VISMA PIANO B, MA TADDEO FA IL CANNIBALE
La Visma manda in fuga quelli che dovrebbero essere gli ultimi uomini di Vingegaard e, nel finale, Jorgenson stacca anche scalatori puri come Carapaz e Yates, ma la maglia gialla parte a 8 km dall’arrivo senza nemmeno alzarsi sui pedali. Evenepoel e Vingegaard non tentano neppure di rispondere e il belga fa il suo ottimo ritmo che il danese sembra abbia fatto fatica a seguire.
Molti si sono chiesti se la fuga di Wilco Kelderman e Matteo Jorgenson fosse preordinata ad un attacco da lontano di Jonas Vingegaard (Visma) oppure finalizzata a vincere la prima vera tappa alpina.
Non si trattava di un tappone nel senso classico del termine, perché il ridottissimo chilometraggio non consente di definirla tale, ma si trattava certamente di una frazione durissima, con 3 salite sopra i 2000 metri, e una di queste sfiorava addirittura i 3000.
Salite storiche, il punto più alto del Tour nonché valico carrozzabile più alto d’Europa: una tappa come questa era ovviamente molto ambita e quindi si poteva ben ritenere che la Visma corresse per la tappa. In realtà, il direttore sportivo, dopo la tappa, ha confermato che il piano era quello di lanciare un attacco sulla Bonette con Vingegaard per trovarsi sulla strada i due migliori uomini in salita. I piani, però, sono cambiati quando il danese ha comunicato di non sentirsi al massimo e ha quindi preferito lasciare che Kelderman lavorasse per Jorgenson, che infatti è andato molto vicino al colpaccio.
Vedendo poi come è andata la tappa per Vingegaard si è capito che forse non si è trattato di una semplice giornata no, poichè il fuoriclasse danese forse comincia ad accusare la mancanza di una adeguata preparazione.
Le conseguenze di una tale situazione, specialmente se si cerca di forzare il rientro in bicicletta dopo un brutto infortunio, possono farsi sentire nella terza settimana, laddove manca il fondo che si allena solo con la continuità.
Del resto, quando Tadej Pogacar (UAE Team Emirates) ha alzato il ritmo, non gli è stato nemmeno necessario alzarsi sui pedali o fare quella rasoiata violenta che era stata necessaria a dare 8 secondi al danese in cima al Galibier.
Il divario tra i due, che all’inizio sembrava molto ridotto, è andato crescendo nel corso del Tour e ora il capitano della Visma dovrà anche guardarsi dagli attacchi di Remco Evenepoel (Soudal Quick-Step), che sembra cominciare a pensare con bramosia alla possibilità di issarsi sulla piazza d’onore.
Taddeo è semplicemente di un altro pianeta. Al termine del Giro d’Italia si era commentata la pochezza degli avversari, finiti a 10 minuti, ma va anche detto che, anche al Tour con tutti i migliori ciclisti del mondo, la musica non è molto diversa poiché ora Vingegaard si trova a oltre 5 minuti ed Evenepoel a oltre 7. E, se Pogacar decidesse di spingere al massimo anche nella due frazioni residue, la classifica finale potrebbe somigliare molto a quella del Giro.
Oggi si sono rivisti i distacchi degli anni 90 e dei primi 2000.
In un ciclismo che ci aveva abituati a vedere i big battagliare negli ultimissimi chilometri di salita per darsi pochi secondi l’un l’altro, Pogacar costringe un po’ tutti a cercare di far meglio. Quando è partito lui, infatti, anche Evenepoel ha alzato il ritmo e lui e Vingegaard sono rimasti da soli a 8 Km dall’arrivo. L’esatto contrario dei trenini modello Sky o Jumbo, nei quali l’ultimo uomo si spostava all’ultimo chilometro per propiziare lo sprint del capitano e nessuno osava uscire dallo schema prestabilito per timore di saltare.
Venendo alla cronaca odierna subito dopo il via ufficiale si forma un attacco in cui ci sono anche i due alfieri della Visma Kelderman e Jorgenson, che aderiscono al tentativo inaugurato da Christophe Laporte (Visma | Lease a Bike) e al quale si aggiungono Christopher Juul-Jensen (Team Jayco – AlUla), Michał Kwiatkowski (Ineos Grenadiers), Nicolas Prodhomme (Decathlon Ag2r La Mondiale), Jack Haig (Bahrain Victorious), Ilan Van Wilder (Soudal Quick-Step), Jai Hindley (Red Bull – Bora – Hansgrohe), Valentin Madouas (Groupama-FDJ), Neilson Powless (EF Education-EasyPost), Brent Van Moer (Lotto Dstny), Bryan Coquard (Cofidis), Davide Formolo e Oier Lazkano (Movistar), Cristián Rodríguez (Arkéa-B&B Hotels), Warren Barguil e Oscar Onley (Team dsm-firmenich PostNL), Magnus Cort e Jonas Abrahamsen (Uno-X Mobility), Mathieu Burgaudeau e Anthony Turgis (TotalEnergies).
All’inizio della salita del Vars si forma anche un contrattacco promosso da Richard Carapaz (EF Education – EasyPost), che si avvantaggia sul gruppo insieme a Egan Bernal (Ineos Grenadiers), Romain Bardet (Team Dsm-Firmenich PostNL) e Simon Yates (Team Jayco AlUla). La salita ovviamente fa le sue vittime e in vetta al Vars sono in nove a comporre la testa della corsa (Jorgenson, Kelderman, Carapaz, Simon Yates, Prodhomme, Onley, Van Wilder, Cristian Rodríguez e Hindley.)
Sulla salita verso gli oltre 2800 metri della Cima della Bonette il gruppo maglia gialla alza il ritmo e molti perdono contatto, mentre davanti restano Jorgenson, Kelderman, Rodríguez, Carapaz, Yates e Hindley con un vantaggio che continua a veleggiare sui 3 minuti.
Carapaz è il primo a transitare sul tetto del Tour e domani vestirà la maglia di miglior scalatore della Grande Boucle, la prestigiosa maglia a pois.
Il gruppo sceglie la prudenza in discesa e il vantaggio sale ma, quando prendono in mano la situazione prima Pavel Sivakov (UAE Team Emirates), poi Soler e infine Adam Yates, si capisce che Pogacar vuole andare a prendersi la tappa.
Davanti iniziano gli attacchi con Jorgenson che riesce a portarsi in testa da solo, seguito a qualche secondo da Carapaz, che sarà a sua volta raggiunto e staccato da Simon Yates.
Quando mancano 8 km all’arrivo ed il distacco è di 2′45″ la maglia gialla aumenta il ritmo senza neppure scattare e lascia tutti sul posto, andando a riprendere uno ad uno tutti i fuggitivi ed andando a vincere con l’inchino.
Evenepoel come al solito si difende con il ritmo, ma si accorge del fatto che Vingegaard resta incollato alla sua ruota e non sembra in grande giornata.
In un paio di occasioni il belga tenta di alzare i giri del motore, ma è già un gran passo in avanti per lui riuscire a resistere in tappe come questa.
Il danese non si fa staccare e conserva un buon margine sul terzo classificato, anche se non si tratta di un vantaggio del tutto rassicurante, specie considerando che l’ultima tappa sarà una cronometro individuale, gara che – anche se non pianeggiante – potrebbe sorridere alla maglia bianca.
Il distacco della coppia da Pogacar sarà di 1′42″ che, sommato all’abbuono, porta il distacco in generale del secondo a 5′03″ e quello del terzo a 7′01″.
E’ invece interessante notare che il quarto, il portoghese João Almeida (UAE Team Emirates) si trova già a 15 minuti di ritardo dallo sloveno.
Pogacar probabilmente avrà corso il Giro al risparmio, questo è vero, tuttavia quest’anno la sua superiorità è stata netta in entrambe le corse, probabilmente anche perché Vingegaard per forza di cose non è lo stesso dello scorso anno. Tuttavia Evenepoel, seppur molto migliorato, sembra ancora molto distante e dietro c’è l’abisso.
