ma come si sa la Parigi-Roubaix, in fondo, si vince grazie soprattutto alle proprie gambe, e non a quelle dei gregari. E quest’oggi, l’uomo di Riis aveva più gamba di tutti gli avversari messi insieme.
Boonen, nel bene o nel male, sul podio ci è finito lo stesso. Ci è finito grazie alla “bravura” della giuria francese, ma questo poco conta. Quel che più conta è che oggi il campione di Mol si è dimostrato vulnerabile, attaccabile, ed ha dimostrato di poter cedere alla stanchezza. Ma non bisogna farne un dramma, questo proprio no. Non va dimenticato che il Campione del Mondo è a tutta già dalle primissime gare stagionale, ovvero dal mese di gennaio. E’ passato per la Parigi-Nizza dominandola, per poi correre ottimamente la Milano-Sanremo e vincere da leader incontrastato il Giro delle Fiandre. Una giornata storta può starci, e comunque, anche dimostrandosi vulnerabile, Boonen non ha mollato, arrivando tra i migliori. E’ rimasto senza compagni, questo è vero ma non vale come scusa, perché come detto per Cancellara, la Roubaix è soprattutto una gara individuale. Ed allora, parliamo soltanto di giornata no, con la sicurezza che già nel futuro prossimo, questa classica monumento potrà tornare sua.
Il gradino più basso del podio viene invece occupato da un immenso Alessandro Ballan. Sempre lì con i migliori, come al Fiandre, con una differenza di fondo. Al Giro delle Fiandre al veneto sono mancate le gambe per seguire l’azione giusta. In questa Roubaix non possiamo dirlo per certo. Non si può dire, perché, fino al momento della caduta Ballan era rimasto con i migliori e l’azione con la quale si è riportato subito sotto lascia pensare che di energie ce ne fossero ancora tante da spendere. Purtroppo però, quella azione, unita ai postumi della caduta, hanno fatto sì che l’uomo della Lampre sia mancato proprio nel momento decisivo della corsa. Chissà come sarebbe andata senza l’inutile dispendio di energie. La sua campagna del nord si conclude con un quinto al Fiandre ed un terzo (sesto senza la squalifica) alla Roubaix. Chi si sarebbe aspettato di più? Nel futuro ci potrà essere anche il suo nome.
Chi è stato protagonista assoluto è sicuramente Peter Van Petegem. In questa settimana, tra Fiandre e Roubaix, si è rigenerato, e ieri, senza l’ingiusta squalifica, sarebbe giunto terzo. Resta da capire se, nel momento dello scatto di Cancellara, il belga abbia preferito attendere la risposta di Boonen o non abbia avuto proprio le forze per andare dietro allo svizzero, ma di certo lo spirito combattivo che anima il corridore della Davitamon ha fatto sì che anche quel momento di apparente debacle venisse superato in fretta, seguendo subito Hoste nell’azione successiva. All’età di 36 anni, trovarsi a competere ancora ad alti livelli contro avversari che hanno 10 anni in meno non è certo cosa da tutti i giorni. La squalifica rimane un vero peccato, anche se è certo che se il belga troverà la forza di rialzarsi, lo vedremo protagonista ancora per una-due stagioni. Se non altro, è riuscito a prendersi la rivincita nei confronti di Boonen. Per una volta, era riuscito ad arrivargli davanti. Non è servito a molto.
Un plauso particolare merita Leif Hoste. Lui era partito sia al Fiandre che alla Roubaix come seconda alternativa, in quanto il capitano della Discovery Channel alla partenza era George Hincapie. Eppure, in entrambe le circostanze si è ritrovato in prima persona a lottare con i migliori, ottenendo due secondi posti che hanno il sapore della beffa. E così, ancora una volta il belga viene relegato ad occupare la piazza d’onore. Non essendo dotato di uno spunto veloce, forse avrebbe dovuto seguire Cancellara nel tentativo prima del Carrefour. Ma ad un motorino come lo svizzero, come fai a stargli dietro?
Per Juan Antonio Flecha invece la Roubaix sta diventando un’ossessione. Quest’anno però, avrebbe dovuto gestirsi meglio. Troppi ed inutili gli attacchi tentati. Anche lui, come molti suo avversari, ha battezzato Boonen come avversario da battere, sbagliando. Se avesse preservato le forze per il finale, non avrebbe di certo arrancato alla ruota di Ballan e Boonen. La voglia di strafare e di dimostrare qualcosa lo hanno portato a sprecare energie inutili ed a correre oggettivamente male. Strano davvero per un corridore della sua esperienza, che dopo il terzo posto dell’anno scorso avrebbe dovuto pianificare meglio ogni eventuale attacco. Sarà per la prossima volta.
