L’EREDITA’ DI MARCO PANTANI
febbraio 15, 2011
Categoria: Approfondimenti
Che eredità ci ha lasciato Marco Pantani?
A sette anni dalla tragica scomparsa del Pirata andiamo ad analizzare come è cambiato il mondo del ciclismo alla luce delle imprese e dei rovesci dello scalatore romagnolo.
Foto copertina: tra questi volti ci sarà il Pantani del futuro? (pernondimenticaremarco.spaces.live.com)
Da poche ore sono trascorsi sette anni da quando Marco Pantani si è spento nella stanza D5 del residence Le Rose di Rimini. Parlare e scrivere del Pirata risulta sempre più difficile, dopo che tutte le voci e le penne più o meno autorevoli del giornalismo italiano, sportivo e non solo, hanno versato fiumi di parole e di inchiostro sul suo dramma. Anziché cimentarci nell’ennesimo ricordo più o meno commosso e certamente molto retorico di Pantani e delle sue gesta, ci pare forse più interessante, a sette anni dalla sua scomparsa, provare ad analizzare l’eredità che il Pirata ha lasciato. Un’eredità che va al di là dei ricordi e delle emozioni che Pantani ha saputo regalare ai suoi tifosi (quelli veri, non quelli che hanno preso a proliferare dopo quel 14 febbraio 2004), un lascito che non può limitarsi alle diatribe Pantani santo/Pantani drogato che spesso si ascoltano e si leggono fra appassionati ed esperti o presunti tali, come se la vicenda dello scalatore di Cesenatico potesse essere del tutto scissa dal doping e della “sostanza”, come il Pirata era solito alludere alla cocaina, o potesse risolversi soltanto in quelli.
L’eredità che Pantani ha lasciato è, in primo luogo e molto banalmente, un’eredità fatta di atleti. Stanno iniziando ad affacciarsi al professionismo – o a breve lo faranno – le generazioni di ragazzini avviati al ciclismo dalle imprese del Pirata. Pantani ha saputo riportare intorno al ciclismo un entusiasmo che mancava da decenni, è riuscito a tenere incollati al teleschermo almeno una parte dei tantissimi bambini che subiscono il fascino della bicicletta e del plotone variopinto mostrato dalle riprese televisive, ma che ben difficilmente riescono a sostenere svariate ore di diretta, venendo così dirottati verso sport televisivamente più “dinamici”. Crediamo di non correre rischio di essere smentiti dicendo che molti dei giovani che di qui a poche stagioni varcheranno le soglie del professionismo hanno mulinato le prime pedalate tra ’97 e ’99, sognando, anziché di diventare il nuovo Totti o il Ronaldo del 2000, di poter un giorno emulare le imprese del Pirata.
Pantani e la vicenda che lo ha visto protagonista dopo il 5 giugno ’99 ci hanno poi reso probabilmente un po’ meno sensibili agli scandali doping che dopo allora hanno investito con frequenza via via crescente il mondo del ciclismo, fino a farlo identificare – probabilmente erroneamente – come il regno delle sostanze proibite. Nessun affare Basso o Di Luca, nessuna positività di un Rebellin o un Contador, perfino nessun caso Riccò – pur con la tragedia sfiorata di pochi giorni fa, e malgrado attorno al modenese stesse sorgendo, nell’estate 2008, un entusiasmo che per la prima volta ha ricordato quello dei giorni d’oro del Pirata – potranno eguagliare lo sconforto delle migliaia di appassionati che quel giorno si erano dati appuntamento sul Mortirolo per applaudire Pantani in rosa, e appresero per radio lo scoppio di una vicenda tuttora mai davvero chiarita. Una vicenda che ha permesso ai più attenti di rendersi conto dell’ipocrisia di quella parte della stampa che solo pochi giorni prima salutava il trionfo di Oropa come una delle massime imprese del ciclismo moderno, e che, non appena appreso del valore di ematocrito fuori norma del Pirata, ha preso ad abbattere ferocemente l’idolo che essa stessa aveva innalzato, salvo poi tornare a cantarne il mito post-mortem. Una vicenda che ci ha sostanzialmente preparato a tutto, perché se è caduto così anche Pantani, è lecito dubitare di tutti. Una vicenda che è stata forse la prima a rendere ricorrente quell’odioso ritornello che i più saggi, coloro che sono certi di avere capito tutto del mondo del ciclismo senza mai neanche essersi presi la briga di porre le regali chiappe su una sella o di provare ad acquisirne una conoscenza un po’ più approfondita, sono soliti sfoderare di fronte all’ennesima positività: “Ma sì, tanto fanno tutti così”, con tutte le varianti del caso (fra cui si segnala per sagacia “Ma tanto si drogano tutti, quindi vince comunque il più forte”). Una vicenda il cui solo merito è probabilmente quello di aver perlomeno reso impossibile continuare a tacere o quasi circa l’uso di sostanze proibite, ma che ha raggiunto l’obiettivo finendo per unire inscindibilmente il volto e il nome del Pirata alla piaga.
Pantani ha poi lasciato in eredità una spasmodica necessità di trovarne un degno erede. Un erede che qualcuno ha ritenuto di poter riconoscere nel Cunego del Giro 2004, altri nel Riccò del 2008, altri ancora, varcando i confini italiani, nell’Iban Mayo dell’Alpe d’Huez 2003. Eredi ovviamente mai all’altezza non per loro colpe, forse anche schiacciati – specie nel caso dei corridori italiani – dal peso delle aspettative derivanti dall’accostamento al più grande scalatore moderno. Tanto grande da far dire a Lance Armstrong, noto per varie ragioni ma non certo per essere l’incarnazione dell’umiltà e della modestia, prossimo a vincere il suo primo Tour de France, che stava vincendo quel Tour, ma “se ci fosse [stato] Pantani lo avrebbe vinto lui”.
L’eredità forse più importante che ci resta di Pantani è però rappresentata da un certo modo di guardare le corse che probabilmente, senza di lui, sarebbe andato perduto. Oggi ci parrebbero forse non meno noiose ma certamente più accettabili certe transumanze alpine e pirenaiche cui abbiamo assistito negli ultimi anni, se non ci fosse stato in tempi piuttosto recenti chi ha dimostrato che anche nell’era delle radioline e della preparazione esasperata di ogni dettaglio c’era spazio per stracciare e riscrivere da cima a fondo il canovaccio della corsa, per sovvertirla anche a dispetto di un terreno non sempre favorevolissimo. Senza Pantani molte meno persone passerebbero oggi vari pomeriggi all’anno ad aspettare per ore un’azione di coraggio che probabilmente non arriverà, sospirando o sentendo sospirare “Se ci fosse stato lui…”, alludendo a chi forse non ce l’avrebbe fatta comunque, ma almeno ci avrebbe provato. Un modo di avvicinarsi alle corse, specie alle tappe di montagna, che carica di speranze e finisce per generare soprattutto delusione, e costringe a consolarsi pensando che forse, se c’è stato un Pantani, prima o poi ne nascerà un altro. Pur sapendo che molto probabilmente non sarà così.
Matteo Novarini
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