Benedetto Ciccarone
CAMPANE PER CAMPENAERTS, L’EX RECORDMAN DELL’ORA VINCE A BARCELONNETTE DOPO UN ANNO DI DIGIUNO
La diciottesima tappa del Tour 2024 riservava ai fuggitivi un’occasione da non perdere e così è stato. La maxifuga di oltre 30 ciclisti vede nel finale attacchi e contrattacchi con un terzetto di qualità che resta a giocarsi la vittoria. Nella volata a tre Victor Campenaerts (team Lotto Dstny) si impone su Matteo Vercher (Team TotalEnergies) e Michal Kwiatkowski (team INEOS Grenadiers). Domani primo dei due tapponi alpini con l’attesa di un nuovo duello tra Pogacar e Vingegaard
La diciottesima tappa del Tour 2024 parte da Gap e termina a Barcelonnette dopo 179.5 km. Sarà una giornata interessante che come ieri dovrebbe favorire la fuga mentre i big di classifica ‘riposeranno’ in vista del decisivo week end tra Alpi e Costa Azzurra. Non mancheranno i gpm da scalare – ben cinque e tutti di terza categoria – e già il Col du Festre dopo 30 km potrebbe essere decisivo per la formazione della fuga di giornata. Dopo i primi 20 km, tra attacchi e contrattacchi, Jasper Stuyven (Team Lidl Trek) iniziava a scalare in testa il Col du Festre con una decina di secondi di vantaggio sul gruppo maglia gialla. Il belga veniva ripreso e ricominciavano gli scatti in testa al gruppo. A circa metà dell’ascesa si staccavano una ventina di ciclisti tra cui spiccava il nome di Wout van Aert (Team Visma Lease a Bike) ma il gruppo reagiva nuovamente ed annullava questo nuovo tentativo. Oier Lazkano (Team Cofidis) scollinava in prima posizione sul gpm del Col de Festre posto al km 32.2. Oltre allo spagnolo facevano parte della maxi-fuga di oggi altri 35 ciclisti ovvero Alex Aranburu e Gregor Muhlberger (Team Movistar), Wout van Aert e Bart Lemmen (Team Visma Lease a Bike), Christopher Juul-Jensen e Michael Matthews (Team Jayco AlUla), Michal Kwiatkowski e Geraint Thomas (Team INEOS Grenadiers), Julien Bernard e Toms Skujins (Team Lidl Trek), Bruno Armirail, Dorian Godon e Nicolas Prodhomme (Team Decathlon AG2R La Mondiale), Wout Poels (Team Bahrain Victorious), Jai Hindley e Matteo Sobrero (Team BORA Hansgrohe), Valentin Madouas e Quentin Pacher (Team Groupama FDJ), Richard Carapaz, Ben Healy e Sean Quinn (Team EF Education EasyPost), Victor Campenaerts (Team Lotto Dstny), Hugo Houle e Kris Neilands (Team Israel Premier Tech), Guillaume Martin (Team Cofidis), Clement Champoussin e Raul Garcia Pierna (Team Arkea B&B Hotels), Louis Meintjes e Georg Zimmermann (Team Intermarchè Wanty), Frank van den Broek (Team DSM Firmenich PostNL), Tobias Halland Johannessen (Team Uno X Mobility), Steff Cras, Mathieu Burgaudeau, Jordan Jegat e Matteo Vercher (Team Total Energies). Lazkano scollinava in prima posizione sul gpm della Côte de Corps posta al km 57.5. Matthews vinceva il traguardo volante di Saint-Bonnet-en-Champsaur posto al km 84.3. Lazkano transitava in prima posizione sul successivo gpm del Col de Manse posto al km 97.3. Halland Johanness scollinava in prima posizione sul successivo gpm della Côte de Saint-Apollinaire posto al km 121. A 50 km dalla conclusione la tappa aveva ormai assunto una fisionomia evidente, con i fuggitivi che si sarebbero giocati la vittoria ed il gruppo maglia gialla che inseguiva – si fa per dire – a oltre 10 minuti di ritardo. Kwiatkowski scollinava in prima posizione sul quinto ed ultimo gpm di giornata, la Côte des Demoiselles Coiffées posta al km 139.1. Il ciclista polacco era tra i più attivi negli ultimi 30 km in leggero falsopiano. Attaccava insieme a Campenaerts ed a Vercher ed il terzetto di testa in breve tempo si avvantaggiava di una quarantina di secondi su un primo gruppo inseguitore formato da Lemmen, Skujins, Hindley, Neilands e Lazkano. I tre battistrava mantenevano il vantaggio sui diretti inseguitori dandosi regolarmente i cambi. Nonostante un allungo di Vercher a circa 1 km dall’arrivo, la vittoria si sarebbe giocata nella volata ristretta dove a prevalere era Campenaerts davanti a Vercher e Kwiatkowski. Il corridore belga, ex recordman dell’ora, tornava così a sorridore dopo un digiuno di vittorie lungo quasi un anno, iniziato dopo l’affermazione nella tappa a cronometro del Giro di Lussemburgo ottenuta a settembre del 2023. A 22 secondi di ritardo Skujins regolava il gruppetto degli inseguitori per la quarta posizione mentre chiudeva la top five Lazkano in quinta posizione. Il gruppo maglia gialla arrivava ad oltre un quarto d’ora di ritardo. Per Campenaerts è la prima vittoria stagionale mentre la classifica generale non cambia con Tadej Pogacar (UAE Team Emirates) in maglia gialla davanti a Jonas Vingegaard (Team Visma Lease a Bike) e Remco Evenepoel (Team Soudal Quick Step). Domani la diciannovesima tappa offre il primo dei due tapponi alpini con Col de Vars, Cime de la Bonette e Isola 2000. Tre salite davvero impegnative che superano rispettivamente i 18, i 23 ed i 16 km. Torneranno di scena i big di classifica per un finale di Tour che si annuncia davvero entusiasmante.
Antonio Scarfone
SUPERDÉVOLUY E I MASTINI DELLA GUERRA: VENI, VIDI, VICI, REMCO, POGI, RICHIE
Torna l’aurea via di mezzo nel Tour fin qui spesso schizofrenico delle troppe tappe piatte senza fughe, neppure tentate prima di finire confusamente in volata di massa; oppure viceversa del tutti uno per angolo, staccati di minuti. Oggi no, oggi è battaglia corpo a corpo, e col dente avvelenato.
Tappa perfetta per Pogacar, approccio da classica dura, finale prima arcigno con giro di vite nel doppio tornante a scollinare, poi misto, tutto da rilanciare con arrivo in leggera salita. Tappa perfetta per Pogacar come già quelle italiane, quella degli sterrati, quella del Massiccio Centrale. Tappa, insomma, che Pogacar farebbe un gran bene a lasciar assopire, perché tutti i precedenti si sono rivelati forieri di grandi dispendî e pochi ragni cavati dal buco. A meno che, certo, quelle mutue frizioni e quello stringere i denti non siano stati l’autentica causa dell’erosione che ha consumato i piloni non così solidi della preparazione di Vingegaard, proprio come era accaduto a parti invertite nel TDF 2023. Ad ogni buon conto, ora che la maglia è più gialla del sole di luglio, non vale la pena di svenare se stessi ma soprattutto la squadra per guadagni destinati a essere cronometricamente modesti: ci attende da domani un trittico di tappe d’impegno crescente in termini di team.
E, per una volta, tutto sembra concorrere a questo disegno ordinato: ordinato fino a un certo punto, perché apre la strada, letteralmente, al caos vorticoso in cui si traducono le migliori tappe da fughe, quelle più sopraffine. Ma il menù apparecchiato è ancor più appetitoso, in varie portate: prima di tutto ci sarà la lotta per formarla, questa fuga, con l’antipasto annesso delle valutazioni tattiche qualora in fuga ci finiscano gregari degli uomini forti della generale. Averne davanti può significare disporre di importanti teste di ponte per un attacco di media gittata, ma anche, difensivamente, che se la bagarre fra i migliori si dovesse scatenare troppo presto, perdendosi dunque il supporto immediato, ci sarebbero uomini davanti da fermare per venire in soccorso a un capitano isolato. Seconda portata, la guerra di trincea punto a punto per la maglia verde finale: sembrava che l’eritreo Girmay fosse definitivamente destinato ad essere il primo africano investito del primato finale nella classifica ormai associata agli uomini veloci, invece la forma crescente di Mathieu van der Poel, qui ad allenarsi per le Olimpiadi sotto le umili vesti di assistman per il compago Philipsen, si è tradotta all’istante in un terzetto di trionfi per il belga, mentre Girmay ha perso una palata di punti con una caduta in un finale cruciale. Ora la battaglia si articola nei traguardi intermedi rimasti, posizionati spesso in modo peculiare nel tracciato di tappa. Infine, va da sé, la vittoria di tappa in quanto tale.
Con queste premesse non sorprende che la fuga stenti a prendere forma: su un percorso che prevede infiniti falsipiani a salire, senza respiro, rimbombano come tuoni in un temporale estivo gli attacchi e i contrattacchi, uno via l’altro, tanto più che si alza il vento e il peloton apre e chiude i propri ventagli con l’ansia di una beghina in una chiesa afosa. Due ore a 48 km/h di media su un nastro d’asfalto che implacabile accumula in quel centinaio scarso di km la bellezza di 1.300 metri di dislivello tutto positivo, senza uno straccio di contropendenza per rifiatare. Se ci sono luogotenenti degli squadroni, serra le fila il controsquadrone rivale, se nell’attacco è assente un team che ancora non ha vinto niente, ecco che dovrà rincorrere per contrappasso e ulteriore tortura, se, più in generale, c’è modo di stroncare l’allungo, ci penserà l’Alpecin di Philipsen che vuole il traguardo intermedio, meglio ancora sganciando Philipsen in avanscoperta in un gruppetto nel quale manchi Girmay. Guerriglia di mestiere per la quale a poco vale il controllo dall’ammiraglia, le situazioni in testa al gruppo sono fluide e variabili più di un fronte burrascoso. Al più i direttori sportivi possono strillare di “chiudere, chiudere, chiudere”: intanto la fatica aumenta, il costo di imbroccare la fuga chiave si fa stellare, e le energie rimaste per il finale di partita pericolosamente misere.
Con questo clima se ne va un drappello di guastatori di lusso, uomini per tutte le stagioni accomunati da un motore clamoroso, Benoot (gregario di Vingegaard che ricordiamo soprattutto vincitore di una delle Strade Bianche più fangosa), il danese Cort killer delle tappe in tutti i grandi giri, dalla mezza montagna, ai muri, alla spiaggia di Viareggio, il rouleur lussemburghese Bob Jungels con una Liegi in palmarés, vinta in fuga ça va sans dire, e poi il francesino promettentissimo Romain Gregoire, qui ad imparare alla scuola di questi scafatissimi navy seals.
Ma dietro il gruppo ancora ribolle. Per fortuna di tutti, tranne che dei quattro davanti, arriva il traguardo volante, vince gli avanzi Girmay su Philipsen, un punticino in più accumulato, ma sostanzialmente un occasione in meno per il rivale belga.
Sullo slancio, si squarciano i cieli e scroscia un cataclisma di fuga da 50 atleti o giù di là, un terzo del gruppo praticamente. Per miracolo non c’è nessun vero uomo di classifica, ma sarà anche che ormai i “veri uomini di classifica” sono una dozzina, per non dire mezza dozzina, per non dire tre. Si rivedono tutti coloro che ci avevano provato e riprovato per quelle due lunghissime ore senza mai farcela, sia i fuggitivi che peraltro hanno provato e riprovato per così tante precedenti tappe, i Carapaz, i Mas, i Guillaume Martin, Simon Yates, De Plus, Aranburu, Mohoric… e poi, si vedono, gran novità alfieri di spessore di Visma e UAE a tagliare la scacchiera avvantaggiandosi “in diagonale”, Soler e Sivakov a coprire Pogacar, mentre Van Aert e Laporte si assomano a Benoot per costituire un’avanguardia di assoluto lusso per Vingegaard.