Analizzando la Roubaix delle squadre, la migliore in questa circostanza è risultata essere la Discovery Channel ,trovatasi davanti con 3 uomini dopo l’Arenberg. Dopo la caduta del capitano Hincapie, la formazione statunitense ha saputo fare di necessità virtù, ed era ugualmente riuscita a piazzare i suoi due uomini nei primi quattro, prima della squalifica. Gli americani hanno dato dimostrazione di grande compattezza, anche se a volte gli attacchi non sono parsi ben combinati. Ottima la scelta di far scattare Hoste nel finale, con Gusev davanti in difficoltà. A quel punto, era quello l’unico modo per cercare di contrastare l’irresistibile Cancellara.
Chi ha steccato è stata invece la corazzata belga della Quick-Step. Il discorso va però fatto con il giusto senno. E se Pozzato non fosse stato danneggiato prima dell’Arenberg, come sarebbero andate le cose? Rimane un discorso a se stante, è vero, ma non si può certo dire che i belgi abbiano deluso. Forse, a differenza di altre volte, sono stati soltanto meno fortunati. Ed hanno avuto un Boonen che non era propriamente in giornata di grazia. Pozzato ha giustamente detto: “Avevamo già vinto due classiche su due, ogni tanto è giusto che vincano anche gli altri”. Parole sante. Ed appuntamento a domenica prossima…
Tra le altre compagini, c’è chi come la T-Mobile e la Rabobank ha tentato l’azione da lontano con un uomo che potesse poi permettere supporto al proprio capitano. E’ il caso di Posthuma e Schreck, chiamati poi a sostenere i rispettivi capitani, Flecha e Wesemann. I direttori sportivi non hanno però fatto il conto con un fattore determinante. Chi va in fuga in una gara come la Roubaix, una volta riassorbito non avrà tutte quelle forze necessarie per pilotare il proprio capitano per troppi chilometri, tant’è che entrambi i fuggitivi della mattinata si sono poi staccati velocemente. Piani da rivedere in futuro?
Le formazioni italiane hanno fatto ciò che dovevano: il team Lpr e la Liquigas, dopo le defezioni dei rispettivi capitani Pieri e Backstedt si sono arrangiate tentando di entrare nelle fughe con Konyshev (complimenti all’eterno “ragazzo”) e Righetto. Di più non avrebbero potuto fare. La Lampre, considerata anche l’assenza di Bennati, ha giocato la doppia carta Ballan-Franzoi. Il primo è ormai una sicurezza, mentre Franzoi sta piano piano emergendo e con un maggiore allenamento sul fondo lo potremmo vedere protagonista nel futuro prossimo. Ha deluso invece la Milram, che torna con un pugno di mosche da questa campagna del Nord. La formazione di Stanga avrà comunque tempo per rodare meglio i meccanismi.
Chiudiamo con due considerazioni. La prima riguarda un uomo che al giorno d’oggi è fuori dal nostro ambiente. Stiamo parlando di Giancarlo Ferretti, manager dal carisma straordinario che ha saputo plasmare ragazzi come Pozzato e Cancellara, oggi vincitori di due classiche su tre. E, anche se Pozzato ha sempre avuto un rapporto contrastante con Ferretti, si può dire che proprio grazie al ds Fassa il vicentino sia cresciuto. Alla pari di Cancellara. Questi successi sono anche merito del vecchio Ferron.
La seconda considerazione riguarda il cambio generazionale che sta vivendo il nostro amato sport. Le tre classiche finora disputate sono state appannaggio di tre ragazzi degli anni ’80, segno che le nuove leve stanno ormai stabilmente soppiantando i corridori di vecchio stampo. E se questo, da una parte, può rattristare i nostalgici, dall’altro induce a tirare un sospiro di sollievo. Il nostro sport si sta rigenerando, lasciandosi alle spalle gli anni bui. Ed allora, viva la vittoria di Cancellara, e che sia uno spot per un sano rilancio per tutto l’ambiente.

Marco Ferri

Lattacco di Cancellara sul Carrefour de lArbre (foto Bettini)

L'attacco di Cancellara sul Carrefour de l'Arbre (foto Bettini)

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