Mosse e contromosse, basta la reciproca copertura in questa guerra di dissuasione per calmare il gruppone, anzi il gruppetto o quel che resta del gruppo. Così quando arrivano le salite il vantaggio dei fuggitivi è già di sei, sette, otto minuti e può prender corpo la gara nella gara. Non senza, come vedremo, qualche incrocio di linee temporali.
Dopo qualche schermaglia sulla prima e più facile salita, sul Col de Noyer, teatro di una crisi tremendissima di Merckx provocata da Ocaña, oggi è Simon Yates ad accendere le polveri, saltando a velocità doppia i quattro evasi della prima ora, a cui si erano aggiunti un altro paio di cagnacci come Madouas e G. Martin. Dietro però di cagnacci ne arrivano un altro bel paio: Carapaz, mai scoraggiato dal suo laborioso indaffararsi senza costrutto nelle battagliatissime tappe di montagna vissute fin qui, scortato dall’inglese Williams, sorpresa di stagione nel gelo della Freccia Vallone. Le carte si rimescolano e sulle rampe finali durissime e dense di pubblico abbiamo un duello, restano soli Yates, composto come un ufficiale inglese, e Carapaz, ringhiante, col coltello fra i denti. Due re del fuorisella, l’uno ritmico, l’altro rabbioso, il primo però fiammeggiante, il secondo martellante. In una giornata così, chi la dura la vince. E stavolta la tappa è del duro Carapaz. Consolazione parziale di non poter difendere l’oro olimpico a Parigi, l’Ecuador ha un solo posto e sarà per scelta tecnica riservato a Narváez (che infilò Pogi nella prima tappa del Giro, dici niente). Con oggi Richard completa la trilogia, ha vinto tappe in ciascun Grande Giro, oltre ad aver raggiunto almeno il podio in tutti e tre (al Giro pure una vittoria finale con due scalpi di lusso come Nibali e Roglic). Probabilmente dietro a Roglic è lui il più grande e il più solido fra i corridori d’interregno, con l’umiltà di saper scegliere traguardi adatti a ogni stagione del ciclismo che si trova attorno, e di lottare sempre per essi con la massima grinta. Doveva proprio arrivare, questa tappa del Tour, remunerazione karmica minima dopo che decise di concedere al gregario Kwiatkowski quella in cui arrivarono assieme dopo una fuga a due leggendaria, quando entrambi correvano in INEOS, e quando lui, Richard, di tappe al Tour non ne aveva ancora vinte. Poi Yates, altro protagonista degli anni di mezzo, e poi Mas, comprimario di lusso, scalatore sopraffino ma sempre in cerca di un qualcosa in più.
E dietro? Dietro ci prova Ciccone, per riassettare la parte bassa della top ten, ma a Pogi non va. Niente contro Ciccone, è solo che evidentemente la maglia gialla con tutti quei Visma davanti vuole evitare che si scuota troppo il vespaio. Il ritmo sale, la pressione pure, la strada anche e in un momento il gruppo conta undici unità. Gli undici uomini che lottano per la top ten finale. Aria tesa, aria di guai, e allora sul muro più aspro in cima al Noyer, è Pogi stesso ad allungare forte… “a sgranchire le gambe”, avrà a dichiarare. L’arrivo è dietro l’angolo, due km all’insù, discesa ondulata, lungo falsopiano finale. Ma ce n’è di che lottare alla morte, perché Vingegaard va in affanno ed è invece Evenepoel ad apparire più convinto. Tornano utilissimi, fondamentali, cruciali gli uomini Visma avvantaggiatisi in precedenza, tutti quanti, Benoot, Van Aert, Laporte, perché Remco è scatenato e seppur in discesa, trattandosi di un tracciato poco tecnico ma semmai rettilineo e di forza, lancia al massimo dei giri la propria pazzesca cilindrata. Pogacar non prende il largo, anzi è presto ripreso, Vingegaard è riportato sotto dai propri scherani. Stallo. La maglia gialla impalpabilmente scivola dall’azione all’inazione: anche questo un atto di guerra, di guerra tattica. E Remco riapre il gas, supportato anche da un Hirt mimetizzato fin lì fra gli avventurieri della maxifuga. Pogi non reagisce, siede sereno a ruota, tocca ai Visma: Vingegaard è ben protetto ma il supporto scema, mentre lui annaspa in un crescente affanno. Ed Evenepoel strappa sul traguardo una manciata di secondi, un niente, dodici su Vingegaard, ma sono dodici gocce di sangue. La promessa di una ferita aperta da cui farne sgorgare ancora. Evenepoel, mastino, indomito, incurante di numeri, distacchi e dati. Infine, sul traguardo, esce, letteralmente “esce”, il Pogacar che non piace, il Pogacar feroce, quello che ha aspettato l’ultimo momento per scattare in faccia al rivale danese e lasciarlo secco. Due. Secondi. Senza nemmeno gli abbuoni da disputare. Solo la cattiveria, la botta morale, lo schiaffone immorale. Esce il veleno di sconfitte incassate col sorriso, ma evidentemente non certo con bonomia. Il veleno sorbito quest’anno con le dichiarazioni fuorvianti di Vingegaard e del suo team, in una campagna di disinformazione e pretattica degna di un’autentica campagna militare. Il veleno, forse, di un timore non del tutto sopito, il timore della sconfitta imprevedibile, impensabile, fuori parametro… lo spettro della crono di Combloux. À la guerre comme a la guerre?
Gabriele Bugada
PHILIPSEN CENTRA IL TRIS A NÎMES, GIRMAY A TERRA, LA SFIDA PER LA MAGLIA VERDE SI RIAPRE
Japer Philipsen conquista la terza vittoria al Tour de France, pareggia i successi con Biniam Girmay (Intermarché – Wanty) e grazie alla sua Alpecin – Deceuninck, soprattutto a Mathieu Van Der Poel che lo ha lanciato al meglio verso il traguardo, riapre la lotta per la maglia verde, caduto poco prima dell’ultimo chilometro Girmay, al secondo posto arriva Phil Bahaus (Bahrain – Victorious), terzo invece un redivivo Alexander Kristoff Uno-X Mobility.
Riparte il Tour de France dopo l’ultimo giorno di riposo per l’ultima settimana, non partono, invece, le azioni di fuga ed il gruppo, di fatto, resta ancora in una condizione di “riposo” lungo i chilometri che da Gruissan portano a Nîmes. Non c’è nemmeno il tanto temuto vento, caratteristico di queste zone, a farsì la tappa diventi frizzante con la formazione dei ventagli. Tutti insieme appassionatamente per una tappa che non vede nessun allungo per quasi due ore di corsa. La velocità aumenta in testa al gruppo soltanto al traguardo con punti per la maglia verde, siamo al chilometro 96, la volata la vince Bryan Coquard (Cofidis), seguito da Jasper Philipsen (Alpecin – Deceuninck), terzo Anthony Turgis (Total Energies) mentre quarto la maglia verde Biniam Girmay (Intermarché – Wanty). Il belga rosicchia quattro punti all’eritreo che conserva un vantaggio rassicurante nella speciale classifica. Dopo la sfiammata dello sprint il gruppo si ricompone, la velocità diminuisce e ne approfitta Thomas Gachignard (TotalEnergies) guadagnando in poco tempo più di due minuti sul gruppo. Il ventitreenne francese transita per primo sull’unico GPM di quarta categoria di giornata, la Côte de Fambetou. Ai meno 25 chilometri dall’arrivo Gachignard viene ripreso con le squadre dei velocisti che iniziano il valzer delle cosuete operazioni in testa al gruppo per prendere le posizioni migliori e tenere al riparo il proprio uomo veloce. In particolare sia la Uno-X Mobility sia Lotto Dstny conducono il gruppo innalzando la velocità. Una serie infinita di rotonde costringe il gruppo a fare da elastico, i treni vanno a rimescolarsi continuamente in pratica fino ai meno 2 chilometri dall’arrivo. Poco prima del triangolo rosso dell’ultimo chilometro una caduta coinvolge Marijn van den Berg (EF Education – EasyPost) ma soprattutto Biniam Girmay, l’eritreo resta a dolorante a terra e taglierà il traguardo scortato da due compagni di squadra, si spera senza conseguenze, in attesa di notizie ufficiali dalla Intermarché – Wanty. A causa della caduta il gruppo si spezza, davanti sono abilissimi ed espertissimi come sempre gli Alpecin – Deceuninck a togliersi dai guai e condurre, così con la solita eccezionale spaarata di Mathieu Van Der Poel, jasper Philipsen a conquistare il suo terzo successo al Tour de France 2024, il belga vince facile su Phil Bahaus (Bahrain – Victorious) e su Alexander Kristoff (Uno-X Mobility), quarto posto per Sam Bennet (Decathlon AG2R La Mondiale Team), quinto per Wout van Aert (Team Visma | Lease a Bike) rimasto un pò chiuso nel finale. Si riapre quindi la sfida per la classifica della maglia verde che vede sempre al comando Girmay segue Philipsen con soli 32 punti da recuperare. Nulla cambia, invece, in classifica generale con Tadej Pogacar (UAE Team Emirates) sempre in maglia gialla. Domani tappa numero 17 da Saint Paul Trois Châteaux a Superdévoluy verso l’arrivo ben tre GPM di seconda, prima e terza categoria, concentrati nei 40 Km finali, che possono prevedere delle imboscate tra gli uomini di classifica.
Antonio Scarfone
APPENNINO ANCORA ROSSOCROCIATO, A GENOVA ARRIVO SOLITARIO DI JAN CHRISTEN
Un altro successo svizzero al Giro dell’Appennino. Dopo la vittoria di Marc Hirschi lo scorso anno, domenica a imporsi è stato Jan Christen, giunto in solitaria sul traguardo. Secondo posto per Velasco davanti ad Ulissi.
Il Giro dell’Appennino, sempre alla ricerca di una collocazione in calendario che lo riporti ai fasti del passato, si è corso domenica da Novi Ligure a Genova. Il tracciato prevedeva nell’ordine il Passo della Castagnola (2.9 Km al 5% medio), il Passo dei Giovi (2.3 km al 4,5%), la Crocetta d’Orero (9 km al 3.4%), la salita di Pietralavezzara (6.2 km al 7.7%) e infine quella della Madonna della Guardia (6.9 km al 7.9% di media, con un tratto al 21%), per poi approdare nel salotto buono di Genova, Via XX Settembre, familiarmente chiamata Via XX dai genovesi.
La corsa è iniziata con la classica fuga della prima ora, promossa dall’australiano Samuel Jenner (BridgeLane), dal britannico Zachary Walker (Rime Drali), dal sudafricano Travis Stedman (Q36.5 Continental) e dagli italiani Gabriele Casalini (MBH Bank-Colpack-Ballan), Simone Lucca (Rime Drali), Alessandro Morra (Biesse-Carrera) e Simone Olivero (Corratec-Vini Fantini). Il gruppo, controllato da UAE e Arkea, li ha lasciati fare mantenendo un gap sempre al di sotto dei 5 minuti. L’azione dei battistrada, caratterizzata dall’allungo di Walker e Casalini prima, e da quello di Walker poi e dal ricongiungimento di Stedman su Walker, termina ai piedi della salita di Pietralavezzara, tratto iniziale del celebre Passo della Bocchetta, salita simbolo del Giro dell’Appennino. È da quel momento che la corsa cambia svolgimento. Con il traguardo che si avvicina e con due salite di tutto rispetto ancora da percorrere entrano in gioco i big. Il primo a muoversi è lo svizzero Jan Christen (UAE Emirates), raggiunto quasi subito dal belga Jarno Widar (Lotto Dstny Development), dal britannico Paul Double (Polti-Kometa), dall’ecuadoriano Jonathan Caicedo (Petrolike), dall’eritreo Nahom Zerai (Q36.5 Continental) e dal neozelandese Finn Fisher-Black (UAE Emirates).
Dietro l’Astana e la solita Arkea si organizzano e nella successiva discesa si riportano sui battistrada con Alessandro Verre (Arkéa-B&B Hotels), Christian Scaroni e Simone Velasco (Astana), presto raggiunti dal francese Louis Barré (Arkéa), dagli italiani Filippo Baroncini (UAE) e Diego Ulissi (UAE) e dagli spagnoli Jon Aguirre (KERN Pharma) e Unai Iribar (KERN). Se la discesa ha portato bene al drappello di inseguitori, non si può dire lo stesso per il belga Widar, recente vincitore del Giro d’Italia Under23, caduto proprio il quel tratto. Il gruppetto affronta l’ultima salita e si accende la bagarre. I primi a staccarsi sono Zerai, Scaroni e Aguirre. Poco prima del tratto al 21 % c’è l’attacco di Christen e Double. Quest’ultimo da fondo a tutte le sue risorse per tenere la ruota dello svizzero, ma senza successo. Comincia così la galoppata vittoriosa di questo ventenne nato a Leuggern il 26 Giugno del 2004. La sua squadra, in superiorità numerica rispetto alle altre del gruppo inseguitore, fa buona guardia e smorza tutti i tentativi di coloro che volevano riportarsi sul fuggitivo. L’unico tentativo andato a buon fine è quello della coppia Velasco-Ulissi, valido però solo per i conquistare i restanti gradini del podio della corsa genovese.
Christen si è così aggiudicato la corsa con 56″ di margine su Velasco e sul compagno di squadra Ulissi. Più staccato, a 1′18″, è arrivato Baroncini, che ha preceduto Caicedo, Barré, Double e Verre. A 1′20″ Iribar e Fisher-Black hanno completato la TopTen.
Il successo di domenica, unito a al quinto posto ottenuto a febbraio al Treofeo Laigueglia, ha permesso al giovane svizzero di conquistare anche la Challenge Liguria, che premia appunto il corridore autore dei migliori piazzamenti nelle uniche due gare liguri del calendario professionistico.
Mario Prato
TUTTO MOLTO BEILLE, MA NON C’È PLATEAU: CITIUS, ALTIUS, FORTIUS IN UN TOUR SENZA LIMITI
Jonas Vingegaard e la sua Jumbo Visma vanno “all in” e puntano tutto sull’autentica tappa regina dei Pirenei nonché, con buona pace della Bonette, di tutto il Tour. Gli ingredienti ci sono tutti per portare Pogacar al limite. Manca all’appello solo il limite stesso, che lo sloveno non pare più avere.
Era una tappa pirenaica come tante altre, quel giorno di mezz’estate del 1998, ma quel giorno lui attaccò. Pantani era reduce dalla durissima vittoria al Giro contro un Tonkov quasi incrollabile e dopo una solo cronometro in terra francese aveva quasi cinque minuti di distacco nella classifica generale del Tour, gara allora riservata a quanti fra i cronomen sapessero rendere anche in salita, e viceversa sostanzialmente preclusa agli scalatori puri. Per capirci, quella prima autentica cronometro prevedeva da sola altrettanti km – circa 60 d’un colpo – quanto tutto il TDF 2024 (inoltre era stata preceduta, per non farsi mancare nulla, da un cronoprologo, e ce ne sarebbe stata al penultimo giorno un’altra equivalente). Il giorno prima di Plateau de Beille c’era già stata una cavalcata pirenaica di 200 km con oltre 5 mila metri di dislivello e sul Peyresourde conclusivo, prima di un arrivo in discesa, Pantani aveva tentato la stilettata, rosicchiando poco più di venti secondi al titanico Ullrich. Non si era nemmeno levata la bandana.
Il giorno dopo ci sarebbe stata, appunto, la scalata a Plateau de Beille e dopo nemmeno un chilometro il pirata salutò tutti. 13 chilometri di quasi assoluta solitudine, interrotti da un sorpasso al fuggitivo di giornata più macchinoso del previsto, e 100 secondi strappati all’avversario tedesco. Si vedeva a occhio nudo che non era ancora il Pantani devastante in salita, usciva dal recupero post Giro come chi esce da un letargo, da una sbornia o da una lunga febbre. Quel giorno si capirono due cose: che Ullrich non avrebbe mai e poi mai perso il Tour a base di attacchi normali come quello di Plateau de Beille, l’unica opzione era che venisse portato al limite e poi da quel limite ancora un passo oltre, nel baratro della crisi; la seconda cosa importantissima che qualcuno solo qualcuno intuì, tuttavia, è che quel limite, pur ancora non sfiorato, eppure da qualche parte, fra le alte cime, esisteva. Difficile dire chi si potesse contare nel novero di quei “qualcuno” fra gli esperti di ciclismo o gli altri atleti, ma di una persona lo sappiamo per certo: Pantani stesso. Bisognava però uscire dagli schemi dell’attacco finale, pur di lungo raggio, e pensare a un altro ciclismo. Il ciclismo dell’invenzione e del viaggio nell’inesplorato.
Quel giorno di mezz’estate del 1998 Pantani stabilì uno dei suoi tanti record di scalata destinati a durare un quarto di secolo e più. Il ciclismo intanto è cambiato molte volte, sono comparsi i trenini in salita, sono comparse le squadre padrone a imporre un ritmo blando fino all’ultima ascesa, sono migliorate le bici, le ruote, le gomme, l’alimentazione, l’allenamento, la scienza. Quello di Plateau de Beille, a differenza per dire dell’Alpe d’Huez, non era un gran record, non era un record fantasmagorico, eppure resse lo stesso, un po’ per inerzia, un po’ per caso, un po’ a testimonianza di un ciclismo che si diceva più pulito ma era solo più pigro nel cuore inteso come animo anche se non nel cuore inteso come macchina da pompaggio.
Ieri, domenica, un altro pomeriggio di mezz’estate sotto il sole del Tour de France, è cambiato tutto e al contempo si è tornati al via, al punto d’origine, alla scaturigine del ciclismo. Tutto è nuovo, tutto è uguale, tutto è diverso.
Il ciclismo è tornato ancora una volta il “mano a mano”, come si dice in spagnolo, il duello uno contro uno, il “salta lui o salto io”, lo scornarsi salita dopo salita, tappa dopo tappa dopo tappa, dopo un’ultima tappa ancora che ha fatto la leggenda di questo sport, da Coppi e Bartali ad Anquetil e Poulidor, e via via fino a Pantani contro Indurain, Pantani contro Tonkov, Pantani contro Ullrich, Pantani contro Armstrong. Al contempo oggi ci sono gli squadroni da mettere al lavoro, i calcoli, le tabelle. La scienza. Il risultato è un record saltato a piè pari da ben tre atleti lo stesso giorno, e pareggiato dal quarto classificato.
Come già detto, ma pure come già accaduto tante altre volte, il lampo atomico dello scontro fra i semidei del ciclismo cancella tutto il resto. Chi si ricorda che cosa accadde dopo la musica da ballo che intercorse fra Coppi e il secondo della Sanremo? Quando Anquetil e Poulidor si scorticarono quasi a spallate sul Puy de Dome nemmeno vinsero la tappa, che andò allo spagnolo Jímenez, seguito da uno dei più grandi scalatori di ogni tempo, Bahamontes, peraltro terzo in classifica generale, capace quel giorno di ridurre il proprio distacco da Anquetil a un minuto e mezzo, strappandogliene più che altrettanto. Ma nella foto gli spagnoli non ci sono, restano fuori quadro, così come su Google la ricerca restituisce a pioggia solo loro due, Anquetil e Poulidor. Nella Merano-Aprica del 1994 la tappa la vince Berzin, che vince pure il Giro: non arriveremo a dire che il vincitore di tappa e generale finale sparisca dal ricordo, ma i colossi protagonisti di quella giornata sono per tutti loro due, Pantani e Indurain.
Questo Tour de France 2024, per ora, è solo loro due: Pogacar e Vingegaard, come da quattro anni in qua (anche se, va detto, nel 2021 il duello fu a stento tale e Vingegaard sgomitava ancora nella categoria di altri due eroi ancora in gara oggi, proprio oggi, come figure da fuga, Enric Mas e Richard Carapaz). Non c’è solo il Tour, nella sfida, ci sono state anche Tirreno-Adriatico, Parigi-Nizza, Paesi Baschi, il tutto però più sporadico e sempre con l’impressione che nello scontro diretto Pogacar prevalesse, come di fatto è accaduto quasi sempre in quelle gare, perché l’avversario non era pienamente investito della missione del massimo rendimento.
Veniamo all’oggi, ai 200 km di tappa (finalmente), ai 5.000 metri di dislivello (finalmente), ai colli durissimi e in serie, ma serie ma molto spaziate fra loro, e questo non sarebbe il massimo come norma e regola generale, seppur nel solco della tradizione del Tour; però i tempi e lo stile sono in realtà assai cambiati sotto il cielo di Francia, come pure per le crono (oggi vanno le tappe corte con salite a raffica concatenate, e non ce ne lamentiamo troppo, se non per la brevità). E allora, suvvia, per una volta anche questa distribuzione delle asperità intercalate di gran fondovalle ci sta tutta, in modo da chiamare in causa anche la strategia, il senso tattico, le alleanze e la gestione, tutti fattori che – giocoforza – si sono andati affievolendo in un ciclismo fatto di scalini così insormontabili fra atleta e atleta, sintomo statistico, peraltro, di valori assoluti davvero eccelsi, non solo di una superiorità relativa.
Gara tattica, gara di testa, gara da pensare, gara di resistenza per eccellenza, dunque, condita da un caldo infernale come da pacchetto vacanze pirenaico (Armstrong che lo odiava ne fu risparmiato dalla sua proverbiale buona sorte tranne che nel 2003): e del caldo si dice che possa costituire un tallone d’Achille di Pogacar, che ama il freddo, la pioggerellina, la nebbia, uomo finora soprattutto d’autunno e primavera, uomo da tappe alpine al Giro in maniche corte.
Tappa anche per le fughe, che dopo anni di abbuffate sembrano pure esse travolte e annichilite dal fuoco e fiamme, fuoco e fiamme, fuoco e fiamme imposto dai grandi team delle volate o delle salite. Parte in effetti una fugona epica, solida, potente, con dentro i capitani fuori classifica sostenuti dai rispettivi gregari. Giungeranno in cinque alla salita finale con un minutino e mezzo da difendere, situazione disperata per chiunque, ma oggi c’è chi sotto sotto un po’ ci crede, siccome oltre al rinato De Plus (talento in salita girato a gregario oggi battitore libero) e al fenomeno nordico Johannessen (come molti nordici e molti sovietici prima, folgorante da under poi più opaco nel professionismo, ma sempre capace di alzate d’ingegno) abbiamo un assortimento di vittorie e podi nei Grandi Giri, fra Carapaz, Mas e Hindley, fra tutti e tre mettono assieme due Giri d’Italia e la bellezza di dieci podi finali fra Italia, Spagna e Francia. Il gotha dei pretenders, ormai non più contenders. Possiamo sindacare sul comportamento scapestrato, come da stereotipo, dell’irlandese Healy che, nonostante l’appoggio ricevuto da Carapaz pochi giorni fa sul Massiccio Centrale, “ricambia” facendo i cavolacci propri, probabilmente anche a danno del compagno, a conti fatti. Possiamo sindacare sulla gestione degli sforzi e dei gregari. Ma. Ma tutto questo non conta un bel niente, perché quando arriva il treno giallo, a pois e bianco di Pogacar, Vingegaard (in maglia a pois per procura) ed infine subito staccato Evenepoel (miglior giovane), testuali parole, “ci si rende conto che fanno un altro sport”.
Ma come è potuto arrivare il gruppo selezionato dei migliori così vicino a cotanta fuga? Risposta, la Jumbo Visma. L’alveare meccanico, pur sparuto e spopolato come dopo una spruzzata di pesticidi sulle verdi campagne, ci ha messo tutto quel che ne aveva per picchiare ritmo duro e cattivo lungo i cinque colli e i duecento chilometri a disposizione. Vedono il Pogacar di Pla d’Adet e rilanciano. Dopo tutto, il loro Tour si è basato finora sull’andare a vedere fino in fondo – metro a metro – ogni rilancio di Pogi, dal San Luca agli sterrati, ai muri vulcanici da grande classica del Massiccio Centrale. Viceversa, quando Pogacar ha potuto fare il proprio gioco in solitaria, in cima al Galibier o, per definizione, nella crono, lì fu dove il distacco si era allargato. Unica eccezione, il sabato. Ma sabato faceva fresco. Ma sabato la salita era corta e lo sloveno aveva fatto la propria sparata dove le pendenze mollavano a breve per mettere a rendimento i falsipiani. Ma sabato la tappa era breve. Ma sabato la tappa era la prima dopo due abbuffate di pianura di quelle che restano più nelle gambe di Vingo che non in quelle dello sloveno.
Il ciclismo è sport di mistero e scoperta. Come sta l’altro? Come starà? Come sto io? Come staremo entrambi dopo esserci entrambi spremuti, chi ha recuperato meglio e chi meno? Chi è più prossimo al fondo del barile, ma soprattutto, al fondo del fondo, che barile ha più fondo? Dai cicloamatori che si dicono sempre gli uni gli altri di aver fatto meno km e di aver più kg del dovuto, sempre a corto di un pizzico di forma, fino ai grandi campioni che devono scoprire le proprie carte per scoprire quelle altrui. Ma nel ciclismo, e non solo, la conoscenza ha un prezzo. E il prezzo consiste nel risucchiare le energie di chi vuole sapere, svelare: appunto, andare a vedere. La strada che ha da andarsi per arrivare a quel “vedere” è lunga e aspra più di ogni salita. Ciliegina sulla torta, alla fine di quella strada molte volte da vedere c’è solamente l’abisso.
Dunque la Jumbo Visma si immola intera nella fornace pirenaica. Alla bocca di Plateau de Beille si attende solo che emerga dal crogiuolo il profeta Vingegaard trasfigurato al calor bianco. Jorgenson come un San Giovanni battezza il gruppo con pedalate sferzanti e impietose, ultimo gregario in un gruppetto in cui di gregari ce ne sono davvero pochi. Non sono più i tempi d’oro dei quattro compagni di squadra su nove uomini di ben altri trenini, pure rivisitati dalla stessa Jumbo in anni recenti. Almeida, luogotenente di Pogacar, si è staccato presto, prestissimo (poi sarà clamorosamente quinto dopo una cronoscalata in autonomia, impresa delle sue, da diesel col pace maker). Con Pogi c’è solo Yates. Con Evenepoel c’è solo Landa. Parentesi d’obbligo: che fenomeno pazzesco Mikel Landa, quarto assoluto di tappa, unico corridore abbondantemente sopra i 30 anni nelle prime venti e passa posizioni sia di giornata, sia della generale; le sue mani basse sul manubrio, un punto fermo delle salite attraverso quattro “generazioni” di ciclismo, mette all’angolo Contador, tira il collo a Froome sia da gregario sia da rivale, spalleggia Carapaz nell’interregno, e ora è ancora il primo degli umani, quando la strada sale, alle spalle dei Mazinga della Generazione Z. Carlos Rodríguez, il leone timido di casa INEOS, ha De Plus davanti dalla fuga.
Poi veramente il nulla. Tocca ammetterlo, perché a differenza dell’era Merckx ma perfino a differenza di quelle di Froome o Armstrong, o anche Indurain, qui c’è la rivalità fra due arcinemici con superpoteri, con Remco e Rogla potenziali spalle a bordo ring, ma il cast dei comprimari è, con rispetto parlando, alquanto modesto. La “lotta” per la top ten, diciamo quella misera dozzina di atleti che per ora (!) resistono al di sotto della mezzoretta buona di distacco, è costituita per 8/12 da UAE (3), Jumbo Visma (2), INEOS (1), Soudal Quickstep (2), sostanzialmente gli uomini che siamo andati nominando finora. Gli altri quattro sono l’italiano Ciccone per la Trek, lo svizzero Felix Gall per la Decathlon, il colombiano Buitrago della Bahrain e il canadese Gee per la squadra israeliana. Salvo Buitrago che forse (forse) ha ancora margini di crescita, sarebbero tutti atleti piuttosto maturi, sia pure con carriere un po’ segnate da peripezie varie, ma senza alcun pedigree nella classifica generale dei Grandi Giri. Ciccone e Gee non hanno mai visto una top ten nemmeno col cannocchiale, Buitrago ha come miglior esito un decimo posto finale in CG e Gall un ottavo. Atleti rispettabilissimi di squadre assolutamente solide, carenate e solventi, team senza complessi di inferiorità. Ma, francamente, ciclisti lontanissimi dalla categoria di talento necessaria per giocarsi un grande giro, contro chiunque, non solo contro gli Z-men. Addirittura ancora lontani dalla possibilità di vincere una corsa a tappe di una sola settimana. Sudare duro per le tappe, quello sì, per le maglie secondarie. Eppure dietro a quella dozzina di protagonisti, capitani o gregari, appartenenti ai suddetti Superteam (e tolti, ovviamente, i fuggitivi del mattino) i migliori per la tappa e per la generale sono proprio questi poco-fantastici quattro, i Meravigliosi Mestieranti. Poi si esce dai venti… primi venti arrivati, e primi venti minuti, quasi, con Carlos Verona.
Questa analisi, oltre a rendere giustizia, sebbene impietosamente, degli altri atleti comunque in lizza per una top ten del TDF, permette di comprendere un’altra questione cruciale. La Jumbo Visma ha fatto il possibile per quasi 200 km, ma erano letteralmente solo loro. Il resto del gruppo, fatti i propri conti, era in modalità sopravvivenza e risparmio. Le salite di tappa sono state affrontate a ritmo allegro, ma sempre un minuto almeno sopra ai relativi record, appartenenti quasi tutti a epoche diverse del ciclismo dagli anni 2000 in qua. Tempi comparabili o peggiori di quelli di un Barguil, di un Kessiakoff, di un Rolland, di un Pineau, di un Malori, se proprio vogliamo perfino di uno Wiggins o di un Voeckler miracolati.
Evidentemente la Jumbo Visma non è più quella capace di spompare con attacchi a raffica e trenate dei gregarioni il Pogi 2022. Tocca allora a Vingegaard l’onere di riscuotere la scommessa. Il Vingegaard 2023 non aveva avuto bisogno del team per abbattere Pogacar con un primo jab sul Marie Blanque e poi un unico diretto ben assestato a crono. Il danese e il suo team attendono questo momento messianico con fede piena, come deve essere. Il mantra recita: fatica tanta, caldo troppo, salita lunga. E Vingegaard esegue il rito a perfezione, allungando ai -10 km dalla fine. Sforzo prolungato, grande salita. Passo asfissiante. Non è che il danese vada piano. Proprio no. Evenepoel capisce subito l’andazzo e va del suo passo. Ma anche un Adam Yates in formissima si ritira subito di scena.
Vingo tira, Pogi a ruota. Implacabile, imparziale, imperturbabile come il karma, giustizia e cattiveria. È finita l’ora dei cambi dati a gratis dopo esser stato ripreso sul Perthus. È finita l’ora delle ruote ciucciate dal danese (e ben a ragione!) sulla polvere degli sterrati. Ora a ruota ci sta lo sloveno, all’altro il compito di stanarlo, scuoterlo, svuotarlo. Vingegaard tira, e tira, e tira. Tira forte, fortissimo, mentre Pogacar s’innaffia di borracce, anche senza mani quasi strafottente, non molla un centimetro. Lo si vede soffrire di tanto in tanto. Oscilla le spalle. China il capo. Sempre ruota a ruota, incollato. O salta lui, o salto io. Ad ogni modo, Vingegaard non vede nulla, né la strafottenza e la sicumera né i cedimenti e la bocca ritorta. Guarda solo avanti, come dev’essere: avanti, dentro di sé, nell’abisso.
Fino a che a un certo punto Vingegaard si volta. Novello Orfeo, ha rotto l’incantesimo, rimarrà solo e non più in coppia. Dopo un quarto d’ora menando, nel mezzo del cammin fra l’attacco e la vetta, Jonas guarda indietro. E, come la moglie di Lot, rimane di sale. Basta quello. Uno sguardo indietro. Pogacar lo vede, lo attacca. E se ne va. Non è un attacco bruciante come altre volte, più una progressione, ma è subito chiaro che il gioco è finito. Se (questo) Pogacar ha dei limiti, non è (questo) Vingegaard a poterli scoprire, a poterli portare allo scoperto. Non oggi, non qui, non ora. Il prezzo da pagare sono altri cinque chilometri di sofferenza solitaria, di abisso.
Pogacar gigantesco: nel vedere la classifica di giornata, i commentatori TV la scambiano per quella generale, per il cumulativo di due settimane intere di Tour. No, ragazzi, è una vita in una salita. Jumbo sconfitta. Vingegaard sconfitto. Seccamente, senza appello. Errori tattici? Forse. Col senno di poi. Ma bisognava provare. Un punto a favore del ciclismo che non ha tutto nero su bianco previamente ben calcolato nel retrobottega. E poi, stando così le cose, va bene così. Stando così le cose un minuto, due o tre è la stessa cosa. Non esiste una differenza atletica a favore di Vingegaard su nessun terreno, punto. Ergo, la differenza va fatta fuori dal terreno delimitato dall’atletismo. Nelle sorprese, nelle invenzioni. Questo era l’ultimo spartito razionale, ed è stato suonato fino in fondo. Ora si tratta di inoltrarsi nel terreno della lucida pazzia. La principale speranza per noi, per il pubblico, è che la gara non venga a risolversi, ora che le gerarchie sono delineate, per fattori esterni o interni di tipo accidentale: cadute, crisi inopinate non provocate dai rivali, problemi di salute estemporanei, esibizionismo poliziesco o giudiziario, ripicche, vendette. Per il resto, ci siamo divertiti e continuiamo a divertirci parecchio. Grazie Pogacar, grazie Vingegaard. La grandezza, per entrambi, sta ed è stata più nel lottare quando si è o si era in condizioni di inferiorità, piuttosto che non nei numeri da record. E un altro giorno toccherà parlare pure di questo fenomenale Remco Evenepoel.
Gabriele Bugada
LONGO BORGHINI REGINA D’ITALIA, IL GIRO WOMEN È SUO
Capolavoro di Elisa Longo Borghini che rintuzza tutti gli attacchi della sua diretta avversaria Lotte Kopecky per poi staccarla sul rettilineo finale. Ultima tappa a Kimberley (Le Court) Pienaar, prima atleta mauriziana a vincere una tappa. Podio di giornata per Ruth Edwards e Franziska Koch, arrivate con la vincitrice.
Finalmente Longo Borghini!!! Finalmente Elisa Longo Borghini (Lidl – Trek) ha scritto il suo nome nella storia del Giro d’Italia Women e lo ha fatto vestendo il simbolo del primato dalla prima all’ultima tappa. Rischiando di perderla, ma senza mai avere paura che questo accadesse veramente. La sua avversaria più forte, la belga Lotte Kopecky (Team SD Worx – Protime), ha messo sulla strada tutta la sua classe e le sue capacità, che sono veramente tante. Ma la Longo Borghini vista in queste otto tappe è stata fredda quando occorreva, calcolatrice, quasi ragioniera all’occorrenza e forte, terribilmente forte e motivata come oggi, quando dopo aver francobollato la ruota dell’avversaria per tutto il giorno l’ha staccata negli ultime centinaia di metri di questo Giro per tagliare il traguardo da sola. E poco importava se la tappa era già stata vinta da Kimberley (Le Court) Pienaar (AG Insurance – Soudal Team), che aveva regolato le compagne di viaggio Ruth Edwards (Human Powered Health) e Franziska Koch (Team dsm-firmenich PostNL).
La vincitrice di tappa, prima atleta provenuiente dalle isole Mauritius ad aggiudicarsi una tappa del Giro, ha detto dopo l’arrivo: “Non ho parole per quello che ho fatto. Era un sogno partecipare a una gara come questa e ora sono qui, con una vittoria di tappa. Ho perso molto tempo in classifica generale, quindi oggi l’intenzione era quella di divertirmi. Ho dato tutto perché non avevo nulla da perdere. È stata una sensazione pazzesca tagliare il traguardo per prima, non la dimenticherò mai. Ancora non ci credo! Non siamo venute al Giro con grandi aspettative perchè la nostra leader Ashleigh Moolman Pasio è caduta al Catalunya e quindi eravamo qui con una squadra molto giovane. Ho provato a tenere in classifica ma poi ho avuto una giornata storta e mi sono concentrata sulle tappe. E’ andata bene così. E’ un grandissimo risultato per il mio paese e spero possa ispirare più persone ad iniziare a praticare questo sport splendido”.
Questa ultima tappa era facilmente ipotizzabile come un lungo duello che vedeva le due prime della classifica, divise alla partenza da un solo secondo. La disponibilità degli abbuoni poteva favorire la belga mentre la determinazione e un’eventuale fuga tornavano a vantaggio della ragazza di Ornavasso. Un “all in” appassionante, che strada facendo sembrava sempre più emozionante e aperto a tutte le soluzioni. La Kopecky pesta sui pedali come solo una campionessa del suo calibro può permettersi. La Longo Borghini tiene botta, risponde ad ogni attacco e non molla mai la ruota della sua diretta avversaria. L’italiana ha interesse che la fuga arrivi, la belga non solo deve annullare la fuga ma deve mettere la propria bici davanti a quella dell’avversaria. I chilometri finali passano veloci e il vantaggio della fuggitive si riduce e perdono anche qualche pezzo per strada. La Kopecky insiste, Longo Borghini resiste. Le fuggitive arrivano e si giocano la tappa, la Longo Borghini da una botta, una sola, e non ce n’è più per nessuno; arriva quarta, da sola, e corona finalmente il suo sogno rosa. Elisa Longo Borghini conquista il Giro d’Italia Women 2024 targato RCS.
“E’ stato l’epilogo incredibile di una settimana perfetta. Mi piace vivere questo tipo di situazioni, essere sotto pressione, lottare gomito a gomito. Sono partita con un secondo di vantaggio ma ero motivatissima a dare tutto, e nel team tutti mi hanno supportato. Vestire la Maglia Rosa finale è qualcosa di speciale, sono orgogliosa di ciò che ho fatto, anche se mi servirà del tempo per metabolizzarlo – poi ha continuato – Questa vittoria è frutto del duro lavoro, perchè non sono nata fenomeno ma nonostante ciò non ho mai smesso di crederci, superando anche momenti difficili, infortuni, periodi in cui volevo riconsiderare la mia carriera. Anche in questa corsa ci sono stati momenti critici come nella terza tappa, in cui ho sofferto il caldo sulla salita finale. Oggi invece ero molto tranquilla, la fuga aveva un buon margine e questa situazione ha portato Kopecky a scoprirsi. Ero un po’ infastidita dal finale di ieri e oggi volevo dimostrare tutto il mio valore. Il mio prossimo obiettivo sono le Olimpiadi ma prima voglio godermi questo successo e la Maglia Rosa che ho tanto sognato e che ora posso finalmente definire mia”.
Onore della armi per la seconda classificata, che può onorarsi di essere la prima atleta belga a salire sul podio della corsa rosa: “E’ bello tornare sul podio di un Grande Giro anche se il margine che mi ha separato dal successo era veramente minimo. – sono state le sue parole – Oggi è stata una tappa durissima, devo ringraziare le mie compagne di squadra che hanno fatto il possibile per aiutarmi. Rispetto molto Elisa, è stata una grande avversaria. Sono soddisfatta e orgogliosa di ciò che ho fatto”.
L’ultimo giorno di un grande Giro è quello delle emozioni ma anche quello dei consuntivi.
Come già detto e ripetuto la maglia rosa è andata alla Longo Borghini con 21″ sulla Kopecky mentre terza a 1′16″ si è piazzata l’australiana Neve Bradbury (Canyon//SRAM Racing) grazie all’impresa del giorno prima nel tappone del Blockhaus.
La maglia rossa della classifica a punti se la porta a casa l’indomabile Kopecky grazie ai numerosi piazzamenti precendendo di 86 lunghezze la Longo Borghini con 68 e di 95 la neozelandese Niamh Fisher-Black (Team SD Worx – Protime), vincitrice a Toano del primo arrivo in salita.
La maglia azzurra dei Gran Premi della Montagna se l’aggiudica la belga Justine Ghekiere (AG Insurance – Soudal Team) davanti alla connazionale Kopecky, mentre la maglia bianca di miglior giovane è andata alla Bradbury, terza in classifica generale. Infine, la miglior formazione è risultata la Liv AlUla Jayco che, messi assieme i tempi delle loro atlete, ha sopravanzato di quasi 10 minuti la Lidl – Trek della maglia rosa.
Il Giro d’Italia Femminile, che nella sua storia ha cambiato più volte nome fino all’odierno Giro d’Italia Women, vanta nel suo palmares solo 5 atlete italiane sul gradino più alto del podio: Maria Canins (1988), Roberta Bonanomi (1989), Michela Fanini (1994), Fabiana Luperini (1995-1998, 2008) e da oggi anche Elisa Longo Borghini.
Mario Prato
GIRO D’ITALIA WOMEN: NEVE BRADBURY VINCE SUL BLOCKHAUS, PER UN SECONDO LONGO BORGHINI È ANCORA IN ROSA
Neve Bradbury (Canyon//SRAM Racing) ha vinto la settima tappa del Giro d’Italia Women, la Lanciano-Blockhaus di 120 km. Al secondo e terzo posto si sono classificate rispettivamente Lotte Kopecky (Team SD Worx – Protime) e Elisa Longo Borghini (Lidl – Trek), divise ora da un solo secondo in classifica
Neve… un nome perfetto per vincere una tappa di montagna. Così si chiama la Bradbury, l’australiana portacolori della Canyon//SRAM Racing. La sua vittoria sul Blockhaus, la salita più dura del Giro d’Italia Women, è nata grazie ad un’attacco portato in solitaria al gruppetto delle migliori che conducevano le fasi salienti sella tappa. “Sono esausta ma felice. – sono state le sue parole dopo il traguardo – Non penso di aver spinto così tanto in vita mia. Quando ho attaccato pensavo soprattutto alla vittoria di tappa ma adesso la situazione si fa interessante anche in ottica Maglia Rosa. Domani ci proverò, non voglio pormi limiti”.
La sua dichiarazione a caldo può sembrare un po’ azzardata, ma grazie all’impresa odierna l’australiana è salita al terzo posto della classifica generale, sempre condotta da Elisa Longo Borghini (Lidl – Trek), oggi terza alle spalle della campionessa del mondo Lotte Kopecky (Team SD Worx – Protime), sua diretta rivale in chiave maglia rosa. Questa coppia di “stelle” ha chiuso la tappa del Blockhaus 44” dopo l’arrivo dell’australiana.
La vittoria della Bradbury è stata fondamentale per la lotta alla maglia rosa perchè l’abbuono di 10” per il primo posto se conquistato dalla Kopecky le avrebbe permesso di passare in testa alla classifica. I restanti abbuoni di 6” e 4” hanno, invece, fatto sì che la belga conquistasse ancora terreno, ma non abbastanza per scavalcare la campionessa italiana, in Rosa dalla prima tappa.
Ovviamente le protagoniste della tappa odierna non sono state solo le prime tre dell’ordine d’arrivo, che in ordine inverso sono anche quelle che occupano i primi tre posti della generale, distante rispettivamente di un secondo e di 1′12″. Tornando all’ordine d’arrivo in quarta posizione dopo 1’07” si è piazzata Pauliena Rooijakkers (Feix-Deceuninck), a 2′02″ Antonia Niedermaier (Canyon//SRAM Racing) e Juliette Labous (Team dsm-firmenich PostNL), a 2′05″ Niamh Fisher-Black (Team SD Worx – Protime), a 2′15″ Gaia Realini (Lidl – Trek), a 4′20″ Mareille Meijering (Movistar Team), Mavi García (Liv AlUla Jayco) e Cecilie Uttrup Ludwig (FDJ – SUEZ). Nella top20 si sono piazzate altre tre italiane: tredicesima Monica Trinca Colonel (Bepink – Bongioanni); quattordicesima Erica Magnaldi (UAE Team ADQ) e dicianovesima Barbara Malcotti (Human Powered Health).
La classifica generale come già scritto vede Longo Borghini e Kopecky divise da un solo secondo, seguite dalla vincitrice odierna, che ha conquistato 8 posizioni e ora è a 1’12”. Nella TopTen troviamo inoltre a 2′01″ la Rooijakkers, a 2′11″ la Labous, a 2′28″ la Niedermaier, a 2′54″ la Fisher-Black, a 3′59″ la Realini, a 4′18″ la Ludwig (FDJ – SUEZ) e a 5′13″ la García
Nelle interviste di rito la prima a prendere la parola è stata la vincitrice di tappa, che ha aggiunto a quanto detto dopo il traguardo: “Sono orgogliosa di me stessa. Non avrei mai creduto di poter vincere una tappa al Giro, e per questo sono estremamente felice. Oggi è stata una giornata molto dura, probabilmente la più difficile che ho passato in bicicletta. Ho attaccato per cercare di vincere la tappa, ma ora tutto cambia anche in ottica classifica generale. Domani farò del mio meglio”.
La Longo Borghini, ben cosciente che la sua maglia rosa è sempre più insidiata dalla campionessa del mondo, ha dichiarato: “E’ stata una giornata durissima, ma sono ancora in maglia rosa. Sapevo che Lotte Kopecky sarebbe andata forte, era migliorata molto in salita già l’anno scorso. La nostra è una sfida su molti terreni, lei è più veloce di me e oggi ha sfruttato questa sua qualità. Domani sarà un altro capitolo, voglio riposarmi e provare a rilassarmi il più possibile”.
Ultima a prendere la parola è stata la Kopecky, che indossa anche la maglia rossa, di leader della classifica a punti: “Quello tra me e Elisa è un duello molto emozionante. Oggi ho cercato di guadagnare qualche secondo sprintando nel finale, ma lei è stata molto forte. Sono molto contenta della mia prestazione su questa salita, in una giornata durissima. Domani ho un’altra chance, il percorso mi piace, soprattutto il finale. Cercheremo di controllare la corsa e se avrò le gambe cercherò di conquistare la maglia rosa”.
L’ultima sfida è stata lanciata, la partita a scacchi tra le due prime donne di questo Giro d’Italia Women si concluderà lungo i 117 Km della Pescara-L’Aquila di domani. La tappa presenta un tracciato impegnativo, un classico saliscendi appenninico con il finale cittadino caratterizzato da brevi salite con pendenza anche in doppia cifra, un traguardo più volte utilizzato anche al Giro d’Italia dei “maschietti”
Mario Prato
SUPER TADDEO, ATTACCA SUI PIRENEI E AUMENTA IL VANTAGGIO IN GENERALE
Pogacar manda in avanti Yates come apripista e, dopo il solito scatto violento con cui apre il buco su Vingagaard, lo raggiunge e riprende fiato prima di sparare tutto su pendenze non troppo arcigne e quindi più congeniali ad un corridore potente come lui piuttosto che ad uno scalatore leggero come il danese.
Chi pensa che il Tour sia finito sbaglia di grosso. Può ancora succedere di tutto a partire dalla tappa di domani, dura e lunga, e con tutte le Alpi ancora da affrontare.
Oggi però Tadej Pogacar (UAE Team Emirates) oltre che incrementare il vantaggio in classifica è stato tatticamente perfetto perché ha sfruttato in contemporanea le sue caratteristiche fisiche (il suo scatto violentissimo, irresistibile per chiunque), la squadra (che ha controllato la corsa alla perfezione e Adam Yates che gli ha fatto da punto di appoggio per permettergli di rifiatare) e le caratteristiche del percorso che, negli ultimi chilometri, presentava pendenze decisamente più adatte alla sua potenza piuttosto che alla leggerezza di un corridore come Jonas Vingegaard (Visma)
Ha funzionato tutto alla perfezione e, forse, oltre le più rosee aspettative della maglia gialla e del suo team.
La squadra ha controllato la fuga senza esagerare, senza sfinire del tutto gli uomini, senza imporre ritmi impossibili, tanto che il gruppo maglia gialla è rimasto abbastanza folto sino all’ultima salita.
Dopo una lunga conversazione tra il capoclassifica e Yates c’è stato l’allungo del britannico, cosa che ha costretto la Visma a mettere in testa al gruppo l’unico uomo disponibile per il danese, Matteo Jorgenson, che non è però uno scalatore ed infatti il ritmo imposto non era affatto vertiginoso, tanto che Yates, senza dannarsi troppo, ha guadagnato in breve 20 secondi.
Pogacar, quando le pendenze erano ancora elevate, è riuscito a creare il buco su Vingegaard e Remco Evenepoel (Soudal Quick-Step) con la sua classica rasoiata violenta e a portarsi su Yates.
Il compagno di squadra lo ha aiutato a rifiatare, impedendo però a Vingegaard di chiudere il gap.
Quando ormai le pendenze stavano per calare e Yates era sfinito Pogacar è andato via da solo ed è riuscito ad incrementare il suo vantaggio su Vingegaard che, nel frattempo, aveva staccato Evenepoel.
Su pendenze non troppo elevate si riesce a fare velocità e in questo Pogacar è certamente superiore a Vingegaard, tanto che è riuscito ad incrementare il vantaggio molto più che nella prima parte dell’attacco. Al contrario di quanto accaduto sul Massiccio Centrale, quando forse Pogacar si era anche alimentato male, non solo Vingegaard non è riuscito a chiudere il gap, ma ha tagliato il traguardo con 40 secondi di ritardo.
A 1′10″ è arrivato Evenepoel che, alla prima prova sulle grandi salite, sta dimostrando di essere molto migliorato anche su questo terreno.
In questa tappa Pogacar non ha utilizzato la squadra solo per tirare e controllare la corsa, ma ha capito che poteva sfruttare la superiorità del suo team anche in altro modo e è riuscito infatti a finalizzare l’attacco di Yates anche perché Jorgenson, che era stato utilissimo a Vingegaard sugli sterrati, non è certo al livello di Yates in montagna.
Venendo alla cronaca odierna, la corsa prevedeva un lungo tratto pianeggiante nel quale ci sono stati subiti moltissimi attacchi, che non riescono però a dar vita alla fuga.
Intorno a chilometro 40 riescono ad avvantaggiarsi Bryan Coquard (Cofidis), Mathieu Van Der Poel (Alpecin-Deceuninck), Arnaud De Lie e Cedric Beullens (Lotto Dstny), preso raggiunti da Oier Lazkano (Movistar), Magnus Cort (Uno-X Mobility), Kévin Vauquelin e Raul Garcia Pierna (Arkéa-B&B Hotels). Il gruppo sembra calmarsi e questo porta altri corridori a decidere di inseguire i battistrada. Il gruppo dei contrattaccanti è formato da Christopher Juul-jensen (Team Jayco AlUla), Michał Kwiatkowski (Ineos Grenadiers), Bruno Armirail (Decathlon Ag2r La Mondiale Team), Marco Haller (Red Bull-Bora-hansgrohe), David Gaudu (Groupama-FDJ), Jasper Philipsen (Alpecin-Deceuninck), Rui Costa, Ben Healy e Sean Quinn (EF Education-EasyPost), Victor Campenaerts (Lotto Dstny), Simon Geschke (Cofidis), Louis Meintjes e Biniam Girmay (Intermarché-Wanty), Alexey Lutsenko (Astana Qazaqstan Team) e Fabien Grellier (TotalEnergies)
L’inseguimento viene portato a termine sulle prime rampe del Tourmalet ma, naturalmente, poco dopo l’inizio della salita molto uomini iniziano a perdere contatto, mentre dietro il gruppo viaggia con 4 minuti di ritardo e con la UAE in testa che controlla abbastanza tranquillamente, mentre Pogacar non si trova nella scia dei compagni di squadra bensì nella pancia del gruppo.
Al GPM, dedicato come sempre al ricordo di Jacques Goddet, Lazkano riesce a distanziare Gaudu in un duello che avrà esito opposto sul successivo GPM di Horquette d’Ancizan.
Su questa seconda salita di giornata, però, il gruppo alza il ritmo con l’intervento in testa di Marc Soler (UAE Team Emirates) e anche il gruppetto dei battistrada si riduce grazie all’azione di Healy che si porta dietro Kwiatkowski, Meintjes, Gaudu e Lazkano, con quest’ultimo che disegna della orribili traiettorie quadrate in discesa e perde contatto dagli altri per rientrare in un momento successivo.
Sull’ultima salita il ritardo del gruppo è ormai ridotto a poco più di un minuto ed in testa si portano prima Pavel Sivakov (UAE Team Emirates) poi Joao Almeida (UAE Team Emirates), mentre davanti Healy va via da solo.
Almeida resta davanti per poche centinaia di metri perché a quel punto parte Yates e in gruppo è Jorgenson a mettersi davanti, fino all’affondo di Pogacar che si appoggia a Yates per rifiatare prima di ripartire a tutta. Vingegaard, che in un primo momento riesce a contenere il gap come al solito negli 8-9 secondi, inizia a perdere sempre di più con il passare dei chilometri, tanto che nell’ultimo chilometro accusa un distacco identico a quello accumulato in oltre 3 km e giunge al traguardo con 39 secondi di ritardo.
Attualmente il danese è a quasi 2 minuti dalla maglia gialla, mentre Evenepoel perde la seconda posizione e scende al sul terzo gradino provvisorio con un ritardo di 2′22″, ma può essere soddisfatto della sua prova.
Buona la gara di Giulio Ciccone (Lidl – Trek), che giunge al traguardo con 1′23″ di ritardo e mantiene la posizione in top ten, ottavo con poco più di 9 minuti di ritardo.
Oggi è andata in scena una bellissima tappa, ma le emozioni non sono finite perché domani ci sarà un altro tappone pirenaico con partenza in salita e 5 colli da affrontare prima dell’arrivo sul Plateau de Beille, dove Pantani sferrò un attacco nell’anno che lo avrebbe poi visto firmare l’ultima doppietta Giro-Tour, obiettivo che Pogacar vuole raggiungere in questa stagione
Benedetto Ciccarone
GIRO D’ITALIA WOMEN: LIANE LIPPERT SI PRENDE LA SESTA TAPPA, LONGO BORGHINI TIENE LA MAGLIA ROSA
Successo della tedesca Liane Lippert che si è imposta sul terzetto che ha animato la fuga buona nel finale di gara. Podio di giornata per Ruth Edwards e Erica Magnaldi. Elisa Longo Borghini risponde ad un tentativo di attacco della Kopecky e mantiene la Maglia Rosa a due tappe dal termine
La fuga buona nata nelle fasi finali della tappa premia la tedesca Liane Lippert (Movistar Team), che si è imposta nella San Benedetto del Tronto-Chieti di 159 km, sesta tappa del Giro d’Italia Women. Al secondo e terzo posto si sono classificate rispettivamente Ruth Edwards (Human Powered Health) e Erica Magnaldi (UAE Team ADQ), ultime rimaste del drappello che era riuscito ad avvantaggiarsi insieme ad Ane Santesteban (Laboral Kutxa – Fundación Euskadi) dopo il GPM di Penne.
La vittoria della Lippert, senza nulla togliere al valore delle altre atlete impegnate nella corsa, ha un valore maggiore essendo stata vittima di un infortunio che l’ha tenuta lontano dalle corse per molto tempo, come si evince anche dalle sue dichiarazioni post gara: “E’ una vittoria dal valore immenso anche perchè l’inizio di Giro è stato molto complicato. Ho iniziato ad assaporarla dal momento in cui sono entrata nella fuga ma allo stesso momento dicevo a me stessa di rimanere concentrata. Ho passato dei mesi difficili a causa di un brutto infortunio e voglio ringraziare coloro che hanno creduto in me. Sono molto emozionata perché, dopo l’infortunio che ho avuto, cercavo una vittoria o un buon risultato da dedicare non solo a me stessa ma a tutti coloro che mi sostengono. È stata una giornata dura e calda, il ritmo era molto veloce, per fortuna sono riuscita a entrare nella fuga giusta. Quella di oggi era l’ultima possibilità per me di vincere ed ero molto motivata. Non volevo ripetere l’errore commesso ai Campionati Nazionali, quindi ho deciso di anticipare un po’ lo sprint. E’ andata bene, sono molto soddisfatta”.
Se quella di oggi era l’ultima possibilità per la tedesca di dire la sua, per le “stelle” di questo Giro la sesta tappa è stata la prima di una terna che le vedrà impegnate fino alla fine per la conquista della Maglia Rosa.
Dopo la volata vincente di ieri che ha permesso a Lotte Kopecky (Team SD Worx – Protime) di avvicinarsi alla vetta della classifica, oggi è stata la maglia rosa Longo Borghini (Lidl – Trek) ad aggiudicarsi il round della loro personalissima sfida. La piemontese ha, infatti, prontamente risposto ad un allungo della belga nel finale di gara e, non soddisfatta di averne spento le velleità, è anche andata a vincere la volata del gruppetto che inseguiva le tre di testa, chiudendo in quarta posizione. “Sono felice di aver vinto la volata per il quarto posto anche se non cambia niente per la classifica generale. Non è una sfida tra me e Lotte Kopecky, il livello della gara è molto alto e non si può escludere nessuna dalla sfida per la Maglia Rosa. Domani ci saranno distacchi elevati perchè il Blockhaus è una salita molto selettiva. L’ho provata in allenamento con Gaia Realini e credo che sarà decisiva”.
Domani il Giro d’Italia femminile ha in programma quella che si può definire “Tappa Regina”. Si partirà da Lanciano alla volta della celebre ascesa del Blockhaus, che si raggiungerà in 120 Km. La salita sarà presa di petto due volte, la prima fermandosi ai quasi 1300 metri del Passo Lanciano dopo 11 Km all’8.6%, la secondda prolungando l’ascensione di quasi 5 Km – in tutto sono 16 Km all’8.3% – per portarsi fino a quota 1654, nello stesso luogo dove nel recente passato sono terminate tre tappe del Giro riservato ai professionisti. Nell’occasione l’ascesa finale sarà intitolata ad Alfonsina Strada, la ciclista emiliana che corse tra il 1907 e il 1936 e nel 1924 presa parte, unica donna, al Giro d’Italia maschile: la ricorderà un’opera realizzata dallo street artist toscano Dela Vega e che sarà installata presso il punto culminante della strada asfaltata
del Blockhaus, a 2068 metri du quota, luogo dove nel 1967 era terminata la prima tappa del Giro arrivata lassù, vinta dal “cannibale” Eddy Merckx.
Mario Prato